CONSTANTER ET NON TREPIDE
Carlo Carboni è professore di Sociologia economica presso la Facoltà di Economia "Giorgio Fuà" di Ancona. Ha curato Le power élite in Italia (Roma 2000).
Scopri l'autoreIscriviti alla Newsletter Laterza per essere sempre informato sulle novità in uscita e sugli appuntamenti in agenda!
CONSTANTER ET NON TREPIDE
Introduzione. La porta stretta
1. Classi dirigenti e antipolitica: declino della società di massa e cittadinanza competente
È possibile generare classe dirigente?
La cittadinanza competente e il declino della società di massa
Una nuova segmentazione sociale
Gruppi di interesse e governabilità
Plusvalore politico e risentimento sociale
2. Le classi dirigenti nella società della conoscenza: valori e capitale umano
Capitale umano e cultura autoespressiva
I lavoratori della conoscenza in Italia e in Europa
3. La società: civica o cinica?
Ceti e stili di vita: crisi dei ceti medi e nuova borghesia
Individualizzazione e senso civico
I disimpegnati del nuovo centro
4. Le classi dirigenti: problematiche in pillole
Non si apprende solo nelle aule universitarie
Il Sessantotto e le attuali classi dirigenti
Media e politica: l’élite è una sola
I vertici del «partito leggero» della Chiesa
Il governo territoriale multilivello
Epilogo. Ci meritiamo L’Italia?
Tra gli scaltriti pratici di oggi, la menzogna ha da tempo perso
la sua onorevole funzione di ingannare intorno a qualcosa di reale.
Nessuno crede più a nessuno, tutti sanno il fatto loro.
Si mente solo per far capire all’altro che di lui non ci importa nulla,
che non ne abbiamo bisogno, che ci è indifferente cosa pensi di noi.
La bugia, un tempo strumento liberale di comunicazione,
è diventata oggi una tecnica della sfrontatezza, con cui ciascuno spande intorno
a sé il gelo di cui ha bisogno per vivere e prosperare.
Theodor W. Adorno, Minima moralia (1951), Einaudi, Torino 1974, p.23
Nella vostra biblioteca dei sogni, ne albergano sicuramente alcuni che si sono realizzati. Molto più spesso avrete amaramente constatato che ciò che avete sognato, nella realtà, non si è realizzato. Almeno fino ad ora. Questa è la vita e l’Italia non fa eccezione. La società sogna classi dirigenti con tutt’altri stimoli, caratteristiche e motivazioni rispetto a quelli delle élites attuali. Questa è l’Italia e noi stessi non facciamo eccezione. La nostra società rincorre i simboli dei ceti di consumo adottando habitus pubblicitari nella pretesa – il più delle volte vana – che ciò che acquistiamo possa farci sentire non solo in grado di decidere, ma anche realizzati e, persino, cambiati in cuor nostro. Sono i consumi a cambiarci e certamente non siamo noi a cambiare loro. Insomma, dovremmo smetterla di illuderci, sognare a occhi aperti e scambiare i desideri per bisogni. Questo crea solo malessere del benessere.
Come nel sogno, in questo libro c’è una porta stretta, attraverso cui dovrebbero transitare, in ordine, il nostro ceto politico, le nostre classi dirigenti, le nostre borghesie: in breve, quanti guidano il paese e dovrebbero essere di esempio. Varcare la porta stretta significherebbe migliorare innanzitutto il sistema politico-istituzionale, la democrazia del nostro paese. Ma, proprio davanti all’uscio, il sogno si perde nella distrazione egoistica di quelli che, per primi, dovrebbero aprire la porta e varcarla e invece si attardano, incoraggiati dall’ignavia di massa. Una società cinica come la sua élite: stessa faccia, stessa razza.
Bisogna perciò aprire gli occhi e non farsi illusioni: ad esempio, sul fatto che il nostro presente non sia condizionato dai pesi storici e dai ritardi di sviluppo e di organizzazione democratica che ci trasciniamo dal dopoguerra. Le classi dirigenti della Ricostruzione, per lo più formate dalla Resistenza, riuscirono a vincere molte delle scommesse che si ponevano all’Italia semianalfabeta di allora. Ma, su alcuni fronti, non riuscirono e il bipartitismo imperfetto prima degenerò e poi fu travolto; i torbidi rapporti tra finanza e politica, da un lato, e tra mercato politico e comportamenti illegali e mafiosi, dall’altro, hanno continuato a indicare i nostri ritardi culturali e civici.
In particolare, sembrano due le illusioni da dismettere. La prima è che tutto sia possibile: è l’illusione creata dai politici e dai governi che, in difficoltà di leadership, hanno pensato bene in questi anni di assecondare e non di guidare la società, elargendo promesse e creando aspettative che sono poi andate frustrate nelle pochissime realizzazioni. In realtà, i governi nazionali nella Ue, oggi possono molto meno di quelli di venti-trenta anni fa. Tenendo conto inoltre del debito pubblico, quelle promesse politiche erano infondate come le illusioni e le aspettative che hanno suscitato. La cruda realtà è che la pochezza di quanto fatto rispetto all’atteso si è nutrita di clientele politiche, le solite, quelle dei «topi sul formaggio» – di cui scrisse Paolo Sylos Labini oltre trent’anni fa – che perpetuano una sottrazione costante di risorse da finanziamenti produttivi1. Intanto cresce la frustrazione sociale per la perdita di capacità di acquisto dei redditi familiari, per quel terzo di famiglie indebitate. Perciò a spezzare questo tipo di illusione, ci sono i danni arrecati dai «topi sul formaggio», dai gruppi privilegiati e da quelli dotati di un’influenza «particulare» capace di condizionare l’interesse collettivo.
La seconda illusione da fugare è che la nostra sarebbe la migliore delle società: bisogna invece meditare sulle sue reali condizioni, sul suo grado di autonomia, sul suo sviluppo professionale valoriale, civile. Questo è uno dei punti che si propone di approfondire il presente libro, soprattutto nel cap. 2.
In realtà, c’è un’Italia in cui alberga l’individualismo amorale, secondo il quale lo spazio pubblico è visto in funzione di un riconoscimento o di un vantaggio individuale: è l’Italia in cerca di scorciatoie, che rifà il verso ai «furbetti del quartierino», che cerca di emergere a qualsiasi costo e possibilmente in un sol colpo. L’Italia che si copre nelle protezioni clientelari e quella che narcotizza le sue aspettative nei comodi automatismi garantiti o tenta di fuggire la mediocrità nei consumi rateizzati. L’Italia che non rispetta le regole, approfittando delle lungaggini bizantine della nostra giustizia e l’Italia degli ultras, dell’evasione fiscale diffusa. Pezzi d’Italia deserti di merito, presi nei vortici dei valori delle tv commerciali. E poi, purtroppo, c’è anche l’Italia del grande degrado che con cementificazioni abusive sfigura per sempre la natura che la ospita, l’Italia che vede crescere la violenza contro le donne e la famiglia, l’Italia che alimenta organizzazioni criminose e mafiose anti-Stato. È quindi inevitabile aprire gli occhi criticamente sul lato indolente, cinico e persino torbido e illegale del nostro tessuto sociale, mettendo a nudo i suoi aspetti avariati esattamente come è accaduto nel recente dibattito sulle nostre élites e, in particolare, sulla classe politica, criticata come una casta.
Inevitabile l’amara condivisione dei vizi e delle carenze delle nostre élites con quelli della nostra società, appunto «complice». Autoreferenziali le prime, corporativa, localistica ed essenzialmente individualistica la seconda, entrambe provinciali, invecchiate, maschiliste, centronordiste e d’accordo con merito e mobilità solo a parole. Le bocciature dei figli fanno ancora esclamare i genitori che «non se lo meritava», alludendo (in che senso non si sa) alla fitta coltre di protezioni e di tutele che attualmente regolano l’avanzamento «automatico» negli studi. Una volta erano le bocciature che decimavano gli alunni nei licei, ma alla lunga sono le bocciature ad apparire oggi decimate e in via di scomparsa. È dunque un’ulteriore illusione che a una classe dirigente deficitaria corrisponda un virtuoso tessuto civico.
La scomparsa di queste illusioni rimetterebbe in campo l’idea che in un paese che si porta dietro da tempo arretratezze, inerzie e ritardi, il cambiamento è tutt’altro che facile.
Tuttavia, c’è anche un’Italia che preme per il cambiamento: da un canto, un ampio settore di élite economica, borghesia intellettuale, leader del mondo dell’opinione e, dall’altro, una vasta area di cittadini attivi, competenti e acculturati, che hanno a cuore una politica migliore. Le élites politico-istituzionali sono oggi pressate da queste due forze che chiedono l’autoriforma del sistema politico. Chiedono di aprire e varcare la porta stretta.
Dal declino e dalla frammentazione della società di massa di ceto medio, nel nostro scenario, emerge non solo una società cinica, pigra per aspettative sociali, immersa spesso nell’individualismo amorale delle trappole unidimensionali dell’iperconsumismo. Già il primo capitolo del libro evidenzia l’importanza assunta nel nostro paese anche dalla cittadinanza competente, che ha un grado di istruzione superiore e si informa utilizzando una tastiera assortita che va dai tg ai quotidiani, da internet alla lettura di libri. È attualmente poco più di un terzo della popolazione e può fungere in questa fase sia da incubatore di una società competente e plurale, locale e multiculturale, sia da baricentro sociale per un progetto riformista del sistema Italia. E poiché esiste tra società e classi dirigenti una reciproca somiglianza che li accomuna nel male, ma anche nel bene, va anche evidenziato che ci sono spezzoni di classi dirigenti (nazionali e locali) che fungono da motore dell’Italia che va: dai nostri medi imprenditori a personalità ed eccellenze nel campo della cultura e della ricerca. Questa Italia è pronta non a sostituire l’economia con la politica, ma ad accompagnare un processo riformista, per varcare la porta stretta della riforma del sistema politico e istituzionale e della pubblica amministrazione. Ma non è ora maggioranza.
La porta stretta che si apre alle aspettative e alle speranze delle forze in campo ha molti significati. In primo luogo, essa è un insieme di riforme possibili che riguarda il sistema politico e istituzionale, che è la vera posta in gioco nel medio periodo sullo scenario italiano. Insidiosa come tutte le strettoie, tale porta consentirebbe però di accedere a un rinnovamento della classe dirigente, come utile condizione per l’apertura di una stagione riformista: verso la terra più volte promessa della riduzione della frammentazione istituzionale, imparentata con gli interessi corporativi e localistici, verso la restituzione di trasparenza, efficacia, eticità e legalità della dimensione pubblica. Al contrario, nella Seconda Repubblica, con la scusa del federalismo, si è costruita una rete di poteri centrali e decentrati ipertrofica, fino a impiegare oltre 200.000 tra cariche elettive e poltrone di nomina. Una rete di «uomini d’oro», una platea di professionisti ben pagati e privilegiati: più che una élite politica ristretta, un vero e proprio ceto sociale autoreferente, cresciuto in questi anni in quantità e costi. Per giunta, l’accesso a questo ceto è condizionato da fedeltà e appartenenza, piuttosto che da competenze e biografie professionali esemplari: insomma, più che usare l’ingresso principale, si è fatto ricorso a «innesti laterali», a cooptazioni senza merito.
È quanto è accaduto con le elezioni politiche del 2006, quando grazie al controllo sia sui candidati, consentito dalle liste bloccate, che sugli eletti, mediante lecandidature multiple, le segreterie o meglio i pochi leader nazionali dei partiti hanno potuto nominare i parlamentari, reclutandoli tra i fedeli di basso calibro. Gli errori eventuali sono stati corretti con il replacement, per esempio attribuendo agli esclusi sottosegretariati e cariche in enti amministrativi2. Nella Seconda Repubblica, la deriva partitocratica è consistita nell’infeudamento dei partiti nelle istituzioni, dove è stato ripristinato il mercato politico, mentre è cresciuto il vuoto che separa oggi politica e cittadini.
Tuttavia, questa estensione della professionalizzazione politico-istituzionale, per la legge del contrappasso, ha indebolito la classe politica, spalmata com’è in ogni rivolo del territorio, in ogni ambito dell’economia e della cultura, in ogni scenario dell’arte, dello sport e dello spettacolo. Ha tolto credibilità all’autorità. Infatti, il panpoliticismo della Seconda Repubblica si è sottomesso agli interessi corporativi e territoriali, ai loro potenti gruppi di interesse, di fatto trasversali, nell’illusione che ciò avrebbe favorito il passaggio da una società classista a una pluralista. Il risultato è che il panpoliticismo è decisamente «in rotta» e registra una perdita di fiducia in ogni settore della società.
Il ridimensionamento del panpoliticismo diventa perciò il primo principio riformista per aprire una nuova stagione politica che consenta di restituire autorevolezza all’autorità, recuperare potere legittimo, diffondere fiducia. Ma questo ridimensionamento è molto duro da accettare da parte delle élites politiche locali e nazionali, perché esse sanno che ciò comporterebbe, con ogni probabilità, una riduzione drastica non solo dei loro privilegi ma, soprattutto, della stessa quantità del personale politico. E pertanto indugiano: piuttosto che il buongoverno, l’interesse pubblico e i beni comuni, continuano a curare i propri interessi e quelli cortigiani. In sintesi, durare a ogni costo, anche a prezzo di un indecisionismo che indebolisce il potere dell’autorità.
Dopo una stagione di promesse elettorali troppo generose, sarebbe opportuno decidersi a circoscrivere le aspettative sociali a ciò che le élites politiche nazionali possono concretamente fare nel nuovo mondo globalizzato del XXI secolo. Il secondo principio riformista dovrebbe consistere infatti nel dimensionamento del raggio di azione dello Stato. L’obiettivo fondamentale: minori costi e più efficacia dell’intermediazione burocratica. Non sarebbe una diminutio per lo Stato, che ha di fronte a sé molti compiti, come favorire civismo e solidarismo, garantire sicurezza e libertà individuale, tutelare la proprietà privata, vigilare su un modello di sviluppo socialmente sostenibile, assicurare correttezza del mercato e della finanza, rendere efficienti ed efficaci i servizi pubblici, prendersi cura del capitale umano e sociale del paese.
È falsa la teoria che nel braccio di ferro tra Stato e mercato debba oggi prevalere necessariamente il liberismo: l’alternativa a questa prospettiva, però, presuppone un ripensamento degli equilibri istituzionali, ora che l’economia tende a fuoriuscire dalla logica degli Stati nazionali, a occupare il quadro internazionale con finanza, merci e lavoro, a colonizzare a fondo, con il consumismo, la società fino a renderla «accessoria» al mercato. In questo quadro mutato, trovare un nuovo assetto tra Stato e mercato equivale a ripensare il capitalismo sociale e a progettare un consolidamento della democrazia. Inutile ribadire che il mercato necessita di regolazione: bisogna dire come farlo concretamente e, soprattutto, occorre liberarlo con provvedimenti che sleghino e accrescano il peso della concorrenza e dei meccanismi selettivi di merito. Questo ripensamento è anch’esso una strettoia culturale che è indispensabile superare per un paese europeo come l’Italia. Purtroppo, la consapevolezza della necessità di ridefinire il capitalismo sociale non si sposa con una cultura politica povera di idee e d’immaginazione.
Così, la classe politica, più che da un vero ripensamento, è sospinta verso la porta stretta dall’opinione pubblica, dai rimbrotti dei leader dell’economia e, infine, da una parte cospicua della cittadinanza, quella competente, che maggiormente si attende una svolta dalla politica e dalle istituzioni. I compiti della classe politica, sul fronte sociale, sono enormi, tenendo anche conto che il nostro destino è la società della conoscenza e dei servizi, del brain power piuttosto che del labour power. Nel nostro futuro non c’è l’uomo che rincorre affannosamente le macchine, ma c’è un nuovo sapere, più metodologico che specialistico, mediante il quale si determina il buon funzionamento delle macchine e anche la creazione di nuove: un lavoro cognitivo che richiede una fatica diversa da quella manuale e specialistica. Oggi abbiamo una società di massa in decomposizione, in grave ritardo, da traghettare verso il pluralismo e verso il miglioramento della capacità degli individui di trasformare le proprie abilità in risorse. Il consumismo, che caratterizza la società contemporanea, è come un medium che trasforma il percepito in realtà. Spesso acquistiamo un prodotto perché si lega a un’immagine pubblicitaria, che speriamo di poter adottare nella nostra realtà, grazie al nuovo acquisto. La trappola «lavora-spendi», o semplicemente «guadagna-spendi», è di marca individualista e, alla lunga, corrode la cultura sociale e il senso di comunità. Migliorare significa molte cose: capitale umano, istruzione, capitale sociale, competenze, una cultura e un’informazione che favoriscano le capacità decisionali dell’individuo. Insomma, è utile a prefigurare anche l’uomo nuovo del XXI secolo.
Il miglioramento è legato al merito, a questo illustre sconosciuto in casa nostra3. Su questo valore (riconosciuto nella sua importanza solo dal 3,6% della popolazione) va aperto un dibattito perché, se il merito è uno snodo essenziale, va tuttavia preservato, come sosteneva Pareto, dalla «persistenza degli aggregati tradizionali» che tendono a impedire la circolazione delle élites e la mobilità sociale, reclutando tra i ceti ristretti personaggi «di basso calibro». Così, quando non c’è circolazione, la meritocrazia educativa degenera, come mostrato dai lavori di Brezis e Crouzet4, in una sorta di tirannia della laurea iniziale che non fa che riprodurre caste chiuse nell’appartenenza; in altri casi è la meritocrazia professionale ad essere strumentalizzata a fini autoreferenziali e discriminatori, scivolando nella selezione avversa al merito. Il risultato è sempre lo stesso: circolazione delle élites e mobilità sociale divengono asfittiche. Per evitare le degenerazioni occorrono regole chiare, incentivi adeguati a g