CONSTANTER ET NON TREPIDE
a cura di D. Giovannozzi, intr. di E. Canone
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Mariano Lenzi. A la valorosa Madonna Aurelia Petrucci
Filone e Sofia. D’amore e desiderio (Dialogo Primo)
Sofia e Filone. De la comunità d’amore (Dialogo Secondo)
di Eugenio Canone
Mi piace vederti fare Platone mosaico
e del numero de’ cabalisti.
Sofia a Filone, Dialoghi d’amore, III
1. Un filosofo ebreo del Rinascimento
I Dialoghi d’amore di Leone Ebreo sono un testo misterioso e, assieme, fortunato. Un testo che oggi è poco letto e anche scarsamente considerato nelle storie della filosofia, pur trattandosi di uno dei capolavori della filosofia del Rinascimento. Leone è un autentico talento filosofico: il suo radicamento nella tradizione culturale giudaica (giudeo-araba) dà all’opera un carattere peculiare, unico nel panorama della filosofia del Cinquecento. A parere di Julius Guttmann, Leone sarebbe il solo vero filosofo ebreo del Rinascimento1, mentre per Colette Sirat i Dialoghi d’amore non potrebbero ritenersi «un libro di filosofia giudaica: è un libro di filosofia scritto da un ebreo»2. Giudizi diversi che mi sembra rendano bene la difficoltà di valutazione di un testo scritto da un autore ebreo aperto a vari orientamenti di pensiero. Si può in proposito notare che nei Dialoghi Leone fa riferimento a Platone, Aristotele, Cicerone, Plotino, Avicenna, al-Frb, ibn Gabrol (Avicebron), al-azl, Averroè, Maimonide come pure alla tradizione della mistica ebraica, la qabbalah. Gli studiosi hanno inoltre individuato, nel testo, richiami significativi ad altri autori: da Tolomeo a Crescas, Pontano, Ficino, Giovanni Pico3.
Va rilevato che la prospettiva filosofica di Leone è il concordismo, ma egli appare per certi versi più disinvolto – al confronto del pur spregiudicato Giovanni Pico della Mirandola – rispetto all’idea di armonizzare la filosofia greco-latina con la sapienza delle Sacre Scritture4, e non solo in relazione a temi specifici del Simposio platonico e del biblico Cantico dei Cantici, che sono i due testi chiave della filosofia d’amore del Rinascimento. Così, per esempio, richiamandosi anche a riflessioni presenti nella Guida dei perplessi di Maimonide, Leone osserva: «La materia prima, che fece Platone eterna, fu per porre la creazione mosaica non nuda di ragione filosofica, perché lui volse essere e parere più presto filosofo che credulo de la Legge», precisando che «basta che la fede non sia offesa da la ragione, ché non aviamo bisogno di mostrarla, perché allor scienzia sarebbe e non fé, e basta credere fermamente quel che la ragion non reprova»5. Nel testo si dà pertanto un serrato confronto tra le dottrine degli «antichi» – come pure dei «moderni» – e i convincimenti dei «fideli»: «noi tutti che crediamo la sacra legge mosaica»6.
L’esistenza stessa dell’autore dei Dialoghi d’amore, sulla quale le notizie sono poche e per lo più incerte7, è una somma di culture e luoghi differenti. Nato a Lisbona probabilmente tra il 1460 e il 14658, il sefardita Yehudah9 Abrabanel (Abravanel, Abarbanel) era primogenito di Isaac Abrabanel, figura di spicco di un’illustre famiglia ebraica. Isaac fu uomo politico e finanziere, nonché un fine commentatore biblico (all’edizione di alcuni suoi commentari collaborò anche Yehudah). Assieme al padre e al resto della famiglia, Leone fu costretto a lasciare nel 1483 il Portogallo e, nel 1492, la Spagna a seguito dell’espulsione degli Ebrei. Negli stessi mesi in cui Cristoforo Colombo scopriva il Nuovo Mondo, la famiglia Abrabanel si trasferì a Napoli; dalla fine del 1492 Leone visse per lo più nella città partenopea e in altri centri della penisola. Non si hanno indicazioni precise circa la data della sua morte. Secondo Isaia Sonne una cronologia della vita di Leone, basata su documenti affidabili, si ferma al 1507, «perché d’ora in poi regna un’oscurità impenetrabile sulla sua sorte»10, mentre per Caramella come pure per Carl Gebhardt si possono considerare attendibili menzioni relative a Leone fino al 1521. Con ogni probabilità Yehudah morì negli anni venti del Cinquecento. Oltre che per i Dialoghi d’amore, Yehudah Abrabanel è citato nelle storie letterarie per uno dei suoi componimenti poetici in ebraico, la mirabile elegia Telunah al ha-zeman (Lamento sul tempo/destino) che è stata presa in esame dagli studiosi anche per la ricostruzione di alcuni episodi della vita dell’autore11.
È da ritenere che quando giunse a Napoli, Yehudah doveva già possedere una solida preparazione filosofico-scientifica e teologica, grazie soprattutto agli insegnamenti ricevuti nella colta cerchia culturale cui apparteneva suo padre. A Napoli, dove svolse anche l’attività di medico12, egli poté – se non entrare in diretto contatto con gli ambienti umanistici della città – avere almeno notizia degli scritti di Giovanni Pontano. In proposito, mi sembra opportuna una puntualizzazione: si possono sottoscrivere le riserve di Sonne circa alcune troppo disinvolte ricostruzioni della biografia di Leone, ma ritengo sia da precisare quanto viene affermato da Carlo Dionisotti nel suo importante contributo del 1959, cioè «che siano favole i presunti rapporti [di Leone] con l’accademia pontaniana»13. Che Yehudah abbia avuto contatti con la cerchia pontaniana non è documentato, ma credo che non si possa escludere una sua conoscenza degli scritti di Pontano già nel suo primo soggiorno napoletano, a maggior ragione trattandosi di testi latini e, come sottolinea Dionisotti, «Leone prima di essere autore dei Dialoghi d’amore era un medico e in quella età un medico che non avesse pratica di latino, che non possedesse il latino scolastico come lingua normale e fondamentale è impensabile»14. È inoltre probabile che già nei primi anni trascorsi a Napoli, e indipendentemente da un suo ipotizzato soggiorno a Firenze dopo il 149215, Leone – la cui formazione filosofica dovette essere primariamente peripatetica e influenzata dalla tradizione scolastica giudeo-araba nonché della qabbalah – ebbe modo di conoscere l’opera di Marsilio Ficino e di altri filosofi che nell’Italia di quegli anni erano impegnati nel recupero del platonismo e del neoplatonismo, in una prospettiva sincretistica che si riflette nei Dialoghi d’amore16.
2. Un bestseller del XVI secolo
I Dialoghi d’amore videro la luce a Roma, postumi e in italiano nel 1535 a cura di Mariano Lenzi17, un oscuro personaggio che è conosciuto solo in virtù di tale curatela, ed efficacemente si è parlato di «preistoria segreta» della prima edizione dell’opera18. Il testo è preceduto da una lettera dedicatoria di Lenzi «a la valorosa madonna Aurelia Petrucci», gentildonna e poetessa senese; manca invece una qualsiasi introduzione di Leone ai Dialoghi. Nella dedica, Lenzi rivendica il merito di aver tali «divini dialogi tratti fuora de le tenebre in che essi stavano sepolti», sottolineando di averli posti «quasi in chiara luce»19 forse con allusione al lavoro di revisione linguistica del testo, e il «quasi» mi sembra termine significativo, come a indicare taluni limiti del risultato raggiunto20. Egli parla del defunto Leone come appartenente al regno delle ombre, ma per noi Lenzi è un’ombra tanto più labile dell’autore dei Dialoghi d’amore.
La pubblicazione dell’opera rinvia ad ambienti intellettuali romani e toscani, in particolare senesi. A un possibile legame di Leone con l’Accademia Romana fa riferimento Carlo Dionisotti, il quale ha segnalato un carme in ebraico – con l’indicazione «Leonis Judei» – apparso in una raccolta di componimenti poetici in memoria di Marco Antonio Colonna e stampato nel 1522 a Roma «in aedibus Jacobi Mazochii Bibliopolae Romanae Achademiae»21. Va inoltre ricordato che Lenzi fu in rapporti di amicizia con il fondatore della romana Accademia della Virtù: il senese Claudio Tolomei22, che era al servizio di Ippolito de’ Medici. Con tale cerchia culturale fu in contatto anche il senese Alessandro Piccolomini, il quale dovette avere notizie precise circa il lavoro di edizione dei Dialoghi d’amore23. In un recente Dizionario bio-bibliografico si legge che Lenzi sarebbe forse identificabile con un familiare di Giovanni Francesco Pico24, nipote del più noto Giovanni Pico con il quale secondo alcuni studiosi Leone avrebbe avuto dei contatti tra il 1492 e il 1494. Quest’ultima congettura si basa fondamentalmente su una testimonianza di Amato Lusitano25 risalente al 1559 e pubblicata nel 156626. Nel testo di Lusitano si afferma che Leone avrebbe scritto un trattato in stile scolastico De coeli harmonia su richiesta del «divino Pico Mirandolano». Per Eugenio Garin si tratta di un riferimento a Giovanni Pico e non a suo nipote Giovanni Francesco 27, ma questa interpretazione è considerata problematica da alcuni studiosi28. L’ipotesi è certo suggestiva, anche perché implica l’eventuale collegamento tra i Dialoghi di Leone e il Commento sopra una canzone d’amore di Giovanni Pico, opera risalente al 1486 e pubblicata solo nel 1519. Ciò confermerebbe l’esistenza di un filo rosso nella tradizione rinascimentale della filosofia d’amore, da Marsilio Ficino e Pico a Leone e oltre. Garin ritiene il legame sicuro, ed egli nota che nei Dialoghi d’amore potrebbero essere rintracciati numerosi spunti che si trovano nel commento ficiniano al Simposio di Platone29 e, soprattutto, nel Commento di Giovanni Pico30. Tristan Dagron ha invece recentemente scritto di non aver individuato nell’opera di Leone tracce significative della filosofia di Giovanni Pico31.
Per le numerose edizioni, i Dialoghi d’amore possono considerarsi un bestseller del XVI secolo. Tuttavia, malgrado il successo dell’opera e la bibliografia crescente, a tutt’oggi sono incerti il periodo della composizione del testo (solitamente si indica 1497-1502/1506 e, più recentemente, 1511-1512) e la lingua in cui esso fu in origine redatto. Si è ipotizzato che il testo sia stato scritto da Leone direttamente in italiano o forse in ebraico o in latino; qualche studioso ha pure congetturato che il testo sia stato composto in spagnolo o in portoghese32. Per Santino Caramella «l’originaria italianità dei Dialoghi resta inconcussa; [...] né toglie però che si pensi, se proprio non se ne vuol fare a meno, ad abbozzi o appunti o primi saggi di stesura in ispagnuolo o in ebraico»33. Vari studiosi ritengono invece che l’opera fu composta dapprima in ebraico tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, e in un secondo tempo tradotta in italiano. Dionisotti ha inoltre supposto l’esistenza di una redazione intermedia in latino «fra il perduto originale ebraico e il volgarizzamento»34. La versione italiana sarebbe stata messa a punto in un periodo di poco anteriore alla stampa del 1535: «la sostanza dell’opera è toscana [...], ma è di una toscanità cinquecentesca matura, impensabile ai primi del secolo, prima, direi, del 1525»35. Sulla base della documentazione disponibile sono possibili varie ipotesi. Ritengo che non si possa escludere che il testo sia stato originariamente composto in ebraico, anche se tradotto in seguito in volgare dallo stesso Leone, semmai con la collaborazione di altri. Penso ovviamente a una prima versione e non al testo poi stampato, testo che fu sottoposto a una o più revisioni linguistiche e rispetto al quale mi sembrano ancora valide le considerazioni di Dionisotti. Ho dei dubbi circa l’esistenza di una redazione latina intermedia, mentre non mi sembra strano che nella prima versione – quella uscita dalla penna di Leone o più vicina al testo originale – ci fossero numerosi latinismi, come pure spagnolismi. Si può pertanto supporre che il lavoro fatto da Lenzi, forse in collaborazione o comunque basandosi su un precedente e pur parziale lavoro di altri, sia stato quello di una revisione e di una ripulitura linguistica di un testo già in volgare.
3. La filosofia dell’amore
Il testo edito da Lenzi comprende tre dialoghi: D’amore e desiderio36; De la comunità d’amore37; De l’origine d’amore. Nel primo dialogo è da sottolineare la definizione di amore come «desiderio di godere con unione la cosa conosciuta per buona» e, quindi, «desiderio di convertirsi con unione ne la cosa amata»; ne consegue la puntualizzazione circa la vera felicità o beatitudine dell’uomo, che consisterebbe «ne l’atto copulativo de l’intima e unita cognizione divina»38. Nel secondo dialogo, Leone sviluppa il motivo dell’universalità dell’amore. La natura, nella sua totalità e in ogni sua parte, non può essere priva d’amore, «perché l’amore è un spirito vivificante, che penetra tutto il mondo, ed è uno legame che unisce tutto l’universo»39. Tale forza vivificante è causa sia dell’essere del mondo che di tutte le cose, ed è grazie all’amore che «tutto l’universo è uno individuo, cioè come una persona»40. Va rimarcato che nel secondo dialogo, Yehudah sviluppa uno dei temi cruciali dell’opera: il concetto aristotelico e scolastico di oressi41, che sarà ripreso anche nel Commento sopra una canzona de amore di Giovanni Pico e negli Eroici furori di Giordano Bruno. Già nel primo dialogo, Leone aveva notato: «Tanto a l’amore quanto al desiderio precede il conoscimento de la cosa amata o desiderata, qual è buona». Nel secondo dialogo, egli si rifà al principio per il quale nessuna cosa si può amare se prima non si conosce, applicandolo all’appetito naturale, sensitivo e razionale. In questo orizzonte, un «natural conoscimento, appetito o amore» si troverebbe non solo negli animali ma anche in metalli, pietre e piante42.
Nel terzo dialogo, che è quello più complesso dell’opera, Leone ritorna su alcuni temi dei dialoghi precedenti alla luce però di un confronto ravvicinato con Platone e la tradizione platonica/neoplatonica. Taluni motivi erano già presenti negli scritti di Ficino e di Giovanni Pico e avranno una notevole fortuna nella cultura rinascimentale, come per esempio l’idea della collocazione intermedia dell’uomo e del duplice orizzonte dell’anima, quindi la concezione di un amore gemino: «perché in effetto sono due l’amori, così come sono due le Veneri»43. È inoltre da segnalare, nel dialogo, una tematica che riguarda l’elevazione e la purificazione della mente con il raggiungimento della più grande beatitudine cui l’essere umano può aspirare: l’amore intellettuale di Dio e la «morte di bacio», quando cioè l’anima riesce del tutto a liberarsi del corpo e a unirsi all’oggetto divino, per cui – scrive Yehudah – «li sapienti metaforicamente declarano che [Mosè e Aronne] morirno baciando la divinità»44. Di notevole interesse sono le riflessioni di Leone sull’argomento che dà il titolo al dialogo: «l’origine d’amore». Su tale questione, egli tiene a precisare la sua posizione nei confronti di Platone45. Yehudah osserva che l’amore ha origine da Dio «e da lui successivamente viene paternalmente discendendo», così come l’amore dell’universo creato avrebbe origine nel mondo angelico, cioè a un grado superiore rispetto al raggio d’azione dell’anima del mondo nella natura46. L’amore supremo rinvia comunque alla sfera della divinità, in quanto il primo amante è «Dio conoscente e volente» e il primo amato è Dio come «sommo bello»47. Dio nulla può desiderare perché tutto possiede; l’amore di Dio è infatti rivolto al mondo: alla produzione e alla conservazione degli enti finiti. Egli desidera la perfezione non per se stesso, essendo già totalmente perfetto, ma per le sue creature: Dio «desidera quel che manca a quel che ama»48.
I tre dialoghi dell’opera hanno una lunghezza tra loro molto diversa: il secondo è il doppio del primo, mentre il terzo dialogo è più ampio della somma dei primi due. Non sembra che Leone si preoccupi di un equilibrio tra le varie parti dei Dialoghi, né che si ripetano nel testo argomenti e considerazioni. L’opera non mira a un’eleganza letteraria né ha come modello i dialoghi platonici49, ma riflette semmai lo schema (struttura e forma) di un’intensa discussione che si dilata nel tempo, e a ragione negli studi sui Dialoghi d’amore si è fatto riferimento alla tradizione scolastica giudeo-araba. L’asimmetria dell’opera può anche significare che Leone ha lavorato in tempi diversi al testo, pur non potendosi escludere l’esistenza di abbozzi dei vari dialoghi50.
Due soltanto sono gli interlocutori dei Dialoghi d’amore: Filone e Sofia. Nell’opera, il ruolo di quest’ultima è quello di porre dubbi, evidenziare sottili distinzioni in un instancabile domandare. Filone, che è da considerarsi una sorta di alter ego dell’autore, è colui che è innamorato di Sofia ma è anche ‘amico di Dio’, proprio in quanto ama la sapienza e la verità51. Il suo ruolo non è solo quello di spiegare, ma anche di conciliare concetti e dottrine. Di talune posizioni ardite di Filone, Sofia mostra i rischi. Così, nel brano da cui ho tratto la citazione che figura in apertura della presente Introduzione, Sofia afferma: «Mi piace vederti fare Platone mosaico e del numero de’ cabalisti52: bastami questo per notizia, come dici, poi che né assoluta ragione né terminata fede mi costringe a queste tali credulità»53.
I Dialoghi – l’ho già ricordato – sono introdotti da una lettera dedicatoria di Mariano Lenzi. Di un quarto dialogo, sugli «effetti d’amore», si accenna nel dialogo terzo54, ma è dubbio se effettivamente fosse composto dall’autore. Nonostante la carenza della documentazione al riguardo, mi sembra si possa comunque escludere che il dialogo sia stato completato da Yehudah, il quale aveva forse lasciato solo degli abbozzi di esso55. In proposito, va rilevato che del tutto fantasiosa appare l’ipotesi di David Harari, il quale ha ritenuto di individuare le tracce di tale presunto quarto dialogo negli Eroici furori di Giordano Bruno56. Per quanto attiene poi alla discussa questione del rapporto tra il filosofo nolano e Leone Ebreo, si può affermare che con ogni probabilità Bruno avrà letto i Dialoghi d’amore, anche se nei suoi scritti egli non fa mai riferimento né al testo né al suo autore. Nei Furori si possono senz’altro individuare diversi motivi presenti nei Dialoghi di Leone e si tratta di temi importanti, come l’idea di sproporzione tra infinito e finito, di tensione della mente umana verso l’infinito, così come la concezione del legame tra intelletto e volontà nella ricerca dell’oggetto infinito, nonché l’idea di amore e beatitudine intellettuali. Va però osservato che alcuni concetti erano variamente presenti in testi della tradizione peripatetica e neoplatonica; merito di Abrabanel e di Bruno è stato di aver sviluppato quei concetti in una prospettiva nuova57.
Nei Dialoghi d’amore si possono rintracciare taluni motivi eterodossi, per esempio l’idea di anima intellettiva agente che riguarda tutti gli uomini e l’idea di «copulazione» dell’intelletto possibile con l’intelletto agente, come pure la concezione di uno Spirito divino nel senso platonico-neoplatonico di «sommo intelletto pieno de idee» o di «Verbo ideale»58. Naturalmente è da considerare anche il concetto di anima del mondo e il rapporto, sempre problematico, tra anima universale e anima umana individuale59. Come ho già notato, la prospettiva filosofica di Leone è il concordismo, con il tentativo di trovare un accordo tra la filosofia greca e la sapienza delle Sacre Scritture, escludendo il Nuovo Testamento. Per evitare probabilmente la censura, nelle edizioni dei Dialoghi stampate a Venezia nel 1541 e 1545 dagli eredi di Aldo Manuzio, il frontespizio recita: composti per Leone medico, di natione hebreo, et dipoi fatto christiano, una falsa indicazione che non appare nelle edizioni successive dell’opera60. Del resto, già nella princeps figura un passaggio («et ancor santo Giovanni evangelista») che è da ritenersi con ogni probabilità un’interpolazione, da addebitare a Lenzi o ad altri che rividero il testo originale61. I Dialoghi d’amore furono comunque inseriti, seppure con la formula donec corrigatur, nell’Indice dell’Inquisizione portoghese del 1581, nel quale si precisa che la proibizione concerne principalmente alcune «favole giudaiche e platoniche»62. Una medesima proibizione figura nell’Indice romano del 1593 in cui, nella sezione «Libri volgari italiani», l’opera è registrata: «Dialogi di Lione Hebreo, se non saranno emendati»63. Nonostante le proibizioni, i Dialoghi d’amore ebbero una notevole fortuna europea che si prolungò per tutto il Cinquecento, con varie ristampe e traduzioni in francese, spagnolo e latino64. La versione latina di Saraceni del 1564 figura anche tra le ‘fonti’ del terzo volume del Seminarium totius philosophiae di Giovanni Battista Bernardi, una monumentale concordanza di testi filosofici della tradizione aristotelica e platonica stampata a Venezia negli anni ottanta del Cinquecento65. È stato ricordato che tra il 1535 e il 1607, i Dialoghi d’amore ebbero venticinque edizioni66; tuttavia, al di là di tale dato, la fortuna europea dell’opera continuò lungo il Seicento e, in qualche misura, anche nel secolo successivo67, quando il testo poté forse suscitare un certo interesse per le riflessioni sul concetto del bello68.
1460-65Leone Ebreo – al secolo Yehudah Abrabanel – nasce a Lisbona. Primogenito di Isaac Abrabanel, tesoriere e ministro di re Alfonso V e insigne teologo, viene presto avviato dal padre agli studi talmudici e cabalistici, alla filosofia greca classica e alla Scolastica araba, ebraica e latina. Con ogni probabilità gli fu maestro in medicina Giovanni Sezira, amico del padre Isaac.
1483Leone lascia la città portoghese seguendo suo padre, rifugiatosi in Spagna dopo i rovesci di fortuna seguiti alla morte di Alfonso V. In Spagna rimane con tutta la famiglia fino alla cacciata degli Ebrei del 1492. Non esistono documenti che attestino il suo impiego a corte come medico dei re cattolici; più verosimile è che egli affiancasse Isaac nel ruolo di consigliere finanziario della corte.
1492Alla fine dell’anno, insieme a suo padre e alla famiglia Leone sbarca a Napoli, dove si occupa della gestione degli affari di famiglia, essendo Isaac impegnato a concludere il suo commento ai Profeti, cominciato in Spagna. Non esistono evidenze di un suo soggiorno a Firenze tra 1492 e il 1494, ipotizzato da taluni biografi.
1495-96Dopo il sacco di Napoli, mentre Isaac trova rifugio prima a Corfù poi a Monopoli, Leone si reca a Genova con il resto della famiglia e vi rimane per un breve periodo, fin quando nel Regno di Napoli le cose volgono in favore degli Aragonesi e la famiglia può ricongiungersi al padre Isaac, sul principio del 1497, a Monopoli.
1498-99Isaac prende dimora a Barletta, rientrando al servizio di re Federico d’Aragona, accompagnato e sostenuto da Leone.
1501Il 10 maggio un salvacondotto raccomanda di facilitare il trasferimento da Barletta a Napoli di «don Isacco et maestro Leone phisico [...] con la loro famiglia». Con ogni probabilità la famiglia Abrabanel non fa uso del salvacondotto e rimane a Barletta, stavolta stringendo relazioni con il gran capitano Gonsalvo di Cordova, che aveva stabilito in città la base delle operazioni militari spagnole.
1503Va ricondotta presumibilmente a questa data la partenza da Barletta per Venezia, che coinciderebbe dunque con l’entrata di Gonsalvo a Napoli (maggio 1503) e la fine delle operazioni militari spagnole condotte dalla cittadina pugliese.
1504A Venezia Leone riceve l’invito del gran capitano, diventato viceré, a rientrare al suo servizio, allontanandosi così per la prima volta dalla sua famiglia. Di questa distanza sarebbe testimonianza la lettera di risposta di Isaac a Saul Cohen risalente al 1507, in cui di Leone si dice che si era assentato da Venezia per circa due anni. Con questo documento si ferma la ricostruzione biografica di Isaia Sonne (Intorno alla vita di Leone Ebreo, «Civiltà moderna», VI, 1934), che ritiene non potersi trattare con certezza di Leone nei documenti che sembrano nominarlo successivamente a quella data, essendo il suo un nome piuttosto comune.
1516Secondo la ricostruzione di Santino Caramella (cfr. la Nota che segue l’edizione dei Dialoghi d’amore, Laterza, Bari 1929), Leone sarebbe presente a Ferrara.
1520Viene pubblicato a Pesaro il Commento di Isaac ai Profeti, preceduto da una elegia di commemorazione scritta da Leone. Il 28 dicembre un documento riguardante la posizione giuridica e fiscale degli Ebrei del Regno di Napoli riserva ampi privilegi a un «Leon Abravanel medico y su casa». Se ne desumerebbe quindi che la tolleranza seguita all’ascesa al trono di Carlo V avesse ricondotto Leone a Napoli.
1521Il 15 maggio un rescritto emanato da Francesco Ferdinando conferma i privilegi del precedente. Secondo la testimonianza di Marin Sanudo, Leone avrebbe curato con successo (tra marzo e giugno) il cardinale di San Giorgio, Raffaele Riario, e intercesso favorevolmente perché si vietasse la pubblicazione dell’editto che imponeva anche a Napoli, come a Venezia, che gli Ebrei portassero la berretta gialla. Dopo il 1521 i documenti a noi noti tacciono circa le sorti di Leone. È certo comunque che l’autore era morto alla data di pubblicazione a stampa dei Dialoghi d’amore, cioè nel 1535.
La presente edizione dei Dialoghi d’amore di Leone Ebreo segue il testo messo a punto da Giacinto Manuppella e pubblicato a Lisbona nel 1983 per l’Instituto Nacional de Investigaçâo Científica. Quello proposto dallo studioso portoghese è il testo risultato dalla ricognizione dell’editio princeps dei Dialoghi (Roma, per i tipi di Antonio Blado, 1535), di alcune tra le più autorevoli stampe successive, dell’edizione del solo dialogo ii curata da Leonardo Marso (senza data né indicazioni tipografiche, che Manuppella considera la prima, anche se parziale, edizione a stampa dell’opera) e dei tre codici apografi del solo dialogo iii (Biblioteca Apostolica Vaticana, Codici Patetta 373 e Barberiniano Latino 3743; British Library, Codice Harleyano 5423). L’edizione di Manuppella assume inoltre come punto di riferimento il testo stabilito da Santino Caramella e pubblicato nella collana «Scrittori d’Italia» dell’editore Laterza nel 1929.
Si è riscontrato sistematicamente il testo critico di Manuppella con la stampa cinquecentina, utilizzando l’esemplare ristampato anastaticamente nel 1929 da Carl Gebhardt (Bibliotheca Spinozana, curis Societatis Spinozanae, tomus iii); si è inoltre tenuto presente – soprattutto nei punti più controversi – il testo dell’edizione Caramella. Allo scopo di proporre un testo omogeneo, sottoposto in ogni sua parte alla stessa revisione stilistica e quanto più possibile vicino a quello che ebbe ampia e fortunata circolazione lungo tutto il XVI secolo, si sono riproposte le lezioni attestate nella princeps nel caso in cui le varianti accolte da Manuppella non fossero necessarie a una migliore intellegibilità del testo, ma restituissero semplicemente una fase antecedente alla sistematica ripulitura linguistica cui esso fu sottoposto, compiutasi solo nell’edizione a stampa (a titolo esemplificativo: a p. 292 reintegro l’aggettivo bisognosa in luogo di indigente e il sostantivo mancamento al posto di indigenzia, perché semplici varianti formali, ma accetto affluente intelletto in luogo di influente intelletto per il valore sostanziale della correzione). Si è intervenuti inoltre sulla punteggiatura, modernizzata secondo le esigenze di comprensione e di sintassi; si sono utilizzate le virgolette caporali (« ») per le citazioni all’interno del testo e gli apici (‘ ’) per le citazioni all’interno di citazioni; si è utilizzato il corsivo per i titoli di opere, le parole latine, i termini e le espressioni che si volevano evidenziare, per esempio la prima occorrenza di sintagmi particolarmente carichi di significato (anima del mondo, primo fattore, sommo bello, primo motore, somma sapienza). Nel corpo della parola si è ricorsi all’accento nel caso in cui questo servisse a evitare equivoci, utilizzando l’accento grave in caso di suoni aperti (dèi) e l’accento acuto nel caso di suoni chiusi (séguito); si è posto l’accento anche sulla vocale tonica dei plurali che potevano generare equivoci (princìpi, prìncipi). Si è modificato l’uso delle maiuscole – quanto mai incostante nell’edizione cinquecentina – limitandolo ai nomi propri, ai nomi dei pianeti, al Sole, alla Luna e alla Terra; si è optato per la forma minuscola di termini quali divinità, dèi ecc. Nella presente edizione i nomi dei due interlocutori dei dialoghi figurano in maiuscoletto, seguiti da un doppio spazio e da un punto, in luogo del grassetto utilizzato nell’edizione portoghese. Le parentesi quadre ([ ]) segnalano l’intervento dei curatori a integrazione e correzione del testo.
Si riportano di seguito – a titolo esemplificativo – alcune modifiche introdotte rispetto all’edizione di Giacinto Manuppella, raggruppate per tipologie (a sinistra del simbolo > è fornito il numero di pagina, la linea e la lezione dell’edizione di Manuppella, a destra la lezione accolta nella presente edizione):
a) integrazioni o espunzioni sulla base dell’editio princeps:
p. 6,26 Questo medesimo > p. 11,11 Questo medesimo difetto
p. 6,27 quella che è > p. 11,12 quella cosa che è
p. 39,1 beati e intelligenzie separate > p. 46,17 beati angeli e intelligenzie separate
p. 53,6 vorrei che ti > p. 59,7 vorrei che tu ti
p. 240,23 Elia sono > p. 263,29 et ancor santo Giovanni Evangelista
p. 248,29 l’amore è figlio > p. 273,1 l’amore onesto è figlio
p. 307,9 belli suoi amatori > p. 335,23 belli li suoi amatori
p. 310,16 fine, de le delettazioni > p. 339,1 fine le delettazioni.
b) interventi e integrazioni congetturali:
p. 5,3 che, se m’ami > p. 9,23 ché, se m’ami
p. 10,27 nasce immediate nuovi desii > p. 15,16 nasceno immediate nuovi desii
p. 75,34 facile d’assolvere > p. 84,12 facile da solvere
p. 70,18 si genera > p. 78,13 sì genera
p. 287,31 bellezze incorporee intellettuali, – > p. 314,18 bellezze incorporee intellettuali [li fa belli],
c) lectiones della princeps preferite a quelle di Manuppella, considerate ipercorrettive:
p. 26,7 attraerci > p. 32,5 tirarci
p. 133,15 celesti > p. 149,30 celestiali
p. 149,6 eserceno > p. 165,19 esercitano
p. 186,25 maniera > p. 206,4 modo
p. 191,28 solum > p. 211,17 solo
p. 201,3 carenzia > p. 221,9 mancamento
p. 204,11 in infinitum > p. 224,28 in infinito
p. 212,18 germinazione > p. 234,2 generazione
p. 213,28 filosofale > p. 235,16 filosofica
p. 219,14 obietto > p. 241,16 oggetto
p. 245,1 processione > p. 268,32 derivazione
p. 261,12 estratto > p. 286,11 cavato
p. 266,7 opulento > p. 291,23 ricco
p. 267,1 indigente > p. 292,18 bisognosa
p. 267,9 indigenzia > p. 292,26 mancamento
p. 268,26 società de l’indigente > p. 294,9 compagnia de la bisognante
p. 268,32 Venere minore > p. 294,15 Venere inferiore
p. 279,16 provengono > p. 305,22 derivano
p. 285,18 arrembandosi > p. 311,38 accostandosi
p. 304,14 «In principio creauit Deus» > p. 332,16 «In principio creò Dio».
d) lectiones della princeps preferite a quelle di Manuppella perché ritenute più corrette:
p. 59,27 inclinazioni naturali «amore sensitivo»? > p. 66,5 inclinazioni naturali e sensitive, amore?
p. 81,25 conservargli > p. 90,30 conservarle
p. 84,7 sensi > p. 93,33 senso
p. 91,7 quella sorte > p. 101,18 questa sorta
p. 163,18 la luce da l’intelletto > p. 181,12 la luce de l’intelletto
p. 163,18 de la parte superiore > p. 181,12 da la parte superiore
p. 188,3 (come lui vuole): inferire > p. 207,23 (come lui vuole inferire)
p. 221,4 resplendore > p. 243,10 resplendere
p. 265,22 essendo cenati > p. 290,34 avendo cenato
p. 313,5 belle e non buone > p. 341,34 buone e non belle.
Riguardo alla messa a punto del testo dei Dialoghi d’amore e a problemi di critica testuale cfr., in particolare, C. Dionisotti, Appunti su Leone Ebreo, «Italia Medievale e Umanistica», II, 1959, pp. 409-428; P. Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani, 1470-1570, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 193-196. Per taluni aggiornamenti bibliografici e indicazioni di fonti, si veda inoltre la recente edizione della traduzione francese cinquecentesca di Pontus de Tyard:Léon Hébreu, Dialogues d’amour, texte établi par T. Dagron et S. Ansaldi, introduction et notes explicatives par T. Dagron, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2006.
D.G.
Fu antichissima usanza de gli scrittori di Egitto i santissimi libri da loro scritti indirizzare3 a Mercurio4, perciò che essi stimavano che tutte l’arti, tutte le scienzie, tutte le belle cose fussero state da Mercurio ritrovate, e ch’a lui, come ad inventor d’ogni cosa, si convenisse render grazia di ciò che l’uomo imparava o sapeva. E per questo Pitagora e Platone e molti altri gran filosofi andarono per imparar filosofia in Egitto5, e per lo più l’appresero da le colonne di Mercurio6, le quali erano tutte piene di sapienzia e di dottrina. Io similmente, valorosa Madonna, giudico ciò che si può fare da coloro c’hanno conosciuta l’altezza de l’animo vostro, convenirsi a voi; e che i loro bei pensieri nutriti dal divino spirito vostro si debbino rivolgere in voi, e, in onor del vostro nome, quanto possono, affaticarsi: conciosiacosa che non meno imparino le vere virtù ne l’essempio de la vita vostra, che facessero quegli antichi filosofi ne le colonne di Mercurio. Ché se quale sia la nobiltà, l’altezza, la gentilezza de l’animo vostro si pon mente, quanta l’onestà, la cortesia, la grazia si riguarda, quale la prudenzia, l’accorgimento, la sapienzia si considera, e finalmente a parte a parte ogni vostra virtù si rimira, vedesi certo, dagl’ingegni purgati, altro non esser la vita vostra se non uno specchio e una idea del modo come si convenga vivere agli altri. E quelli che, infangati ne le cose terrene, non possono alzarsi in un subito a questo celeste pensiero, purché voltino gli occhi in voi, illustrati7 dal vostro raggio, a poco a poco si purgano, e de l’alta contemplazione de la vostra divinità si fanno degni.
Conoscendo io pertanto questo debito comune e mio, ho fatto come coloro che, non potendo satisfar del proprio, pagano de l’altrui; ché desiderando scioglier parte di questo grande obligo ch’io ho con voi, e, per la povertà de l’ingegno mio, non potendo mandarvi frutto che di me stesso sia nato, ve lo mando nato negli altrui giardini: i libri, cioè, d’amore di Maestro Leone, sotto titolo di Filone e Sofia: casto soggetto d’amore, a donna casta che spira amore; pensieri celesti, a donna ch’è ornata di virtù celeste; altissimi intendimenti, a donna ripiena d’altissimi concetti.
Così ho voluto più tosto con quel d’altri mostrarvi l’animo ch’io ho di satisfarvi, che prolungar, per la povertà mia, la satisfazione di tanto debito. Benché stimo (quando pur vi penso) far in un tempo due non piccoli guadagni: scioglier parte di questo obligo con voi, e obligarmi (se l’ombre obligar si possono)8 Maestro Leone. Ché avendo io questi sui divini dialogi tratti fuora de le tenebre in che essi stavano sepolti9, e postoli quasi in chiara luce, e al nome di sì valorosa Donna (come voi sete) raccomandatili, credo certo ch’egli se ne debbia sommamente rallegrare, e di questo suo nuovo splendore e di così alta protezione molto restarmi obligato.
Voi dunque, quasi tutrice di questa opera divenuta, drizzando in lei, come in corpo attissimo a ricever luce, il vostro raggio, la farete più splendida e più miracolosa mostrarsi al mondo.
Filone. Il conoscerti, o Sofia, causa in me amore e desiderio.
Sofia. Discordanti mi paiano, o Filone, questi effetti che la cognizione di me in te produce; ma forse la passione ti fa dire così.
Filone. Da’ tuoi discordano, che sono alieni d’ogni correspondenzia.
Sofia. Anzi fra lor stessi son contrari affetti de la volontà, amare e desiderare.
Filone. E perché contrari?
Sofia. Perché le cose che da noi son stimate buone, quelle che aviamo e possediamo, l’amiamo, e quelle che ci mancano, le desideriamo: di modo che quel che s’ama, prima si desidera e, di poi che la cosa desiderata s’è ottenuta, l’amore viene e manca il desiderio.
Filone. Che ti muove ad avere questa opinione?
Sofia. L’esemplo de le cose che sono amate e desiderate. Non vedi tu che la sanità, quando non l’aviamo, la desideriamo, ma non diremo già amarla; dipoi che l’aviamo, l’amiamo e non la desideriamo. Le ricchezze, le eredità, le gioie, innanzi che s’abbino, son desiderate e non amate; dipoi che si sono avute, non si desiderano più, ma s’amano.
Filone. Benché la sanità e le ricchezze, quando ci mancano, non si possino amare perché non l’aviamo, niente di manco s’amano d’averle.
Sofia. Questo è un parlare improprio il dire amare, cioè di volere avere la cosa che si vuol dire desiderarla: perché l’amore è de la medesima cosa amata, e il desiderio è d’averla o acquistarla; né pare possino stare insieme amare e desiderare.
Filone. Le tue ragioni, o Sofia, più dimostrano la sottigliezza del tuo ingegno che la verità de la tua opinione; perché se quello che noi desideriamo, non l’amiamo, desideraremo quel che non s’ama e, per consequente, quel che s’aborrisce e ha in odio: che non potria essere maggiore contradizione.
Sofia. Non m’inganno, o Filone, ch’io desidero quel che, se bene per non possederlo non l’amo, quando l’averò, sarà amato da me e non più desiderato; né, per questo, desidero mai quel ch’io aborrisco, né ancor quello ch’io amo; perché la cosa amata si ha, e la desiderata ci manca. E qual più chiaro esemplo si può dare che quel de’ figliuoli? Che chi non gli ha, non gli può amare, ma gli desidera; e chi gli ha, non gli desidera, ma gli ama.
Filone. Così come dimostri per esemplo di figliuoli, ti deveresti ricordare del marito; il quale, innanzi che s’abbi, si desidera e amasi insieme, e, dipoi che s’è avuto, manca il desiderio e alcuna volta l’amore, se bene in molte, non sol perseveri, ma ancor cresca; il che molte volte occorre similmente al marito, de la moglie. Questo esemplo non ti par più suffiziente per confermare il mio detto, che il tuo per reprovarlo?
Sofia. Questo tuo parlare mi satisfà in parte, ma non in tutto, massime seguendo il tuo esemplo, simigliante al dubbio del qual disputiamo.
Filone. Ti parlarò più universalmente. Tu sai che l’amore è de le cose che sono buone o ver stimate buone, perché qual vuoi cosa buona è amabile. E così come son tre sorte di buono: profittevole, delettabile e onesto, così sono ancor tre sorte d’amore: ché l’uno è il delettabile, l’altro il profittevole, e l’altro l’onesto2. Li quali due ultimi, quando si hanno, in alcun tempo debbeno esser amati, o veramente innanzi che sieno acquistati, o ver di poi. Il delettabile non è amato già di poi; perché tutte le cose che dilettano i nostri sentimenti materiali, di sua natura, quando son possedute, più presto sono aborrite che amate. Bisogna adunque, per questa ragione, tu conceda che tal cose s’amano innanzi che si possegghino e, similmente, quando si desiderano; ma perché, dipoi che interamente si son possedute, manca il desiderio, manca ancor il più de le volte l’amore di quelle. E per questo concederai che l’amor e ’l desiderio possono stare insieme.
Sofia. Le tue ragioni (secondo il mio iudizio) hanno forza per provare quel tuo primo detto; ma le mie, che gli son contrarie, non son però debili né spogliate di verità. Come è possibile adunque che una verità sia contraria de la medesima verità? Solvimi questa ambiguità, che mi fa stare assai confusa.
Filone. Io vengo, o Sofia, per domandarti rimedio a le mie pene, e tu mi domandi soluzione de’ tuoi dubbi. Forse il fai per desviarmi da questa pratica, la qual non t’aggrada; o veramente perché i concetti del mio povero ingegno ti dispiaceno, non manco che li affetti de la mia affannata volontà.
Sofia. Non posso negare non abbi più forza in me, a commovermi, la soave e pura mente, che non ha l’amorosa volontà; né per questo credo farti ingiuria, stimando in te quel che più vale: ché, se m’ami come dici, debbi più presto procurare di quietarmi l’intelletto, che incitarmi l’appetito. Sì che, lassato da parte ogni altra cosa, solvimi questi miei dubbi.
Filone. Se bene la ragione in contrario è pronta, niente di manco per forza bisogna ch’io segua il tuo volere: e questo viene da la legge che han posto i vincitori amati a’ forzati e vinti amanti. Dico che sono alcuni contrari in tutto a la tua opinione, li quali tengono l’amore e il desiderio essere in effetto una medesima cosa, perché tutto quel che si desidera vogliono ancor che s’ami.
Sofia. Sono manifestamente in errore: ché, se ben se li concede tutto quel che si desidera s’ami, certo è molte cose s’amano che non si desiderano, come interviene in tutte le cose possedute.
Filone. Hai arguito contra rettamente; ma alcuni altri credono che l’amore sia un certo che, qual contenga in sé tutte le cose desiderate, ancor che non s’abbino, e similmente le cose buone acquistate, quali, avute, non si desiderano più.
Sofia. Né questo ancor mi consuona; perché, come si dice, molte cose son desiderate le quali non possono essere amate, perché non sono in essere: e l’amore è de le cose che sono, e il desiderio è proprio di quelle che non sono. Come possiamo noi amar i figliuoli e la sanità, se non l’aviamo, se ben la desideriamo? Questo mi fa tener l’amore e ’l desiderio esser due affetti contrari de la volontà. E tu m’hai detto che l’uno e l’altro possono star insieme. Dichiarami questo dubbio.
Filone. Se l’amore non è se non de le cose che hanno essere, il desiderio perché non sarà di quelle ancora?
Sofia. Perché, così come l’amore presuppone l’essere de le cose, così il desiderio presuppone la privazione di quelle.
Filone. Per qual ragione l’amore presuppone l’essere de le cose?
Sofia. Perché bisogna che il conoscimento preceda a l’amore: ché nissuna cosa si potria amare, se prima sotto spezie di buona non si conoscesse; e nissuna cosa cade in nostro conoscimento, se prima effettualmente non si truova in essere. Perché la mente nostra è uno specchio ed esemplo o, per dir meglio, una immagine de le cose reali: di modo che non è cosa alcuna che si possa amare, se prima non si truova in essere realmente.
Filone. Tu dici la verità. Ma, ancor per questa medesima ragione, il desiderio non può cadere se non nelle cose che hanno essere; perché non desideriamo se non quelle cose che primamente conosciamo sotto spezie di buone. E per questo il Filosofo3 ha diffinito il buono essere quello che ciascuno desidera, poi che il conoscimento è de le cose che hanno essere.
Sofia. Non si può negare che ’l conoscimento non preceda al desiderio. Ma più presto direi che non solamente ogni cognizione è de le cose che sono, ma ancora di quelle che non sono: perché il nostro intelletto giudica una cosa che è come la giudica, e un’altra che non è così. E poiché ’l suo offizio è il discernere in l’essere delle cose e nel non essere, bisogna conosca quelle che sono e quelle che non sono. Direi adunque che l’amore presuppone la cognizione de le cose che sono, e il desiderio di quelle che non sono e di quelle che noi siamo privi.
Filone. Tanto a l’amore quanto al desiderio precede il conoscimento de la cosa amata o desiderata, qual è buona. E a nessuno di loro la cognizione deve essere altro che buona: perché tal cognizione saria causa di far aborrire la cosa conosciuta totalmente, e non desiderarla o amarla. Sì che l’amore come il desiderio parimente presuppongono l’essere de le cose, così in realità come in cognizione.
Sofia. Se il desiderio presupponesse l’essere de le cose, ne seguirebbe che, quando giudichiamo la cosa che è buona e desiderabile, sempre tal giudizio saria vero. Ma non vedi tu che molte volte è falso, e non si truova così ne l’essere? Parrebbe adunque che ’l desiderio non presupponesse sempre l’essere de la cosa desiderata.
Filone. Questo medesimo difetto che dici, non meno accade ne l’amore che nel desiderio: perché molte volte quella cosa che è stimata buona e amabile, è gattiva e debbe esser aborrita. E così come la verità del giudizio de le cose causa li diritti e onesti desidèri, da’ quali derivano tutte le virtù e fatti temperati e opere laudabili, così la falsità di tal giudizio è causa de’ gattivi desidèri e disonesti amori, da’ quali tutti i vizi ed errori umani derivano. Talché l’uno come l’altro presuppone l’essere de la cosa.
Sofia. Non posso teco, o Filone, volare tanto alto: veniamo, di grazia, più al basso. Io pur veggo nessuna di quelle cose che più desideriamo propriamente s’ami.
Filone. Noi desideriamo ben sempre quello che non aviamo, ma non per questo quello che non è: anzi il desiderio suol esser de le cose che sono, quali non possiamo avere.
Sofia. Ancor suole esser di quelle cose, che effettualmente non sono e desideriamo ben che sieno, quali non desideriamo già averle: come desideriamo che piova quando non piove, e che facci buon tempo, e che venga uno amico, e che alcuna cosa si facci. Le qual cose, perché non sono, desideriamo che sieno per averne profitto, ma non per averle; né per questo diremo amarle. Di modo che ’l desiderio è de le cose che non sono.
Filone. Quel che non ha essere alcuno, è niente; e quel che è niente, così come non si può amare, ancor non si può né desiderare né avere. E queste cose che hai dette, se ben non sono in essere presente attualmente quando si desiderano, niente di manco l’essere loro è possibile; e de l’essere possibile ancor si può desiderar che venghino a l’essere attuale. Così come quelle che sono e non l’aviamo, da la parte che sono si possono desiderare che sieno possedute da noi. Sì che tutto il desiderio o è che abbi da essere quel che non è, o di avere quello [che] ci manca. Come vuoi che ogni desiderio presupponga in parte l’essere e in parte la privazione, e desideri il compimento che gli manca de l’essere? Sì che ’l desiderio e l’amore son fondati ne l’essere de la cosa, e non nel non essere. E a la cosa desiderabile tre titoli gli debbeno precedere per ordine: il primo è l’essere, il secondo la verità, terzio che sia buona; e con questi, viene a essere amata e desiderata. Il che non potria essere, se innanzi non fusse stimata per buona, perché in altro modo non s’amerebbe né desiderarebbe. E innanzi che sia giudicata buona, bisogna sia conosciuta per vera; e come realmente si truova innanzi del conoscimento, bisogna che abbi l’essere reale. Perché prima è la cosa in essere, di poi s’imprime ne l’intelletto, e di poi si giudica essere buona: e ultimamente s’ama e desidera. E per questo il Filosofo4 dice che l’essere vero e [il] buono si convertono in uno. Se non che l’essere è in sé medesimo; e il vero, quando è impresso ne l’intelletto; il buono è quando viene da l’intelletto e volontà a l’acquisto de le cose mediante l’amore e desiderio. Di sorte che, non meno il desiderio presuppone l’essere, che l’amore.
Sofia. Io pur veggo che desideriamo molte cose, l’essere de le quali non solo manca nel desiderante, ma ancora in lor medesime: come è la sanità e li figliuoli, quando non l’aviamo; in le quali certamente non cade amore, ma solamente desiderio.
Filone. Quello che si desidera, se bene manca al desiderante e in sé non ha essere proprio, non per questo è privato in tutto de l’essere, come dici; anzi bisogna, che in qualche modo abbi essere, altrimenti non potria essere conosciuto per buono né desiderato, se ben non ha essere proprio. E così dico de la sanità ne l’infermo, che la desidera perché ha essere ne li sani, e ancora era in lui innanzi s’infermasse. E similmente de’ figliuoli: se bene non hanno essere in quelli che li desiderano perché gli mancano, niente di manco hanno essere in gli altri; perché qual vuoi uomo è o ver è stato figliuolo; e per questo, chi non gli ha, gli conosce e giudica essere cosa buona e gli desidera. E queste tali sorte d’essere son bastanti dare ad intendere la sanità a l’infermo, e così a quelli che desiderano figliuoli e non gli hanno. Di modo che l’amore e ’l desiderio sono de le cose che in qualche modo hanno essere reale e son conosciute sotto spezie di buone; escetto che l’amore pare essere comune a molte cose buone, possedute e non possedute, ma il desiderio è di quelle che non son possedute.
Sofia. Secondo il tuo parlare, ogni cosa desiderata saria amata, come dicesti esser opinione d’alcuni; e saria un genere che conterria in sé tutte le cose stimate buone: e così quelle che non si posseggono e si desiderano, come quelle [che] si posseggono e non si desiderano, tutte, secondo la tua opinione, sariano amate. E a me non pare che le cose che del tutto mancano (come queste che dissi de la sanità e de’ figliuoli), chi non le ha, benché le desideri, le possi amare: perché l’essere che dicesti avere in gli altri, non basta per conoscerle, e per conseguenzia non basta per amarle. Perché non amiamo li figliuoli d’altri né la sanità d’altri, ma la propria: e quando ci manca, come si può amare, se ben si desidera?
Filone. Non siamo adesso molto lontani da la verità, ancor che vulgarmente tutte le cose desiderate si dicono essere amate per essere stimate buone. Ma, correttamente parlando, non si possono dire amate quelle che non hanno alcuno essere proprio, come è la sanità e figliuoli quando ci mancano. Parlo de l’amor reale: ché l’immaginato si può avere in tutte le cose desiderate, per l’essere che hanno ne l’immaginazione; dal qual essere immaginato nasce un certo amore, il suggetto del quale non è la cosa propria reale che si desidera (per non avere ancor essere in realità, propriamente), ma solo il concetto di quella cosa, pigliata del suo essere comune. E di tal amor il suo suggetto è improprio, perché non è vero amore, ché gli manca il suggetto reale; ma è solamente simulato e immaginato, perché il desiderio di tal cose è spogliato di vero amore. Di sorte che si truovano ne le cose tre sorte d’amore e desiderio, de le quali alcune sono amate e desiderate insieme: come è la verità, la sapienzia e una persona degna, quando non l’aviamo; altre sono amate e non desiderate: come son tutte le cose buone avute e possedute; alcune altre son desiderate e non amate: come è la sanità, li figliuoli quando ci mancano, e l’altre cose che non hanno essere reale. Sono adunque le cose amate e desiderate insieme quelle che son stimate buone e hanno essere proprio e ci mancano; l’amate e non desiderate son quelle medesime, quando l’aviamo e possediamo; e le cose desiderate e non amate son quelle che non solamente ci mancano, ma ancora non hanno in sé essere proprio, nel qual possi cadere amore.
Sofia. Ho inteso il tuo discorso, che assai mi piace. Ma io veggo molte cose che hanno essere proprio reale e, quando non l’aviamo, le desideriamo; ma non l’amiamo fin che non si sono avute, e allora s’amano e non si desiderano: come son le ricchezze, una casa, una vigna, una gioia: quali, stando in poter d’altri, si desiderano e non s’amano per essere d’altri, ma, poi che si sono avute, mancando il desiderio di quelle, se li pone amore. Sì che, innanzi che sieno acquistate, solamente son desiderate, e non amate; e dipoi che sono acquistate, solamente sono amate e non desiderate.
Filone. In questo hai detto la verità. E io non dico che tutte le cose desiderate (che hanno essere proprio) sieno ancor amate; ma ho affermato che quelle che son desiderate, parimente debbeno aver essere proprio, ché altrimenti, se ben si desiderano, non si possono amare. E per questo non t’ho dato esemplo né di gioia né di casa, ma di virtù, di sapienzia, o di degna persona; ché queste, quando mancano, sono amate e desiderate parimente.
Sofia. Dimmi la causa di questa differenzia che si truova ne le cose desiderate che hanno essere proprio: perché alcune di quelle, quando son desiderate, ancor possono essere amate, e alcune no.
Filone. La causa è la differenzia de le cose amabili. Le quali, come sai, sono di tre sorte: utili, delettabili e oneste; le quali diversamente si hanno ne l’amore e nel desiderio.
Sofia. Dichiarami la differenzia che è infra loro, cioè amare e desiderare. E perché meglio ti possa intendere, vorrei che facessi diffinizione a l’amore e al desiderio, a fin che in tal diffinizione possi comprendere tutte tre le sorti di quelle.
Filone. Non è così facile diffinire l’amore e il desiderio con diffinizione accomodata a tutte sue spezie, come ti pare; ché la natura d’essi diversamente si truova in ciascuno di loro; né si legge gli antichi filosofi averli dato così ampla diffinizione. Niente di manco, per quello che secondo la presente narrazione mi consuona, è diffinire che cosa sia affetto volontario de l’essere o di avere la cosa stimata buona che manca, e di diffinire l’amore, che è affetto volontario di fruire con unione la cosa stimata buona. E da queste diffinizioni conoscerai non solamente la differenzia di tali affetti de la volontà (ché l’uno, come t’ho detto, è di fruire la cosa con unione, e l’altro de l’essere o di averla), ma ancora vedrai, per quelle, il desiderio essere de le cose che mancano; niente di manco l’amore può essere di quelle che si hanno e ancor di quelle che non si hanno; perché il fruire con unione può essere affetto de la volontà, così ne le cose che ci mancano, come in quelle che aviamo; perché tal affezione non presuppone abito né mancamento alcuno, anzi è comune a tutti due.
Sofia. Ancor che tali diffinizioni averebbeno bisogno di più larga dichiarazione, pur mi basta assai per introduzione di quello che ti domando de la causa de la diversità che si truova in amare e desiderare, in le tre sorte che hai detto: utile, delettabile e onesto. Segue, adunque.
Filone. L’utile, come sono ricchezze, particulari beni d’acquisto, non sono mai amate e desiderate insieme. Anzi, quando non si hanno si desiano e non s’amano, per essere d’altri; ma quando sono acquistate, cessa il desiderio d’esse, e allora s’amano come cose proprie e si godeno con unione e proprietà. Niente di manco, se ben cessa il desiderio di quelle particular ricchezze già possedute, nasceno immediate nuovi desii d’altre cose aliene: e quelli uomini la volontà de’ quali guarda a l’amore de l’utile, hanno diversi e infiniti desii, e, cessando l’uno per l’acquistare, viene l’altro maggiore e più affannoso. Tal che mai saziano sua volontà di simili desidèri; e quanto più posseggono, tanto più desiano; e sono simili a quelli che cercano spégnare la sua sete con l’acqua salata, che, quanto più beveno, tanto in lor produce maggior sete. E questo desìo de le cose utili si chiama ambizione o vero cupidità; il temperamento di quello si chiama contentamento o vero satisfazione del necessario, ed è eccellente virtù; e chiamasi ancora suffizienzia, perché si contenta del necessario. E li savi dicono che ’l vero ricco è quello che si contenta di quel che possiede5. E così come l’estremo di questa virtù è la cupidità del superfluo, così l’altro estremo è il lassare di desiare il bisogno, e chiamasi negligenzia.
Sofia. Che dici tu, Filone! Non son molti filosofi che giudicano tutte le ricchezze doversi lassare? E alcuni, per dire il vero, non le hanno lassate…
Filone. È stata ben questa opinione d’alcuni filosofi Stoici e Accademici. Ma quella non è negligenzia il lassare di desiderare e procurare il bisogno, ché lo facevano per convertirsi alla vita contemplativa con intima e contenta contemplazione: alla quale vedevano le ricchezze essere grande impedimento, perché occupano la mente e la divertiscono6 da la sua medesima opera speculativa e da la contemplazione, ne la qual consiste sua perfezione e felicità. Ma li Peripatetici7 tengono che s’abbi da procurare le ricchezze, essendo di bisogno per la vita virtuosa; e dicono che, se ben le ricchezze non son virtù, sono almanco instrumento di quelle, perché non si potria usare liberalità né magnificenzia, limosine né altre opere piatose, senza beni necessari e bastanti.
Sofia. Non è assai, per simili opere virtuose, la buona disposizione de l’animo, pronto per farle quando avesse il modo? E così, senza ricchezze, l’uomo potria essere virtuoso.
Filone. Non basta tal disposizione senza l’opere; perché le virtù son abito di ben fare8, le quali s’acquistano perseverando ne le buone opere. Ed essendo così che tali opere non si possono fare senza beni, ne segue che senza quelli non si possono aver simili virtù.
Sofia. E perché non conobbero questo li Stoici? E li Peripatetici come possono negare che le ricchezze non divertino l’animo da la felice contemplazione?
Filone. Concedono li Stoici9 che alcuna virtù domestica e urbana non si può acquistare senza beni. Ma non t’inganni che consista in quelli la felicità: anzi in la vita intellettiva e contemplativa, per la quale si debbeno lassare le ricchezze, e ancor le virtù che da quelle procedono veder non si convertino in vizi, ma in altre virtù più eccellenti e più propinque a l’ultima felicità. Né questo ancor possono negare li Peripatetici. Né in fra loro è altra differenzia10 se non che li Stoici, con il desìo del più nobile, non fêrno conto del necessario per alcune virtù morali, quali hanno bisogno de’ beni: come in effetto conviene agli uomini molto eccellenti che, cercando acquistare l’ultima felicità, avendo la chiarezza del Sole, cercano lume di candela11, massime conoscendo tali beni il più de le volte essere causa di vizi più che di virtù. Ma li Peripatetici, conoscendo le ricchezze non essere necessarie a simili uomini quali son chiari, hanno dimostrato altre gran virtù per inferiori di quelle e hanno monstrato come alcune di quelle virtù s’acquistano mediante li beni. Però così l’uno come l’altro concedeno che la negligenzia è il lassare di desiare il necessario, qual è in quelle virtù che non s’hanno mediante l’intellettual contemplazione. Sarà adunque vizio contrario de la cupidità del superfluo, qual è l’altro estremo; e la suffizienzia di desiderare il necessario è il mezzo delli due estremi, il quale è eccellente virtù nel desìo de le cose utili.
Sofia. Sì come hai mostrato nel desìo de le cose utili un mezzo virtuoso e due estremi viziosi, trovansi altri simiglianti mezzi ed estremi ne le cose utili e già possedute?
Filone. Sì che si truovano, e non meno manifesti. Perché il sfrenato amore che si ha alle ricchezze acquistate o possedute, è avarizia: qual è offizio vile ed enorme; perché quando l’amore de le proprie ricchezze è più del debito, causa la conservazione di quelle più del dovere, e di non dispensarle secondo l’onestà e l’ordine de la ragione. La moderazione in amare tali cose, con la conveniente dispensazione di quelle, è mezzo virtuoso e nobile; e chiamasi liberalità. Il mancamento de l’amore di queste cose possedute e non conveniente dispensazione di quelle, è l’altro estremo vizioso, contrario de l’avarizia; e chiamasi prodigalità. Sì che l’avaro come il prodigo son viziosi, sequendo gli estremi de l’amor de le cose utili; il liberale è virtuoso, ché segue il mezzo di quelli. E in questo modo che t’ho detto, si truova l’amore e il desiderio in le cose utili temperatamente e stemperatamente.
Sofia. Mi consuona questo modo che m’hai detto. Vorria intendere ne le cose delettabili come l’amor sia in loro; che mi par più a nostro proposito.
Filone. Così come ne le cose utili il proprio e reale amore si truova insieme col desiderio, similmente in le delettabili il desìo non si parte da l’amore: perché tutte le cose delettabili che mancano, fin che interamente si sono avute e s’abbi a suffizienzia di quelle, sempre che si desiderano o s’appetiscono, parimente s’amano. Il bevitore desidera e ama il vino innanzi che lo beva, fin che sia sazio di quello; il goloso desidera e ama il dolce innanzi che il mangi, fin che di quello sia sazio; e comunemente quel che ha sete, sempre che lo desidera, ama il bevere; e quello che ha fame, desidera e ama la vivanda; e l’uomo similmente desidera e ama la donna innanzi che l’abbi, e così la donna l’uomo. Hanno ancor queste cose delettabili tal proprietà che, avute che sono, così come cessa il desiderio di quelle, cessa ancor il più de le volte l’amore, e molte volte si converte in fastidio e aborrizione: perché quel che ha fame o sete, di poi ch’è sazio, non desidera più il mangiare né il bevere, anzi gli viene in fastidio. E così interviene in l’altre cose che materialmente dilettano: perché con sazietà fastidiosa cessa egualmente il desiderio di quelle; di modo che tutti due ne le cose dilettabili viveno e muoiano insieme. Bene è vero che si truovano ne le cose delettabili alcuni intemperati, così come si truovano nell’utili: li quali mai si saziano né mai cercariano essere sazi, come sono i golosi, imbriachi e lussuriosi, a’ quali dispiace la sazietà, e prestamente tornono di nuovo al desìo e amor di quelle, o vero in desìo d’altre di quella sorte. E il desìo di tali cose delettabili si chiama propriamente appetito, così come quel dell’utile si chiama ambizione, o ver cupidità. L’escesso di desiderare queste cose che danno dilettazione propria, e il conversare12 in quelle, si chiama lussuria: la qual è vera lussuria carnale, o di gola, o d’altre superflue delicatezze, o indebite mollicie; e quelli che in simili vizi si nutriscono, si chiamano lussuriosi. E quando la ragione in qualche parte resiste al vizio, se ben da quello è superata, allora quei tali viziosi si chiamano incontinenti. Ma quelli che lassano la ragione del tutto, senza cercare di contrastare in parte alcuna a l’abito vizioso, si chiamano distemperati. E così come quest’estremo di lussuria è, ne le cose delettabili, vizio correspondente a l’avarizia e cupidità ne l’utile, così stimo essere vizio l’altro estremo de la superflua astinenzia, qual è, ne l’utile, correspondente vizio a la prodigalità: perché l’uno è via a la robba, non conveniente a l’onesto vivere, e l’altro lassa la dilettazione necessaria al sostentamento de la vita e a la conservazione de la sanità. Il mezzo di questi due estremi è grandissima virtù, e chiamasi continenzia. E quando, stimulando ancor la sensualità, la ragion vince con la virtù, si chiama temperanzia. Quando la sensualità del tutto cessa di dar stimulo a la virtuosa ragione, e l’una e l’altra consiste in contenersi temperatamente de le cose delettabili, senza mancare del necessario e senza pigliare del superfluo, la chiamano alcuni, questa virtù, fortezza; e dicono che ’l vero forte è quello che se medesimo vince, perché il delettabile ha più forza ne la natura umana che non ha l’utile, per essere quello con il quale lei conserva il suo essere. E pertanto chi può moderare questo escesso, con verità si può chiamare vincitore del più potente e intrinseco inimico.
Sofia. Mi piace quanto hai detto de l’amore e appetito in le cose delettabili. Ma mi occorre un dubbio in quel c’hai detto, che le cose delettabili si desiderano e amano quando ci mancano e non quando sono avute. Ché, se ben è così la verità quanto al desiderio, non pare essere vero ne l’amore di quelle: perché nel tempo che le delettazioni s’acquistano, allora s’amano, ma non prima, quando mancavano, perché par che ’l gusto di tal dilettazione vivifichi l’amore di quelle.
Filone. Non manco incita l’appetito e aguzza il desìo e gusto di quelle, che si vivifichi l’amore: e tu sai che non s’appetisce né desidera se non quel che manca.
Sofia. Or come va questa cosa? Perché noi vediamo che le cose delettabili, avendosi, non solamente s’amano ma ancor s’appetiscono. Adunque, quel che s’ha, deve mancare e non aversi.
Filone. È ben vero che simil cose, acquistandosi, s’amano e desiderano; ma non di poi che interamente sono avute; perché, avute che sono, viene la lor compagnia, e perdesi egualmente l’appetito e l’amor di quelle; ché, mentre s’acquistano, non cessa il mancamento, fino a la sazietà. Anzi dico che, col primo gusto, si sforza il conoscimento per l’approssimazione del delettabile, e con quello s’incita più l’appetito e vivificasi l’amore. E la causa è il sentimento de la privazione; e con la presenzia e participazione del gusto del dilettabile che manca, si fa più forte e pungitivo e, quando si gusta tanto di tal diletti che si venghi a saziare, leva del tutto il mancamento, e con quello si leva insieme e cessa l’appetito e amore di tal dilettazione, e viene in fastidio e disamore. Sì che l’appetito e l’amore son congiunti al mancamento del dilettabile e non a l’acquisto di quello13.
Sofia. Mi basta in questo ciò che hai detto. Ma avendo detto quello in che sono simiglianti e dissimiglianti l’utile e il delettabile, in la ragione d’amare e desiderare, seguendo la causa de la simiglianza manifesta, mi resta occulta la ragione de la diversità o contrarietà de la volontà. La quale vorria conoscere: dico, perché ne l’utile l’amore non si truova con il desìo insieme, anzi mentre si desidera non s’ama, e cessando il desìo viene l’amore; e nel dilettabile si truova il contrario, perché, tanto quanto si desidera s’ama, e cessando il desiderio cessa ancora l’amore. Dimmi come in due sorte d’amore tanto simiglianti si truova tante opposizioni, e qual è la causa.
Filone. La causa è la diversità di godere queste due sorte di cose amate e desiderate. Perché, essendo l’utile ne la continua possessione de la cosa, quanto più si possiede, tanto più si gode sua utilità; per la quale l’amore non viene fin che non si possiede, e cessa il desiderio, e poi vien continuandosi, quando si possiede; e mancando la possessione e veramente cessando dipoi ch’è avuta, se ben sarà desiderio, non però sarà amore. Ma del delettabile, la dilettazione sua non consiste in possessione né in abito o perfetta acquisizione, ma in una certa attenzione mescolata col mancamento14; la qual cessata, in tutto fa mancare la dilettazione, e consequentemente cessa l’appetito e l’amor di tal dilettabile.
Sofia. Mi pare ragionevole che ’l desìo richieda il mancamento del delettabile; ma l’amore più presto mi parrebbe richiedesse la presente dilettazione del dilettabile; e come sia che non s’abbi in quel che del tutto manca, non si può ancor in essa avere amore, ben che s’abbi il desìo. Di modo che l’amore del delettabile deve essere solamente in quanto diletta, e non innanzi, quando manca, né di poi, quando sazia.
Filone. Sottilmente hai dubitato, o Sofia; e in questo è ancor la verità [di] quel che dici, perché l’amor del dilettabile non debbe essere quando la dilettazione è mescolata col mancamento. Ma tu hai da sapere che nel puro appetito del dilettabile cade una fantastica dilettazione15, se ben non si gode ancora in effetto; quel che non accade in l’ambizione de l’utile: anzi il mancamento suo produce tristezza al desiderante. E per questo vedrai comunemente gli uomini appetitosi del dilettabile essere allegri e giocondi, e l’ambiziosi de l’utile essere malcontenti e malinconici. E la causa è perché il delettabile ha maggior forza, ne la fantasia, che l’utile, quando manca; e l’utile ha maggior forza che ’l dilettabile in la real possessione. Di sorte che nel delettabile non s’ha mancamento appetitoso senza dilettazione, né dilettazione effettuale senza mancamento; e per questa ragione in tutti due parimente s’ha amore e desiderio; escetto che nel mancamento appetitoso l’appetito e ’l desiderio hanno più forza che l’amore, e ne la effettual dilettazione l’amore è più forte che l’appetito.
Sofia. Mi consuona quel ch’hai detto: perché vediamo l’immaginati sogni de le cose che molto dilettano produrre effettual dilettazione; e alcune volte il causa la forte fantasia di quelle, e ancor che siamo desti; la qual efficacia non è ne l’immaginazione de le cose utili. Ma una cosa mi resta a sapere, ch’è questa: de la comparazione di queste due sorte d’amore, qual di loro si truova più ampla e universale, e se si possono trovare insieme in una medesima cosa amata.
Filone. Molto più alto, amplo e universale è il delettabile, perché non tutto il delettabile è utile; anzi le cose che più sensibilmente dilettano sono poco utili a quella persona che dilettano, tanto in la propria disposizione del corpo e sanità, quanto ne li beni acquistati. Ma quella dilettazione, concorrendo con l’utile per la maggior parte, quando per l’utile è conosciuta, è dilettabile quanto più ne l’utile de’ beni acquistati. Li quali sempre, acquistandosi, generano dilettazione a chi gli acquista, ancor che ne la sua continua possessione la dilettazione non sia tanta; perché tutta la dilettazione par che sia remedio de l’effetto de l’acquistare di quel che manca: donde più consiste ne l’acquistare de le cose, che nel possederle.
Sofia. Son satisfatta di quel che m’hai detto de le cose delettabili. Già mi parrebbe tempo d’intendere de l’amore e desiderio de la sorte de le cose oneste, perch’è il più eccellente e più degno.
Filone. Amare e desiderare le cose oneste è veramente quello che fa l’uomo illustre; perché tali amori, e desidèri fanno eccellente quella parte de l’uomo più principale per la qual è uomo, o ver quella ch’è più lontana da materia e oscurità e più propinqua alla divina chiarezza, qual è l’anima intellettiva; ed è quella sola che, fra tutte le parti e potenzie umane, si può schifare da la brutta mortalità16. Consiste adunque l’amore e desiderio de l’onesto in due ornamenti del nostro intelletto: cioè virtù e sapienzia; perché questi sono il fondamento de la vera onestà. La qual precede a l’utilità de l’utile e a la dilettazione del dilettabile, per essere il delettabile principalmente nel sentimento, l’utile nel pensamento e l’onesto ne l’intelletto, che tutte l’altre potenzie escede; e per essere l’onesto il fine per il quale gli altri due sono ordenati. Perché l’utile è cercato per il delettabile, che, mediante le ricchezze e beni acquistati, si può godere e’ diletti de la natura umana; il delettabile è per sostentamento del corpo; il corpo è istrumento che serve a l’anima intellettiva17 in sue azioni di virtù e sapienzia. Talché ’l fine de l’uomo consiste ne l’azioni oneste, virtuose e sapienti, le quali tutte l’altre azioni umane precedono e tutto l’altro amore e desiderio.
Sofia. Tu hai mostrato l’eccellenzia de l’onesto sopra il delettabile e utile; ma il proposito nostro è verso la differenzia ch’è fra l’amore e il desiderio ne l’onesto, e come sono simiglianti a quel che si truova nel dilettabile e utile.
Filone. Già ero per dirtelo, se non m’interrompevi. L’amore e desiderio de le cose oneste è in parte simigliante a l’utile e delettabile insieme, e in parte simile al delettabile e dissimile a l’utile, e in parte simile a l’utile e dissimile al dilettabile, e in altra parte dissimile a tutti due.
Sofia. Dichiarami ciascuna di queste parti separatamente.
Filone. È simile l’onesto a li due altri, utile e delettabile, nel desiderio, perch’è sempre di quel che manca: ché, così come si desiderano le cose utili e delettabili quando mancano, così si desidera la sapienzia, atti e abiti virtuosi, quando non s’hanno. È tanto simile l’onesto al delettabile in questo: che in tutti due parimente si truova l’amore col desiderio. Perché del medesimo modo che le cose delettabili, quando si desiderano, s’amano ancor che non siano avute; così la sapienza e virtù, mentre che non s’hanno, non solamente si desiderano, ma ancor s’amano. Ma in questo l’onesto è dissimile a l’utile, anzi è contrario, ché le cose de l’utile, quando non s’hanno, si desiderano e non s’amano.
Sofia. Qual è la causa di questa simiglianza che ha l’onesto col delettabile, e de la dissimiglianza ch’ha con l’utile? Ché di ragione le cose oneste (come la virtù e sapienzia: quando non s’hanno non si debbono amare, ma ben si desiderano; ché la virtù e sapienzia nostra, quando non l’aviamo, non ha in sé essere alcuno) o son de la sorte de la sanità non avuta o de le cose che non hanno alcuno essere per il qual possino essere amate.
Filone. L’utile, quando non si possiede in atto, è totalmente alieno da chi lo desidera; e per questo, ancor che si truovi e abbia essere, non può essere amato. Ma il delettabile, come già t’ho detto, innanzi che s’abbi realmente, il desiderio di quello produce una certa incitazione e un certo essere delettabile ne la fantasia, il qual è suggetto de l’amore, perché quel poco essere è proprio de l’amante in se medesimo. E non manco, anzi molto più, il desiderio de la sapienzia e virtù e cose oneste causa un certo modo d’essere di quelle cose ne l’anima intellettiva; però che il desiderare virtù e desiderare sapienzia è propria sapienzia ed è più onesto desiderare. E questo tal essere, ne le cose oneste che si desiderano e non s’hanno, è proprio in noi altri ne la parte più eccellente; e però è degno il desiderio di tal cosa d’essere accompagnato da non lento amore. Di modo che più amplamente può seguire l’essere desiderabile che si truova ne l’onesto, che quel che si truova nel dilettabile. Sì che in tutti due si truova il desìo accompagnato con l’amore, quando non s’hanno: il quale non si truova ne l’utile.
Sofia. Mi basta. Dichiarami l’altre due parti che restano.
Filone. Si confà l’onesto con l’utile ne l’amor de le cose interamente avute e possedute: ché sì come le cose utili, dipoi che si sono acquistate, s’amano, così la sapienzia e virtù de le cose oneste, dipoi che si posseggono, sono grandemente amate. Ne la qual cosa l’onesto è dissimile al delettabile, perché, dipoi che ’l dilettabile s’è avuto perfettamente, non s’ama, ma più presto suol venire in odio e fastidio. Adunque l’onesto è dissimile a tutti due, utile e delettabile, non solamente ne l’essere accompagnato sempre da l’amore, così quando si desidera e non s’ha, come quando s’ha e non si desidera (il che non si truova in alcuno degli altri due); ma ancora è dissimile a loro in un’altra cosa e notabil proprietà: che la virtù negli altri due consiste nel mezzo de l’amare e desiderare (il superfluo de le cose delettabili e utili son gli estremi da’ quali procedono tutti li maggior vizi umani); ma ne le cose oneste, quanto l’amor e desiderio è superfluo e sfrenato, tanto più è laudabile e virtuoso. E il poco di questo è vizio; ché chi di tal amore e desiderio fusse privato, non solamente sarebbe vizioso, ma ancora inumano; però che l’onesto è il vero bene, e il bene, come dice il Filosofo18, è quel che tutti gli uomini desiderano, se ben ciascuno naturalmente desideri sapere19.
Sofia. Altrimenti mi par avere intesa questa dissimiglianza.
Filone. In che modo?
Sofia. Dicono che de l’onesto l’estremo del superfluo è virtuoso, perché, quanto più si desidera, ama e segue, tanto più è virtù; e l’estremo del poco è vizio, perché non è maggiore vizio che lassare d’amare le cose oneste. Negli altri due, utile e delettabile, si truova l’opposito: perché la virtù consiste ne l’estremo del poco desiderare, amare e seguire le cose utili e delettabili; e ’l vizio consiste ne l’estremo del molto cercarle e ne l’escessiva sollicitudine di quelle. Di sorte che la virtù de l’onesto è ne l’escessivo amore di quello, e il vizio nel poco amore; e la virtù de l’utile e delettabile è in amarli poco, e il vizio in amarli assai.
Filone. In alcuna sorte d’uomini è vera questa tua sentenzia, perché la virtù de l’utile e delettabile consiste ne l’estremo del poco amarli e seguirli; ma non è vera universalmente, perché comunemente ne la vita morale la virtù di questi due consiste nella mediocrità e non in estremo alcuno. Ché, così come è vizio amare troppo l’utile e delettabile, così è vizio ancora il non amarlo, o, per dire meglio, amarlo manco del bisogno, come di sopra t’ho detto. E li Peripatetici (è ben vero) in quelli che seguono la vita contemplativa e intellettuale, ne la qual consiste l’ultima felicità, hanno per vizio la cura de le cose utili e il desiderio del dilettabile, non solo ne l’escesso, ma ancora nel mediocre; e la strettezza è necessaria per la intima contemplazione, perché l’uso di quelli è non poco impedimento; e il necessario suo consiste in molto manco che non fa quel de’ virtuosi mortali, secondo provano li Stoici. Di modo che ne la vita morale la virtù consiste nel mezzo de le cose utili e delettabili; e in la vita contemplativa consiste ne l’estremo del poco utile e delettabile. In la vita morale tutti due l’estremi son vizi; ne la contemplativa il vizio consiste solamente nel poco.
Sofia. Conosco come tutte due le sentenzie hanno luogo; ma dimmi la causa di questa dissimiglianza che si truova fra l’onesto, l’utile e ’l delettabile.
Filone. La causa è questa: che, sì come il sfrenato appetito de la dilettazione e l’insaziabil cupidità de le ricchezze son quelle che mettono al fondo la nostra anima intellettiva e nel loto de la materia, e oscurano la mente chiara con la tenebrosa sensualità; così l’insaziabile e ardente amore de la sapienzia e virtù de le cose oneste è quello che fa divino il nostro intelletto umano, e il nostro fragil corpo, vaso20 di corruzione, converte in istrumento d’angelica spiritualità.
Sofia. La moderazione e mediocrità ne le cose utili e delettabili, non l’hai tu per oneste?
Filone. Poi che son virtù, perché non saranno ancora oneste?
Sofia. Adunque, se sono oneste, l’estremo suo perché è vizio? Ché tu hai detto le cose oneste aver la virtù ne l’escesso, e non nel poco e ancor ne la mediocrità; e da l’altra parte dici che de la mediocrità de l’utile e delettabile l’escesso è virtù. Questo parimente è contradizione.
Filone. Poiché hai sottile ingegno, procura di farlo sapiente. La virtù che si truova ne l’utile e delettabile, non è per sua natura: perché la sensual delettazione (o ver la fantastica utilità de le cose esteriori, che sono aliene di spiritualità intellettiva, qual è origine de le cose oneste), in quella quanto l’amore e desiderio è più eccellente, tanto la virtù e onestà è più degna. Ma l’utile e ’l delettabile solo possono avere ragione intellettuale ne la moderazione e mediocrità de l’amore e desiderio di quelle: ché tal moderazione e mediocrità è solamente la virtù che in quelle si truova; e, mancando quel mezzo, più o meno è vizio ne l’utile e delettabile. Perché questi tali amori, spogliati di ragione, sono gattivi e viziosi e più presto d’animali bruti che d’uomini; e il mezzo, che la ragione fa in questo, è solamente vero amore. E da quel mezzo si verifica che, quanto più escessivamente si desidera, ama e segue, tanto più veramente è virtù. Perché già tal desiderio non è più dilettazione né utilità, ma depende da la moderazione di quelle, ch’è virtù intellettiva e veramente è cosa onesta.
Sofia. M’hai satisfatto de le differenzie che si truovano ne l’amare e desiderare le cose volontarie, e ho inteso la causa di tali differenzie. Ma io voglio ancora saper da te, d’alcune cose amate e desiderate, di qual sorte de le tre sopradette spezie d’amore sono: come è la sanità, i figliuoli, il marito, la moglie, e ancora la potenzia, il dominio, l’imperio, l’onore, la fama e la gloria; che tutte son cose che s’amano e desiderano; e non è ben manifesto se sono del genere de l’utile o del delettabile, o vero de l’onesto. Ché, se bene in una parte paiano delettabili per la dilettazione che si consegue in averle, dall’altra parte pare che non sieno: perché, dipoi che si hanno e si posseggono, ancor s’amano, senza venire in sazietà e fastidio. Il che più presto parrebbe de le cose utili e oneste, che de le dilettabili.
Filone. La sanità, ancor che consegua l’utile, pure il proprio suo è il delettabile. E non è inconveniente che de le cose delettabili alcune ne sieno utili; così come de l’utili molte ne sono delettabili; e in tutte due alcune si truovano oneste. La sanità adunque principalmente ha del delettabile conveniente alla sua dilettazione; e non solamente è utile, ma ancora è onesta: e per questo la sazietà sua non è noiosa né mai viene in fastidio come l’altre cose puramente delettabili che, quando si posseggono, non si stimano come quando mancano e si desiderano. È un’altra causa ancora per la quale la sanità non s’ha a noia né viene in fastidio: perché il sentimento de la sua dilettazione non è solamente appresso i sentimenti materiali esteriori, come il gusto a modo de le cose che si mangiano, o del tatto come la carnal dilettazione, o de l’odorato come gli odori, li quali presto vengono in fastidio; ma ancora è appresso i sentimenti spirituali, che più tardi si saziano. Perché non consiste in odire, come le dolci armonie e le soavi voci, né ancora in vedere, come le belle e proporzionate figure; anzi la dilettazione de la sanità si sente con tutto il sentimento umano, così del sentimento esteriore come interiore, e ancora ne la fantasia; e quando non si ha, non solamente si desidera con l’appetito sensitivo, ma ancora con la propria volontà governata dalla ragione. Di sorte che è una dilettazione onesta, benché per la continua possessione suole essere manco stimata.
Sofia. Mi basta quel che hai detto de la sanità. Di’ de’ figliuoli.
Filone. Li figliuoli, benché qualche volta sieno desiderati per l’utile, come è per la successione de le ricchezze e per l’acquisto di quelle, niente di manco l’amore suo e natural desiderio è ancor dilettabile; e però non si truova simigliante ne gli animali bruti, ché le lor dilettazioni non si stendono se non ne li cinque sentimenti21 esteriori sopra nominati. Ché, se bene il vedere e udire i figliuoli causa dilettazione a’ padri, non per questo il fine del suo desiderio è solamente in averli: ché la principal dilettazione consiste ne la fantasia e cogitazione (qual è spiritual potenzia, che non è quella de’ sentimenti esteriori); e per questo non è la sua sazietà fastidiosa. E maggiormente che non si desiderano sol con il puro sensuale appetito, ma ancora con la volontà dirizzata da la mente razionale, qual è governatrice non errante de la natura. Ché (come dice il Filosofo22) mancando agli animali l’individuale perpetuità, conoscendosi mortali, desiderano d’essere immortali almanco per li figliuoli: che è desiderio de la possibile immortalità degli animali mortali. E per essere in questo differente la dilettazione de’ figliuoli a l’altre cose delettabili, segue che, quando si hanno, non vengono in sazietà fastidiosa. E in questo son simiglianti a la sanità; ché non solamente per la possessione cessa l’amore, anzi, dipoi che si sono avuti, s’amano e conservano con efficace diligenzia: e questo viene per il desiderio che gli resta de la futura immortalità. Di sorte che la dilettazione de’ figliuoli, per essere onesta ne gli uomini, ha la proprietà del continuo amore che si truova ne le cose oneste, come interviene ne la sanità.
Sofia. Ho compreso quel che m’hai detto de l’amor de’ figliuoli. Dimmi adesso de l’amore de la moglie al marito, e del marito alla moglie.
Filone. Manifesta cosa è che l’amor de’ maritati è delettabile; ma debbe essere congionto con l’onesto. E per questa causa, dipoi che s’è avuta la dilettazione, resta il reciproco amore sempre conservato e cresce continuamente, per la natura de le cose oneste. Congiugnesi ancora ne l’amore matrimoniale l’utile con il dilettabile e onesto, per ricevere continuamente li maritati utile l’uno dell’altro: il quale è una gran causa di far seguire l’amore in fra di loro. Talché, essendo l’amor matrimoniale delettabile, si continua per la compagnia che ha con l’onesto e con l’utile, e con tutti due insieme.
Sofia. Dimmi ora del desiderio che hanno gli uomini de la potenzia, dominio e imperio: di che sorte è, e come s’intitula l’amor di quelli.
Filone. Amare e desiderare le potenzie è del dilettabile congionto con l’utile. Ma perché la sua dilettazione non è materiale quanto al sentimento, ma spirituale ne la fantasia e cogitazione umana, e ancora per essere congionta con l’utile, però gli uomini che posseggono le potenzie non si saziano di quelle. Anzi i regni, imperi e domini, dipoi che sono acquistati, s’amano e conservano con astuzia e sollicitudine: non perché abbino de l’onesto (ché, in vero, in pochi di simili desidèri si truova onestà), ma perché l’immaginazione umana, ne la qual consiste la dilettazione, non si sazia come li sentimenti materiali; anzi di sua natura è poco saziabile, e tanto più per essere quelli desidèri non manco de l’utile che del delettabile. Il quale è causa d’amare tali domini posseduti e di conservarli con grande sollicitudine, desiderando sempre crescerli, con cupidità insaziabile e appetito sfrenato.
Sofia. Mancami a sapere de l’onore, gloria e fama, in qual de le tre sorti d’amore si deve collocare.
Filone. L’onore e gloria è di due sorte: l’uno falso e bastardo, e l’altro vero e legittimo. Il bastardo è il lusinghiero della potenzia; il legittimo è premio de la virtù. L’onore bastardo, che li potenti desiderano e procurano, è de la sorte del dilettabile; ma perché la sua dilettazione non consiste nel saziabile sentimento, ma solamente ne l’insaziabil fantasia, però non interviene in quella sazietà alcuna, come accade ne l’altre cose dilettabili. Anzi, se bene gli manca l’onesto, perché in effetto è alieno da ogni onestà, non [di] manco, di poi che è acquistato, si continua e conserva con desiderio d’insaziabile augumento23. Ma l’onore legittimo, come che sia premio de le virtù oneste, se bene è di sua natura dilettabile, la sua dilettazione è mescolata con l’onesto. E per questo, e per essere ancora il suggetto suo la smisurata fantasia, interviene che, di poi s’è acquistato, s’ama e desidera l’augumento suo con insaziabil desiderio. E non si contenta la fantasia umana di conseguire l’onore e gloria per tutta la vita, ma ancora la desidera e procura largamente per di poi la morte: la qual propriamente si chiama fama. È ben vero, ancor che l’onore sia premio de la virtù, non però è debito fine degli atti onesti e virtuosi, né per quello si debbe operare. Perché la fine de l’onesto consiste ne la perfezione de l’anima intellettiva, la quale con li virtuosi atti si fa vera, netta e chiara; e con la sapienzia si fa ornata di divina pittura. Però non può consistere ne l’opinione degli uomini, che pongono l’onore e la gloria ne la memoria e scrittura che conservano la fama; né manco debbe consistere il proprio fine de la pura onestà nel fantastico diletto che piglia il glorioso de la gloria e il famoso della fama. Questi son bene i premi che debitamente debbeno conseguire i virtuosi, ma non il fine che li muove a fare l’opere illustri. Debbesi lodare la virtù onesta; ma non si debbe operare la virtù per essere lodato. E se ben li lodatori fanno crescere la virtù, scemaria più presto, quando essa lode fusse il fine perché si facesse. Ma per la colligazione che hanno tali dilettazioni con l’onesto, sempre sono apprezzate e amate, e sempre si desidera augumentarle.
Sofia. Di quelle cose che t’ho domandato, son satisfatta, e conosco essere tutte de la sorte del dilettabile fantastico; ma in alcune si mescola l’utile, e in alcune altre l’onesto, e in alcune tutti due, e per questo l’abito suo non genera sazietà né fastidio. Al presente mi resta a sapere da te de l’amicizia umana e amor divino: di che sorte sono e di che condizione.
Filone. L’amicizia degli uomini qualche volta è per l’utile e qualche volta per il delettabile. Ma questi non sono perfetti amici né ferma amicizia, perché, levata l’occasione di tali amicizie, voglio dire che, cessando l’utile e la dilettazione, finiscono e dissolvensi l’amicizie che da quelle nascono. Ma la vera amicizia umana è quella che è causa de l’onesto e vincolo de le virtù: perché tal vincolo è indissolubile e genera amicizia ferma e interamente perfetta. Questa è solamente, fra tutte l’amicizie umane, la più commendata24 e lodata; ed è causa di colligare gli amici in tanta umanità, che ’l bene o male proprio di ciascuno di loro è comune a l’uno e l’altro; e qualche volta diletta più il bene e attrista il male a l’amico che al proprio paziente; e spesso piglia l’uomo parte degli affanni de l’amico per alleggerirlo di quelli o veramente per soccorrerlo con l’amicizia ne le sue fadighe, ché la compagnia ne le tribulazioni è causa che manco si sentono. E il Filosofo25 diffinisce tali amicizie dicendo che ’l vero amico è un altro se medesimo, per denotare che chi è ne la vera amicizia ha doppia vita costituita in due persone, ne la sua e in quella de l’amico; talché l’amico suo è un altro se medesimo, e ciascuno di loro abbraccia in sé due vite insieme, la propria sua e quella de l’amico; e con eguale amore ama tutte due le persone, e parimente conserva tutte due le vite. E per questa causa comanda la Sacra Scrittura l’onesta amicizia dicendo: «Amarai il prossimo come te medesimo»26; vuole che l’amicizia sia di sorte che si faccino uniti parimente, e un medesimo amore sia ne l’animo di ciascuno degli amici. E la causa di tale unione e colligazione è la reciproca virtù o sapienzia di tutti due gli amici. La quale, per la sua spiritualità e alienazione da materia e astrazione de le condizioni corporee, remuove la diversità de le persone all’individuazione corporale; e genera negli amici una propria essenzia mentale, conservata con sapere e con un amore e volontà comune a tutti due, così privata di diversità e discrepanzia come se veramente il suggetto de l’amore fusse una sola anima ed essenzia conservata in due persone, e non multiplicata in quelle. E in ultimo dico questo, che l’amicizia onesta fa d’una persona due, e di due una.
Sofia. De l’amicizia umana in poche parole m’hai detto assai cose. Veniamo a l’amor divino, ché desidero saper di quello come del supremo e maggiore che sia.
Filone. L’amor divino non solamente ha de l’onesto, ma contiene in sé l’onestà di tutte le cose e di tutto l’amor di quelle, come che sia, perché la divinità è principio, mezzo e fine27 di tutti gli atti onesti.
Sofia. Se è principio, come può essere fine e ancor mezzo?
Filone. È principio, perché da la divinità depende l’anima intellettiva agente di tutte l’onestà umane, la quale non è altro che un piccolo razo de l’infinita chiarezza di Dio, appropriato a l’uomo per farlo razionale, immortale e felice. E ancora questa anima intellettiva, per venire a fare le cose oneste, bisogna che participi del lume divino: perché, non ostante che quella sia prodotta chiara come razo de la luce divina, per l’impedimento della colligazione che tiene col corpo e per essere offuscata da la tenebrosità de la materia, non può pervenire all’illustri abiti de la virtù e lucidi concetti de la sapienzia, se non ralluminata da la luce divina ne’ tali atti e condizioni. Ché, così come l’occhio, se ben da sé è chiaro, non è capace di vedere i colori, le figure e altre cose visibili, senza essere illuminato da la luce del Sole, la quale, distribuita nel proprio occhio e nell’oggetto che si vede e nella distanzia che è fra l’uno e l’altro, causa la visione oculare attualmente; così il nostro intelletto, se ben è chiaro da sé, è di tal sorte impedito negli atti onesti e sapienti da la compagnia del rozzo corpo, e così offuscato, che gli è di bisogno essere illuminato da la luce divina. La quale, reducendolo da la potenzia a l’atto, e illuminate le spezie e le forme de le cose procedenti da l’atto cogitativo, quale è mezzo fra l’intelletto e le spezie de la fantasia, il fa attualmente intellettuale, prudente e sapiente, inclinato a tutte le cose oneste e renitente da le disoneste; e levandoli totalmente tutta la tenebrosità, resta lucido in atto perfettamente. Sì che, ne l’un modo e ne l’altro, il sommo Dio è principio dal quale tutte le cose oneste umane dependeno, così la potenzia come l’atto di quelle. Ed essendo il supremo Dio pura, somma bontà, onestà e virtù infinita, bisogna che tutte l’altre bontà e virtù dependino da lui come da vero principio e causa di tutte le perfezioni.
Sofia. Giusto è che ’l principio de le cose oneste sia nel sommo fattore, né in questo era dubbio alcuno. Ma in che modo è mezzo e fine di quelle?
Filone. La pia divinità è mezzo a ridurre a effetto ogni atto virtuoso e onesto. Perché, essendo la providenzia divina appropriata con maggior spezialità a quelli che participano de le divine virtù, e tanto più particularmente quanto più participano di quelle, non è dubbio che non sieno grandemente adiutrici28 ne l’opera di tali virtù, dando aiuto a quelli tali virtuosi per conseguire gli atti onesti e riducerli a perfezione. Ancora è mezzo ne’ tali atti in un altro modo: perché, come contiene in sé tutte le virtù e eccellenzie, è esemplo imitativo di tutti quelli che cercono operare virtuosamente. Qual maggior pietà e clemenzia che quella de la divinità? Qual maggior liberalità che quella che di sé fa parte a ogni cosa prodotta? Qual più integra giustizia che quella del suo governo? Qual maggior bontà, più ferma verità, più profonda sapienzia, più diligente prudenzia, che quella che conosciamo essere ne la divinità? Non perché la conosciamo secondo l’essere che ha in se medesima, ma per l’opere sue che vediamo ne la creazione e conservazione de le creature de l’universo. Di modo che, chi considerarà ne le virtù divine, l’imitazione di quelle è via e mezzo a tirarci a tutti gli atti onesti e virtuosi e a tutti i savi concetti a’ quali l’umana condizione può arrivare: ché, non solamente Dio è padre a noi ne la generazione, ma maestro e maraviglioso amministratore per attraerci a tutte le cose oneste mediante li suoi chiari e manifesti esempli.
Sofia. Mi piace molto che l’onnipotente Dio non solamente sia principio d’ogni ben nostro, ma ancor mezzo. Vorria sapere in che modo è fine.
Filone. Solo Dio è fine regolato di tutti gli atti umani. Perché l’utile è per acquistare il conveniente delettabile; e la necessaria dilettazione è per la sustentazione umana, la quale è per la perfezione de l’anima; e questa si fa perfetta primamente con l’abito virtuoso, e di poi di quello venendo alla vera sapienzia, il fine de la quale è il conoscere Dio, quale è somma sapienzia, somma bontà e origine d’ogni bene. E questo tale conoscimento causa in noi immenso amore, pieno di eccellenzia e onestà, perché tanto è amata la cosa onestamente, quanto è conosciuta per buona; e l’amore di Dio debbe eccedere ogni altro amore onesto e atto virtuoso.
Sofia. Io ho inteso che altra volta29 hai detto che, per essere infinito e in tutta perfezione, non si può conoscere da la mente umana, la quale è, in ogni cosa, finita e terminata. Perché, quello che si conosce, si debbe comprendere. E come si comprenderà l’infinito dal finito, e l’immenso dal poco? E non potendosi conoscere, come si potrà amare? Ché tu hai detto che la cosa buona bisogna conoscerla, prima che s’ami.
Filone. L’immenso Dio tanto s’ama quanto si conosce. E così come dagli uomini interamente non può essere conosciuto, né ancor la sua sapienzia da la gente umana, così non può interamente essere amato in quel grado dagli uomini, che da la parte sua si conviene. Né la nostra volontà è capace di così escessivo amore; ma de la nostra mente è conoscere secondo la possibilità del conoscitore, ma non secondo l’immensa eccellenzia del conosciuto30. Né la nostra volontà ama secondo che lui è degno d’essere amato, ma quanto si può estendere in lui ne l’atto amatorio.
Sofia. Si può ancor conoscere la cosa che per il conoscente non si comprenda?
Filone. Basta che si comprenda quella parte che de la cosa si conosce: ché il conosciuto si comprende dal conoscente secondo il potere del conoscente, e non secondo quello del conosciuto. Non vedi tu che s’imprime e comprende la forma de l’uomo nel specchio, non secondo il perfetto essere umano, ma secondo la capacità e forza de la perfezione del specchio? Il quale è solamente figurativo e non essenziale. Il fuoco è compreso da l’occhio, non secondo la sua ardente natura, ché se così fusse l’abbruciaria, ma solamente secondo il colore e la figura sua. E qual maggiore esemplo che essere compreso il grande emisperio del cielo da sì piccola parte come è l’occhio? Vedi che è tanta la sua piccolezza, che si truova alcun savio che crede essere indivisibile; senza potere ricevere alcuna divisione naturale. Però l’occhio comprende le cose secondo la sua forza oculare, sua grandezza e sua natura, ma non secondo la condizione de le cose viste in se medesime. E di questa sorte comprende il nostro piccolo intelletto l’infinito Dio: secondo la capacità e forza intelligibile umana, ma non secondo il pelago senza fondo de la divina essenzia e immensa sapienza. A la qual cognizione segue e responde l’amor di Dio conforme a l’abilità de la volontà umana, ma non proporzionata all’infinita bontà di esso ottimo Dio.
Sofia. Dimmi se in questo amor di Dio si mescola desiderio.
Filone. Anzi non è mai spogliato l’amor divino d’ardente desiderio, il qual è d’acquistare quel che manca del conoscimento divino; di tal modo che, crescendo il conoscimento, cresce l’amore de la divinità conosciuta. Ché, escedendo l’essenzia divina il conoscimento umano in infinita proporzione, e non manco la sua bontà l’amor che gli umani gli portono, però resta a l’uomo sempre felice, ardentissimo e sfrenatissimo desiderio di crescere sempre il conoscimento e amor divino. Del qual crescimento l’uomo ha sempre possibilità, da la parte de l’oggetto conosciuto e amato; benché da la parte sua potria essere fussero determinati tali effetti in quel grado che l’uomo più innanzi non può arrivare; o vero che, ancor di poi de l’essere nell’ultimo grado, gli resta impressione di desiderio per sapere quel che gli manca, senza posservi mai pervenire, ancor che fusse beato, per l’eccellenzia de l’amato oggetto sopra la potenzia e abito umano. Benché tal restante desiderio ne’ beati non debbe causare passione per il mancamento, poiché non è in possibilità umana aver più; anzi gli dà somma dilettazione l’essere venuti ne l’estremo de la sua possibilità e nel conoscimento e amor divino.
Sofia. Poi che siamo venuti a questo, vorria sapere in che modo consiste questa beatitudine umana.
Filone. Diverse sono state l’opinioni degli uomini nel suggetto de la felicità. Molti l’hanno posta ne l’utile e possessione de’ beni de la fortuna e abbundanzia di quelli fin che dura la vita. Ma la falsità di questa opinione è manifesta: perché simili beni esteriori sono causati per l’interiori; di modo che questi dependono da quelli, e la felicità debbe consistere ne li più eccellenti; e questa felicità è fine de l’altre e non per nessuno altro fine; ma tutti son per questo, massime che simili beni esteriori sono in potere de la fortuna, e la felicità debbe essere in potere de l’uomo. Alcuni altri hanno avuta diversa opinione, dicendo che la beatitudine consiste nel dilettabile; e questi sono l’Epicurei31, quali tengono la mortalità de l’anima, e nissuna cosa credono essere felice ne l’uomo escetto la dilettazione in qual si voglia modo. Ma la falsità di questa loro opinione non è ancora occulta, perché il delettabile corrompe se medesimo quando viene in sazietà e fastidio, e la felicità dà intero contentamento e perfetta satisfazione. E di sopra abbiamo detto che ’l fine del delettabile è l’onesto; e la felicità non è per altro fine, anzi è causa finale d’ogni altra cosa. Sì che senza dubbio la felicità consiste ne le cose oneste e negli atti e abiti de l’anima intellettiva, quali sono li più eccellenti e fine degli altri abiti umani; e son quelli mediante li quali l’uomo è uomo e di più eccellenzia che nissuno altro animale.
Sofia. Quanti e quali sono questi abiti degli atti intellettuali?
Filone. Dico che son cinque: arte, prudenzia, intelletto, scienzia e sapienzia32.
Sofia. In che modo le diffinisci?
Filone. L’arte è abito de le cose da farsi secondo la ragione, e son quelle che si fanno con le mani e con opera corporale; e in quest’arte s’intercludeno tutte l’arti meccaniche, ne le quali s’adopera l’instrumento corporale. La prudenzia è abito degli atti agibili secondo la ragione, e consiste nell’opera de’ buoni costumi umani; e in questa s’interclude[no] tutte le virtù che s’operano mediante la volontà e gli affetti volontari d’amore e desiderio. L’intelletto, [abito] del quale è principio di sapere quali abiti son conosciuti e concessi da tutti naturalmente, quando li vocabuli sono intesi: come è quello che ’l bene si debbe procurare e il male fuggire, e che li contrari non possono stare insieme, e altri simili, ne’ quali la potenzia intellettiva s’opera nel suo primo essere. La scienzia è abito de la cognizione e conclusione, qual si genera de li sopradetti princìpi: e in questa s’interclude[no] le sette arti liberali; nella quale s’opera l’intelletto nel mezzo del suo essere. La sapienzia è abito di tutte due insieme, che è di principio e di conclusione di tutte le cose che hanno essere. Questa sola arriva al conoscimento più alto de le cose spirituali; e li Greci la chiamano teologia, che vuol dire «scienzia divina»; e chiamasi prima filosofia, per essere capo di tutte le scienzie; e il nostro intelletto s’opera in questa nel suo ultimo e più perfetto essere.
Sofia. La felicità in quale di questi due abiti veri consiste?
Filone. Manifesto è che non consiste in arte né in cose artificiali, che più presto levano la felicità che la procaccino; ma consiste la beatitudine negli altri abiti, gli atti de’ quali s’includeno in virtù o sapienzia, ne le quali veramente la felicità consiste.
Sofia. Dimmi più particolarmente in qual di queste due consiste ultimamente la felicità, o ne la virtù o ne la sapienzia.
Filone. Le virtù morali son vie necessarie per la felicità; ma il proprio soggetto di quelle è la sapienzia, la quale non saria possibile averla senza le virtù morali: ché chi non ha virtù non può essere sapiente, così come il savio non può essere privato di virtù. Di modo che la virtù è la via de la sapienzia, e lei il luogo de la felicità.
Sofia. Molte sono le sorte del sapere e diverse sono le scienzie, secondo la moltitudine de le cose acquistate e la diversità e modo che son conosciute da l’intelletto. Dimmi adunque in quale e in quante consiste la felicità: se è in conoscere tutte le cose che si truovano, o in parte di quelle, o se consiste ne la cognizione d’una cosa sola; e qual potria essere quella cosa che la sua sola cognizione fa il nostro intelletto felice.
Filone. Furono alcuni sapienti che stimarono consistere la felicità ne la cognizione di tutte le scienzie de le cose; e in tutte, senza mancarne alcuna.
Sofia. Che ragione mostrano in confirmazione de la loro opinione?
Filone. Dicono che ’l nostro intelletto è in principio, e pura potenzia d’intendere; la qual potenzia non è determinata a alcuna sorte di cose, ma è comune e universale a tutte; e, come dice Aristotile33, la natura del nostro intelletto è possibile a intendere e ricevere ogni cosa, come la natura de l’intelletto agente, che è quello che fa le simili intellettive, e illumina di quelle il nostro intelletto, e gli fa fare ogni cosa intellettuale, e illumina e imprime ogni cosa ne l’intelletto possibile, e non è altro che essere redutto da la sua tenebrosa potenzia a l’atto, illuminato per l’intelletto agente. Segue che la sua ultima perfezione e sua felicità debbe consistere ne l’essere interamente redutto di potenzia in atto di tutte le cose che hanno essere, perché, essendo esso in potenzia a tutte, debbe essere la sua perfezione e felicità in conoscerle tutte; di sorte che nissuna potenzia né mancamento resti in lui. E questa è l’ultima beatitudine e felice fine de l’intelletto umano. Nel qual fine dicono34 che ’l nostro intelletto è privato in tutto di potenzia ed è fatto attuale; e in tutte le cose s’unisce e converte nel suo intelletto agente illuminante per la remozione de la potenzia, qual causa la sua diversità. E in questo modo l’intelletto possibile si fa puro in atto: la quale unione è ultima perfezione e la vera beatitudine. E questa si chiama felice copulazione de l’intelletto possibile con l’intelletto agente.
Sofia. Questa loro ragione non mi pare manco efficace che alta; ma più presto mi pare che inferisca il non essere de la beatitudine, che ’l modo de l’essere suo.
Filone. Perché?
Sofia. Perché, se non può essere l’uomo beato fin che non abbi conosciuto tutte le cose, non potrà mai essere: ch’è quasi impossibile un uomo venire in cognizione di tutte le cose che sono, per la brevità de la vita umana e la diversità de le cose de l’universo.
Filone. Vero è quel che dici. E manifestamente è impossibile che un uomo conosca tutte le cose, e ciascuna per sé separatamente. Però che in diverse parti de la Terra si truova tante diverse sorte di piante, e d’animali terrestri e volanti, e d’altri misti non animati; e un uomo non può scorrere tutto il cerchio de la Terra per conoscerli e vederli tutti. E quando potesse vedere il mare e sua profondità, ne la quale si truovano molte più spezie d’animali che ne la Terra (tanto che si dubita di qual si truovi più numero nel mondo, o d’occhi o di peli; perché si stima non essere manco il numero degli occhi marini che ’l numero de’ peli degli animali terrestri), né fa bisogno esplicare l’incomprensibil conoscimento de le cose celesti, né del numero de le stelle de l’ottava sfera, né de la natura e proprietà di ciascuna. La moltitudine de le quali formano quarantaotto figure celesti: de le quali dodici sono nel zodiaco, che è la via per la quale il Sole fa il suo corso; e vintiuna figura sono a la parte settentrionale de l’equinozio fino al polo artico, manifesto a noi altri, qual chiamano tramontana; e l’altre quindici figure che restano son quelle che noi altri possiamo vedere ne la parte meridionale, da la linea equinoziale fino al polo antartico a noi altri occulto. E non è dubbio che in quella parte meridionale, circa del polo, si truovano molte altre stelle, in alcune figure a noi altri incognite per essere sempre sotto al nostro emisperio; del qual siamo stati migliara d’anni ignoranti, benché al presente se n’abbia qualche notizia per la nuova navigazione de’ Portughesi e Spagnuoli35. Né bisogna esprimere quel che non sapiamo del mondo spirituale, intellettuale e angelico, e de le cose divine, de le quali nostra cognizione è minore che una goccia d’acqua in comparazione di tutto il mare oceano. E lasso ancor di dire quante cose di quelle che vediamo che non le sapiamo, e ancor de le proprie nostre: tanto che si truova chi dice le proprie differenzie essere a noi altri ignoranti. Ma almanco non si dubita essere molte cose nel mondo che non le possiamo vedere né sentire, e per questo non le possiamo intendere: ché, come dice il Filosofo36, nissuna cosa è ne l’intelletto che prima non sia nel sentimento.
Sofia. Come! Non vedi tu che le cose spirituali s’apprendeno per l’intelletto senza essere mai viste o sentite?
Filone. Le cose spirituali son tutte intelletto: e l’intellettual luce è ne l’intelletto nostro come è in se medesima, per unione e propria natura. Ma non è come le cose sensate: che, avendo bisogno de l’intelletto per l’opera de l’intellezione, si ricevono in quello come una cosa ne l’altra si riceve; ché, per essere tutte materiali, con verità si dice che non possono essere ne l’intelletto se prima non si truovano nel senso, che materialmente le conosce.
Sofia. Tutti quelli che intendono le cose spirituali, credi tu che l’intendino per quella unità e proprietà che hanno con il nostro intelletto?
Filone. Non dico questo; se bene è questa la perfetta coniunzione de le cose spirituali. Si truova un altro modo ancora, che si conoscono le cose spirituali per l’effetti visti o sentiti; come vedi che, per il continuo movimento del cielo, si conosce che il motore non è corpo né virtù corporea, ma intelletto spirituale separato da materia; sì che, se l’effetto del suo movimento non fusse prima nel sentimento, non saria conosciuto. Doppo questa cognizione ne viene un’altra più perfetta de le cose spirituali: che si fa intendendo il nostro intelletto la scienzia intellettuale in se medesima, trovandosi in atto per la identità de la natura e unione sensuale che ha con le cose spirituali.
Sofia. Intendo questo. Non lassiamo il filo. Tu dici che la beatitudine non può consistere nel conoscimento di tutte le cose, perché è impossibile. Vorria sapere come alcuni uomini savi abbino dato luogo a tale impossibilità, non possendo consistere in quella la felicità umana.
Filone. Quei tali non intendono consistere la beatitudine ne la cognizione di tutte le cose particulari, distribuitamente37; ma chiamano «sapere tutte le cose» il sapere di tutte le scienzie, che trattano di tutte le cose in un certo ordine e universalità; che, dando notizia de la ragione di tutte le cose e di tutte le sorte de l’essere suo, danno universal conoscimento di tutte, se bene alcune particularmente non si truovano nel sentimento.
Sofia. E questo conoscimento di tutte le scienzie è possibile che l’abbi un uomo?
Filone. La possibilità di questo è molto lontana. Onde il Filosofo38 dice che tutte le scienzie, da una parte, sono facili da trovarsi e, da l’altra, difficili: son facili in tutti gli uomini, e difficili in uno solo. E se pure si trovassero, la felicità non può consistere in conoscimento di molte e diverse cose insieme, perché, come il Filosofo39 dice, la felicità non consiste in abito di cognizione, ma ne l’atto di quello: ché ’l sapiente quando dorme non è felice, ma quando fruisce e gode de l’intelligenzia è felice. Adunque, se così è, in uno solo atto d’intendere, di necessità consiste la beatitudine, perché, se ben si possono tenere insieme molti abiti di scienzia, non però si può attualmente intendere più che una cosa sola: di modo che la felicità non in tutte né in molte e diverse cose conosciute può consistere, ma solamente in cognizione d’una cosa sola bisogna consista. È ben vero che, per venire a la beatitudine, bisogna prima grande perfezione in tutte le scienzie: così nell’arte del dimostrare e dividere la verità dal falso in ogni intelligenzia e discorso, la quale si chiama logica; come ne la filosofia morale, o ne l’usare de la prudenzia e de le virtù agibili; come ancora ne la filosofia naturale, che è de la natura di tutte le cose che hanno movimento, mutazione o alterazione; come ancora ne la filosofia matematica, quale è de le cose che hanno quantità, o numerabili o mensurabili. La quale, se si conosce di numero assoluto, fa la scienzia de l’arismetica; e se è di numero di voci, fa la scienzia de la musica; ed essendo di misura assoluta, fa la scienzia de la geometria; e se tratta de la misura de’ corpi celesti e suoi movimenti, fa la scienzia de l’astrologia. E sopra tutto bisogna essere perfetto in quella parte de la dottrina che è più prossima a la felice coniunzione; la quale è la prima filosofia, che sola si chiama sapienzia: e questa tratta di tutte le cose che hanno essere, e di quelle intende, più principalmente, quanto maggior e più eccellente essere hanno. Questa sola dottrina tratta de le cose spirituali ed eterne, l’essere de le quali, circa la natura, è molto maggiore e più conosciuto che l’essere de le cose corporee e corruttibili; benché sieno manco conosciute da noialtri che le corporee, per non potersi comprendere da’ nostri sensi come quelle. Tal che il nostro intelletto è, ne la cognizione, come l’occhio del spiritello40 a la luce e cose visibili; che la luce del Sole, che in sé è la più chiara, non la può vedere, perché il suo occhio non è bastante a tanta chiarezza, e vede il lustro de la notte che gli è proporzionato41. Questa sapienzia e prima filosofia è quella che arriva al conoscimento de le cose divine possibili a l’umano intelletto: e [per] questa causa si chiama teologia che vuol dire «sermone di Dio». Di sorte che il sapere de le diverse scienzie è necessario per la felicità; ma essa non consiste già in quelle, anzi in una perfettissima cognizione d’una cosa sola.
Sofia. Dichiarami che cognizione è questa, e di che cosa, che sola fa l’uomo beato: che, sia qual si voglia, a me pare strano che abbi a precedere in causa la felicità a la cognizione de la parte [più] che del tutto: ché quella prima ragione, per la quale concludesti consistere la felicità ne l’attuale conoscimento di tutte le cose o scienzie in le quali il nostro intelletto è in potenzia, mi pare che concluda che, essendo quello in potenzia, tutta la sua beatitudine debbe consistere in conoscerle tutte in atto. E se così è, come può essere felice con una sola cognizione, come tu dici?
Filone. L’argumenti tuoi concludeno; ma le ragioni dimostrano più [tosto] come la verità non può essere contraria de la verità, e bisogna dar luogo a l’una o a l’altra. E debbi intendere che la felicità consiste nel conoscere una cosa sola, [e] che nel conoscimento di tutte, ciascuna per sé divisamente, non può consistere; anzi [di] tutte insieme in uno conoscimento d’una sola cosa, ne la quale sono tutte le cose de l’universo. E, quella conosciuta, si conoscono tutte insieme, in uno atto e in maggiore perfezione che se fussero conosciute ciascuna da per sé divisamente.
Sofia. Qual è questa cosa che, essendo solamente una, è tutte le cose insieme?
Filone. L’intelletto, di sua propria natura, non ha un’essenzia signalata42, ma è tutte le cose. E se è intelletto possibile, è tutte le cose in potenzia, ché la sua propria essenzia non è altro che l’intendere di tutte le cose in potenzia. E se è intelletto in atto, puro essere e pura forma, contiene in sé tutti li gradi de l’essere e de le forme e degli atti de l’universo: tutti insieme in essere, in unità e in pura simplicità. Di modo che chi lo può conoscere vedendolo in essere, conosce, in una sola visione e simplicissima cognizione, tutto l’essere di tutte le cose de l’universo insieme, in molta maggiore perfezione e purità intellettuale di quelle che si truovono in se medesime: perché le cose materiali hanno molto più perfetto essere nell’attuale intelletto, che in quello che hanno in sé proprio. Sì che, con il solo conoscimento de l’attuale intelletto si conosce il tutto de le scienzie de le cose e si fa l’uomo beato.
Sofia. Dichiarami adunque che intelletto è questo che, conoscendosi, causa la beatitudine.
Filone. Tengono alcuni che sia l’intelletto agente, che, copulandosi con il nostro intelletto possibile, veggono tutte le cose in atto insieme con una sola visione spirituale e chiarissima, per la quale si fa beato. Altri dicono che la beatitudine è quando nostro intelletto, illuminato totalmente da la copulazione de l’intelletto agente, è fatto tutto attuale senza potenzia, e vede in se medesimo secondo sua intima essenzia intellettiva; ne la quale sono, e vede, tutte le cose spiritualmente e, in uno e medesimo intelligente, la cosa intesa e l’atto de l’intellezione, senza alcuna differenzia né diversità di scienzia. Ancora questi dicono che, quando in tal modo il nostro intelletto è essenziato, si fa e resta uno medesimo essenzialmente con l’intelletto agente, senza restare in loro alcuna divisione o multiplicazione. E in questi modi ragionano de la felicità i più chiari de’ filosofi43. E largo saria, ma non proporzionato al nostro parlamento44, il dire quello che adducono in pro e in contra. Ma quello ch’io ti dirò è che gli altri che più contemplano la divinità, dicono (e io con quelli insieme) che l’intelletto attuale, che illumina il nostro possibile, è l’altissimo Dio45; e così tengono per certo che la beatitudine consiste ne la cognizione de l’intelletto divino, nel quale sono tutte le cose primamente e più perfettamente che in alcuno intelletto creato, perché in quello sono tutte le cose essenzialmente, non solamente per ragione d’intelletto, ma ancor causalmente, come in prima e assoluta causa di tutte le cose che sono. Di modo ch’è la causa che le produce, la mente che le conduce, la forma che le informa; e per il fine che l’indirizza son fatte; e da lui vengono, e in lui ultimamente ritornano come in ultimo e vero fine e comune felicità. Ed è il primo essere; e per sua participazione tutte le cose sono. Lui è il puro atto; lui il supremo intelletto dal quale ogni intelletto, atto, forma e perfezione depende. E a quello tutte s’indirizzano come a perfettissimo fine; e in esso spiritualmente stanno, senza divisione o multiplicazione alcuna, anzi in simplicissima unità. Esso è il vero felice. Tutti hanno bisogno di lui, e lui di nissuno. Vedendo se medesimo, tutti conosce; e, vedendo, è da sé visto. E la sua visione, tutto è somma unità a chi il può vedere e, se ben non è capace, conosce di quello quanto è capace. E vedendo l’intelletto umano o angelico, secondo la sua capacità e virtù, tutte le cose insieme in somma perfezione, participa la sua felicità, e per quella si fa e resta felice secondo il grado del suo essere. Non ti dirò più di questo, perché la qualità de la nostra narrazione non il consente; né ancor la lingua umana è suffiziente a esprimere perfettamente quello che l’intelletto in questo sente; né per le voci corporali si può esprimere l’intellettual purità de le cose divine. Basta che sappi che la nostra felicità consiste nel conoscimento e visione divina, ne la quale tutte le cose perfettissimamente si veggono.
Sofia. Non ti dimandarò più di questo caso, che mi pare basti in quanto a le mie forze, se già non è superfluo. Ma un dubbio m’occorre, ch’io ho inteso altre volte: che la felicità non consiste precisamente in conoscere Dio, ma in amarlo e fruirlo con dilettazione.
Filone. Essendo Dio il vero e solo oggetto de la nostra felicità, noi altri l’amiamo con conoscimento e amore. E li sapienti furono diversi in questi due atti: cioè, se ’l proprio atto de la felicità è conoscere Dio, o vero amarlo. E a te deve bastare il sapere che l’uno e l’altro atto fa di bisogno ne la beatitudine.
Sofia. Vorria sapere la ragione che ha mosso ciascuno de l’inventori di queste due sentenzie.
Filone. Quelli che tengono che la felicità consiste in amare Dio, fanno questa ragione: che la beatitudine consiste ne l’ultimo atto che la nostra anima opera verso di Dio, per essere quello l’ultimo fine umano; e come sia che prima bisogna conoscerlo e di poi amarlo, ne segue che non nel conoscimento, ma ne l’amor di Dio, che è l’ultimo atto, consiste la felicità. S’aiutano ancora de la dilettazione, che è principale ne la felicità; la quale è de la volontà. Onde dicono che il vero atto felice è volontario: cioè l’amore, nel quale consiste la dilettazione e non ne l’atto intellettuale, perché [questo] non participa così de la dilettazione46. Gli altri in contrario fanno questa ragione e dicono che la felicità consiste ne l’atto de la principale e più spirituale potenzia de l’anima nostra; e come sia che l’intellettiva potenzia è più principale che la volontà e più astratta da materia, ne segue che la beatitudine non consiste ne l’atto de la volontà, che è amarlo, ma dicono che al conoscimento segueno l’amor e la dilettazione come accessorie, ma che non sono il fin principale47.
Sofia. Non manco efficace mi pare l’una ragione che l’altra; pur vorria sapere la tua determinazione.
Filone. È difficile cercare di [de]terminare una cosa tanto disputata dagli antichi filosofi e moderni teologi; ma, per contentarti, sol questo ti voglio dire in questa nostra narrazione, con la quale m’hai disviato dal dirti, come desidero, l’afflizione del mio animo verso di te.
Sofia. Di’ questo solamente. E di poi che saremo sazi de le cose divine, più puramente potremo parlare de la nostra amicizia umana.
Filone. Fra le proposizioni che sono vere e necessarie, l’una è che la felicità consiste ne l’ultimo atto de l’anima, come in vero fine; l’altra è che consista ne l’atto de la più nobile e spiritual potenzia de l’anima, e questa è l’intellettiva. Ancor non si può negare che l’amore presuppone conoscimento; ma non per questo segue che l’amore sia l’ultimo atto de l’anima. Perché tu puoi sapere che di Dio [e di] tutte le cose amate e desiderate si truovano di due sorte di conoscere. L’una è innanzi de l’amore causato da quelle, la quale non è cognizione perfettamente unitiva. L’altra è dipoi de l’amore, da l’amore causata: la qual cognizione unitiva è fruizione di perfetta unione; ché ’l primo conoscimento del pane fa che l’ami e desideri chi ha fame; ché, se prima non lo conoscessi esemplarmente, non lo potria amare e desiderare. E mediante questo amore e desiderio veniamo a la vera cognizione unitiva del pane, la quale è quando in atto si mangia: ché la vera cognizione del pane è gustarlo. Così accade de l’uomo con la donna: che conoscendola esemplarmente s’ama e desidera, e da l’amore si viene al conoscimento unitivo che è il fine del desiderio. E così è in ogni altra cosa amata e desiderata: ché in tutte l’amore e desiderio è mezzo che ci leva da l’imperfetto conoscimento a la perfetta unità che è il vero fine d’amore e desiderio; quali sono affetti de la volontà che fanno, de la divisa cognizione, fruizione di cognizione perfetta e unita48. E quando intenderai questa naturalità intrinseca, conoscerai che non son lontani dal mentale desiderio né si discostano da l’amore mentale, se bene l’aviamo di sopra in suggetto comune altrimenti esplicato. Di modo che l’amore veramente si può diffinire che sia desiderio di godere con unione la cosa conosciuta per buona; e ancor che il desiderio, come altra volta t’ho detto49, presupponga assenzia de la cosa desiderata. Ora ti dico che, quando bene la cosa buona sia e si possegga, si può in ogni modo desiderare non d’averla (poi che è avuta), ma di fruirla con unione conoscitiva; e questa futura fruizione si può desiderare, perché ancor non è. Questo tal desiderio si chiama amore, ed è di cose non avute che si desiderano avere, o veramente de l’avute che si desiderano godere con unione; e l’uno e l’altro propriamente si chiama desiderio, ma il secondo più propriamente amore. Di sorte che diffiniamo l’amore «desiderio di fruir con unione»50, o veramente «desiderio di convertirsi con unione ne la cosa amata». E tornando a l’intento nostro, dirò che: prima, quel conoscimento debbe essere di Dio; secondo, che si può avere, di cosa tanto immensa e tanto alta. E conoscendo noialtri la sua perfezione, perché non bastiamo a conoscerla interamente, l’amiamo, desiderando fruirlo con unione conoscitiva la più perfetta che sia possibile. Questo tanto amore e desiderio fa che siamo astratti in tanta contemplazione, che ’l nostro intelletto si viene a sollevare in modo che, illuminato d’una singulare grazia divina, arriva a conoscere più alto che l’umano potere e l’umana speculazione; e viene in una tal unione e copulazione col sommo Dio, che più presto si conosce nostro intelletto essere ragione e parte divina, che intelletto in forma umana. E allora si sazia il desiderio suo e l’amore, con molta maggiore satisfazione di quella che aveva nel primo conoscimento e nel precedente amore. E ben potria essere che restasse l’amore e il desiderio, non d’avere il conoscimento unitivo, ché già l’ha avuto, ma di continuare la fruizione di tal unione divina, che è verissimo amore. E ancora non affirmaria che si senta dilettazione in quello atto beato, escetto in tempo che s’acquistò, perché allora si ha dilettazione, per acquistare la cosa desiderata che mancava. Ché la maggior parte de le dilettazioni sono per remedio del mancamento e per l’acquisto de la cosa desiderata; ma, fruendo l’atto de la felice unione, non resta impressione alcuna di difetto, anzi una intera satisfazione d’unità, la quale è sopra ogni dilettazione, allegrezza e gaudio. E in conclusione ti dico che la felicità non consiste in quello atto conoscitivo di Dio il quale conduce l’amore, né consiste ne l’amore che a tal cognizione succede; ma sol consiste ne l’atto copulativo de l’intima e unita cognizione divina, che è la somma perfezione de l’intelletto creato. E quello è l’ultimo atto e beato fine, nel quale più presto si truova divino che umano. E per questo la Sacra Scrittura – di poi che ci ammonisce che debbiamo conoscere la perfetta e pura unità di Dio, e, di poi, che debbiamo amarlo più che l’utile de la cupidità e più che il delettabile de l’appetito e più che ogni altro onesto de l’anima e volontà razionale – dice, per ultimo fine: «Pertanto con esso Dio vi copulate»51; e in un’altra parte, promettendo l’ultima felicità, solamente dice: «E con esso Dio vi copularete»52, senza promettere nissuna altra cosa, come vita, eterna gloria, somma dilettazione, allegrezza e luce infinita, e altre simili; perché questa copulazione è la più propria e precisa parola che significhi la beatitudine; la qual contiene tutto il bene e perfezione de l’anima intellettiva, come quella che è sua vera felicità. È ben vero che in questa vita non è così facile avere tale beatitudine; e quando ben si potesse avere, non è così facile continuare in quella sempre. E questo è che, mentre viviamo, il nostro intelletto ha qualche sorte di vincolo con la materia di questo nostro fragil corpo. E per questa causa qualcuno, che è venuto a tal copulazione in questa vita, non continuava sempre in quella per la colligazione corporea; anzi, di poi de la copulazione divina, tornava a riconoscere le cose corporee come prima; escetto che, ne la fine de la vita stando, l’anima copulata lassò in tutto il corpo, retinendosi lei con la divinità copulante in somma felicità. L’anima di poi, separata da questa colligazione corporea, essendo stata di tanta eccellenzia senza impedimento alcuno, gode in eterno sua felice copulazione con la divina luce, de la sorte che godeno quella li beati angeli e intelligenzie separate, motori e celesti corpi, ciascuno secondo il grado de la sua dignità e perfezione, perpetuamente. Al presente mi pare, o Sofia, che ti debbi bastare questo poco de le cose spirituali; e tornando a me, vedi s’io posso remediare alla passione che mi danno li miei affetti volontari per sostentazione di questa corporea compagnia.
Sofia. Voglio prima saper da te di qual sorte d’amore è quel che dici che mi porti; perché, avendomi tu mostrato la qualità di molti differenti amori e desidèri che in gli uomini si truovono, e avendoli tutti colligati in tre sorte d’amore, però dechiarami di qual di queste sorti d’amore è quello che mi porti.
Filone. La sorte de l’amor ch’io ti porto, o Sofia, non la posso intendere né la so esplicare. Sento sue forze, ma non le comprendo: ché, essendo sì appassionato, di me è fatto signore e di tutto l’animo. E come principale amministratore mi conosce; ed io, che son servo comandato, non basto a conoscerlo. Niente di manco conosco che il desiderio mio cerca il delettabile.
Sofia. Se così è, tu non debbi domandare remedio, ch’io satisfacci a la tua volontà, né incolparmi se non te lo concedo: ché già m’hai mostrato che, quando si consegue l’effetto delettabile del desiderio, non solamente cessa il desiderio, ma ancora si priva d’amore e convertesi in odio.
Filone. Non ti contenti eleggere de la nostra confabulazione per te dolce frutto e salutifero! Ma così Dio non vuole che elegga, per darmi in satisfazione frutto amaro e velenoso. E in questo non potrai lodarti di gratitudine né adornare di pietà, poi che con la saetta che il mio arco tirò in tuo favore tu crudelmente vuoi trapassare il cuore.
Sofia. Se l’amarmi reputi cosa degna, come io stimo, saria indegna cosa ch’io causassi che si privasse l’amore che mi porti, concedendoti la satisfazione del tuo desiderio; e in questa concessione sarei veramente crudele non meno a me che a te, privando te de l’amore verso di me e me d’essere amata. E sarò pietosa a tutti due negandoti il fine del tuo sfrenato desiderio, acciò non abbi fine il soave amore.
Filone. Tu t’inganni, o mi vuoi ingannare, facendomi fondamento falso e non al proposito de l’amore, ch’io t’abbi detto che cercare il desiderato facci privare l’amore e convertirlo in odio; che non è cosa più falsa.
Sofia. Come falsa? Non hai tu detto che la qualità de l’amor delettabile è quella che la sua sazietà si converte in odio fastidioso?
Filon