«La panchina è un luogo di sosta, un’utopia realizzata. È vacanza a portata di mano. Sulle panchine si contempla lo spettacolo del mondo, si guarda senza essere visti e ci si dà il tempo di perdere il tempo, come leggere un romanzo.»
«La letteratura è piena di panchine perché parla della vita della gente – e la gente, sopra ogni cosa, aspetta, e aspettando gira a zonzo e si siede dove capita. Poi parla di panchine perché quelli che scrivono, oltre ad aspettare e guardare anche più degli altri, hanno spesso una vita di frontiera, senza appartenenza.» Le panchine, simboli della soglia, sottili frontiere tra dentro e fuori, «oggi in via di estinzione, come se la loro gratuità (la loro grazia), nel nuovo orizzonte del welfare fosse assolutamente da bandire». E un autore che, seduto sul ciglio del mondo, si allena a lasciare libera la mente di vagare, divagare. Passeggiare da fermo.
Beppe Sebaste ha esordito poco più che ventenne nella narrativa con L’ultimo buco nell’acqua(scritto con Giorgio Messori, Aelia Laelia 1983). È autore di libri di racconti, romanzi e saggi, tra cui ricordiamo Porte senza porta. Incontri con maestri contemporanei (Feltrinelli 1997), Tolbiac (Baldini Castoldi Dalai 2002), H.P. L’ultimo autista di Lady Diana (Einaudi 2007), Il libro dei maestri. Porte senza porta rewind (Luca Sossella editore 2010) e Fallire. Storia con fantasmi (produzione indipendente, 2015).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
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Sono a Ginevra, una delle città più ricche del pianeta. So, come lo sa la maggior
parte della gente, che passeggiando per le strade di questa città si calpestano montagne
di lingotti d’oro, stipati sotto il suolo dalle banche. Non che cambi molto nella
nostra attività di passanti. Sto camminando con mio figlio Pierre, adolescente, che
ora abita qui con la mamma, e frequenta la scuola francese. Dopo molte peregrinazioni
nella città vecchia – nel grande spazio vuoto di Plainpalais in mezzo alla città,
dove il sabato c’è il mercato delle pulci e a volte montano il tendone del circo;
lungo il lago, lungo il Rodano, lungo l’Arve, che mescola le sue acque con quelle
del Rodano, e affascinava lo scrittore Jorge Luis Borges –, dopo tutto quel girovagare,
adesso, prima di cena, Pierre vuole mostrarmi un suo luogo intimo, dice, un suo posto
segreto.
È una sera del suo primo autunno in questa città, dove io pure ho vissuto qualche
anno dopo la laurea, facendo ricerche all’università. Confrontiamo i suoi riferimenti
con i miei ricordi, le nostre rispettive mappe interiori. Il suo bar, il mio bar.
Abbiamo visitato il Mamco (Musée d’Art Moderne et Contemporain), gli ho fatto vedere
i lavori magnifici e misteriosi di Claudio Parmiggiani – le ‘delocazioni’ ottenute
inondando di fumo uno spazio chiuso, e facendo emergere nel grigio uniforme le tracce
bianche lasciate dalla sparizione delle cose, le tracce dell’assenza. Abbiamo visto
una mostra di John Armleder, per lo più installazioni d’oggetti. L’arte pop e contemporanea
di solito piace ai ragazzi. È d’altronde su uno dei cartoncini della mostra che ho
scritto questi appunti.
Siamo ora nelle rues basses, le vie commerciali del centro, non lontane dal lago, dove le banche e i palazzi
di uffici lasciano posto a negozi di moda, boutiques, supermercati di lusso, grandi
magazzini, cioccolaterie eleganti. Altre installazioni d’oggetti, altre esposizioni.
Da tempo assistiamo a una museificazione del mondo, difficile trovare un luogo che
faccia eccezione. C’è molta gente per strada, e mi chiedo quale sia il posto segreto
di mio figlio in tanta calca.
Finché, nell’affollata rue du Marché, riservata ai pedoni e alle rotaie, sgusciando
tra la gente indaffarata a comprare e quella che aspetta il tram, Pierre mi indica
alcune panchine di legno chiaro, e ci sediamo su una di esse. Davanti alle fermate
dei tram, nel crocevia dello shopping, questa sua confidenza mi sembra pura poesia
– ciò che per un ragazzo è sempre uno strano mistero. Sedersi lì sulla panchina significa
non farsi trascinare dalla corrente, non fare la coda a una cassa, non provarsi abiti,
non indicare le vetrine. Non salire nemmeno sul tram quando arriva e si ferma lì davanti,
non essere una di quelle persone che ci circondano in piedi e che ordinatamente, ritmicamente,
scompaiono salendo sul tram, come il risucchio delle onde del mare che si infrangono
a riva e poi si ritirano. Sedersi su quella panchina significa diventare di colpo
invisibili. Perdere tempo, cioè guadagnarlo.
Paralleli alla rue du Rhône, siamo nell’occhio del ciclone della strada di maggiore
passaggio della città. I tram che scorrono nei due sensi conducono alla stazione,
allo stadio, a Carouge, oppure in Francia, passando per Chêne-Bougeries e altri quartieri
residenziali. Nelle ore d’uscita dal lavoro sono carichi quindi di frontaliers, pendolari della dogana. Di fronte alla nostra panchina c’è il Globus, un grande
negozio di alimentari che comprende anche vari ristoranti, tra cui uno cinese, uno
salutista e una pasticceria. Alle nostre spalle c’è il Bon Génie, emporio anch’esso
con ristorante, e la cioccolateria Merkur. Negozi di abiti, di scarpe, gioiellerie.
Grande flusso di persone sperse nel vortice dei regali di Natale. Al rumore metallico
del tram, lieve e discreto rispetto allo sferragliare di milanese e neorealistica
memoria, si aggiunge ogni tanto il campanellino da vacca svizzera azionato dal conducente
per scansare un pedone.
«Mi piace sedermi qui», dice mio figlio mentre rinviamo ogni volta il tram con cui
dobbiamo rientrare nella sua nuova casa. Quella panchina è il suo luogo segreto, nascosto
dalla sua evidenza. Guardiamo il mondo e gli umani affaccendati come un paesaggio.
E provo con lui una beatitudine complice e silenziosa. Mentalmente modifico il giudizio
perplesso, a volte negativo, di tanti suoi insegnanti con cui ho parlato il giorno
prima: troppo disinvolto, noncurante; quando entra in classe commenta ad alta voce
la luce della giornata. Come un personaggio di Robert Walser, poetico e disadattato.
E, visto che parliamo anche di questo, penso che quella panchina gli insegna, tra
gli altri, il valore della lentezza come raramente si impara dalla scuola. Eppure
la cultura – la letteratura soprattutto – in fondo non è altro che questo: fermarsi,
lasciare scorrere il mondo, guardarlo, guardare anche un po’ se stessi.
Una piega del mondo
Due anni dopo sono a Linosa, un’isola giù in fondo al Mediterraneo, più a sud di Tunisi
ma frazione del comune di Lampedusa, provincia di Agrigento. È estate, c’è il mare
più intenso che abbia mai visto, un’acqua limpida ricchissima di pesci colorati, scogliere
e baie magnifiche, case color pastello incorniciate di colori, tre vulcani, terra
rossa, fichi d’india, capperi. Per tranquillizzarmi, prima di partire avevo cercato
delle immagini di Linosa in Internet – avevo paura di sentirmi perso e annoiato, oppure
come in uno di quei disegnini delle isolette dei naufraghi, sotto l’unica palma e
i pescecani intorno. Tra le bellissime vedute delle coste mi ero imbattuto nella foto
della farmacia del paese, con davanti due palme e un albero di ficus. Quello che non
sapevo era che all’ombra di quegli alberi ci fossero due panchine, una a listelli
tradizionali di legno e un’altra colorata. In breve, quel punto dell’isola è divenuta
la postazione in cui l’estate scorsa a Linosa ho passato molti momenti di ozio e contemplazione.
Anni di abitudine mi guidavano: su quelle panchine (avevo scelto per me quella colorata)
non facevo assolutamente niente. Raramente leggevo il giornale, che del resto arrivava
molto tardi, mentre alla lettura di libri erano già deputati il bar sull’unica spiaggetta
o quello sul porticciolo. Fu comunque un’attrazione a prima vista. Erano quasi sempre
libere e all’ombra, su un piano rialzato rispetto alla strada, come un podio. All’inizio
il richiamo di quella panchina aveva l’alibi di un’attesa: mi sedevo ad aspettare
che aprisse il negozio di alimentari, oppure la tabaccheria, o che arrivasse il giornale
con la nave delle 16.30, o che si smaltisse la fila all’ufficio postale, cose così.
Spesso era un luogo di sosta in cui divoravo quasi metà del pane che dovevo portare
a casa – sfilatini ancora caldi e teneri, ricoperti di semi di sesamo. Lo masticavo
poco alla volta in contemplazione di qualsiasi cosa, dell’aperto, del puro vedere
davanti a me. Il cielo era sempre azzurro e terso, i muri delle case colorati. Guardavo
anche la colonia di gatti magrissimi, accuditi dalla farmacista, che avevano la loro
casa ai piedi del ficus. I più piccoli sfruttavano come cuccia le conche naturali
del tronco, prodotte dal complicato intrico di fusti avvinghiati tra loro. Ogni tanto
uno di loro si arrampicava sulla panchina ad annusarmi o farsi accarezzare. A fianco
della farmacia c’era un’altra porta, quella della Guardia medica. Quando non c’erano
pazienti, ogni tanto un medico usciva a fumare una sigaretta in silenzio sull’altra
panchina.
Il marciapiede sopraelevato in cui si trovavano le panchine era all’incrocio delle
due strade principali, o meglio, le uniche strade: quella che attraversava l’isola
e il paese nell’interno e quella costiera. L’incrocio era una specie di piazza, e
non a caso lì vicino c’erano la chiesa, la posta, il comune, una vineria e un bar
che apriva la notte. Senza volerlo né saperlo, le panchine erano il centro ortogonale
dell’isola. Quella a listelli colorati era semplicemente bella, e la sua attrazione
all’inizio era puramente poetica. Era bello sedersi lì, guardare le case e il cielo,
gli arabeschi del tronco del ficus, le palme, i muri dipinti di giallo, di verde,
di rosso, di blu, di arancione, il rado traffico ravvicinato di motorini, le rare
automobili che passavano, e dopo qualche giorno mi accorgevo di conoscere un po’ tutti
di vista, a partire dal prete e dal segretario comunale. Sull’altro lato della piazza
c’era un muretto dove si sedevano alcuni uomini anziani col cappello, i volti segnati
dal sole e dall’aria. Anche loro non facevano nulla, non parlavano quasi mai, stavano
semplicemente seduti, e tutt’uno col paesaggio. La loro immobilità non aveva niente
di passivo né di rassegnato, e anche quando uno dei vecchi chiudeva gli occhi e verosimilmente
sonnecchiava, non perdeva in nessun modo il dono della presenza, né la dignità della
sua postura.
C’era caldo, si sentiva tutta l’estate del Mediterraneo. Ma anch’io sulla mia panchina
mi sentivo vivo e presente. È il potere delle migliori panchine, quando sono ben situate.
Una buona panchina fa sentire al riparo chi vi siede, e fa apparire il suo ozio come
un’attività non soltanto legittima, ma di qualità superiore, da intenditore – un po’
come quando al ristorante uno ordina un piatto molto semplice e il cuoco gli fa capire
di considerarlo un buongustaio (a me capitava in un certo posto a Parma col radicchio
verde e l’uovo sodo). Una panchina perfetta è come una piega del mondo, non un luogo nascosto ma una zona franca, liberata o salvata, dove semplicemente
sedersi è già in sé una meditazione.
Quella di Linosa, di fronte alla farmacia e alla Guardia medica, sotto gli unici alberi
del paese, era una panchina perfetta.
Verdi, a onda
Lo si sarà capito, ma lo dico lo stesso: io sono uno di quelli che si siedono sulle
panchine.
Non solo nei belvedere o sui poggi panoramici, di fronte a un lago o sul lungomare,
ma anche nei parchi, nei giardinetti, nelle piazze, nei viali, negli interstizi tra
le case, negli angoli, in centro, in periferia, alle fermate dell’autobus senza salire
sull’autobus, e anche sotto casa. Ovunque. Potreste avermi visto, magari di sottecchi.
O più probabilmente avete evitato di guardarmi: perché nelle nostre città, da qualche
tempo, chi si siede su una panchina non è più soltanto anonimo, diventa invisibile.
Lo scrittore Luciano Bianciardi raccontò che nella Milano dei primi anni Sessanta,
quella del boom economico, fu arrestato per strada perché camminava troppo lentamente,
perché «strascicava i piedi». Ben prima che fosse detta «da bere», a Milano Bianciardi
vedeva «la gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare», e che
per di più «si sentono privilegiati».
Oggi stare in panchina è un’anomalia sociale più grave se chi si siede si sottrae
non solo alle regole non scritte della produttività e dell’efficienza, ma anche allo
sguardo degli altri. Se non si è anziani, donne incinte o con carrozzina, se si è
maschi o femmine adulti, chi sta seduto su una panchina è poco raccomandabile. Nel
migliore dei casi è un disoccupato, uno sfaccendato, vita di riserva da ignorare.
Per molti, che a stare seduti su una panchina provano imbarazzo, è l’immagine della
provvisorietà, della precarietà, forse del declino. Stare in panchina, nel lessico
attuale, è il contrario dello scendere in campo. Ma la panchina è l’ultimo simbolo
di qualcosa che non si compra, di un modo gratuito di trascorrere il tempo e di mostrarsi
in pubblico, di abitare la città e lo spazio. La panchina è un luogo di sosta, un’utopia
realizzata. È il margine sopraelevato della realtà, vacanza a portata di mano. È anche
il posto ideale per osservare quello che accade. Non è necessario che sia sullo Stelvio
o sulla Promenade des Anglais – anche se è bello vedere di schiena qualcuno seduto
sulla panchina con lo sfondo delle montagne o del mare. O dei grattacieli di New York.
È sufficiente la bellezza del sedersi su una panchina in città e guardare una strada
o una piazza. Guardare la gente che si muove, che vive. Guardare l’autobus che passa,
guardare i piccioni, guardare le nuvole sopra la testa. Lo scrittore francese Georges
Perec lo ha fatto per interi pomeriggi, seduto a Parigi in place Saint-Sulpice, negli
anni Settanta. Le pagine che riportano le sue osservazioni (Tentativo di esaurire un luogo parigino) sono una lezione di scrittura e di felicità mentale. Un lavoro di accettazione di
sé e del mondo, di semplificazione dello sguardo: «sforzarsi di guardare più piattamente».
Insegnano fra l’altro che, ovunque si trovi, la panchina è per chi si siede il centro
dell’universo.
Sulle panchine si contempla dunque lo spettacolo del mondo, si guarda senza essere
visti e ci si dà il tempo di perdere il tempo, come leggere un romanzo. Ecco alcuni
dei non piccoli piaceri del sedersi su una panchina.
Infine, è molto semplice: le panchine sono i posti in cui si siede la gente, proprio
come le periferie – su cui si sono stratificate tante chiacchiere di esperti – non
sono altro che i luoghi in cui abita la gente.
Le mie preferite sono quelle verdi a onda di una volta, di legno, in via di estinzione.
Ma tutte le panchine sembrano oggi in via di estinzione. Come se la loro gratuità
(la loro grazia) nel nuovo orizzonte del welfare fosse assolutamente da bandire.
«Bandire»: la stessa parola da cui viene banlieue, luogo bandito. Vorrei davvero che non accadesse. Che ci si possa sedere ancora a
lungo e forse sempre in qualsiasi luogo ci piaccia, liberamente. È bello sedersi dove
capita. È bello sedersi. «Contentezza: sedere con un bambino su uno scalino al sole,
di fronte alla fermata dell’autobus», scriveva Peter Handke in un libro di frammenti.
Le panchine, mi ha detto qualche tempo fa l’artista Enzo Cucchi, «sono necessarie»,
semplicemente necessarie. Una volta, ad Ancona, dove la municipalità lo aveva invitato
per acquistare delle sue opere, Cucchi notò che non c’erano abbastanza panchine su
cui sedersi all’aperto. Realizzò dei prototipi di panchine e li diede alla città,
chiedendo di convertire e devolvere il suo compenso nella realizzazione effettiva
di panchine pubbliche.
Che le panchine siano necessarie lo mostrano i tanti scrittori che hanno raccontato
le panchine, da Victor Hugo a Samuel Beckett, da Henry James a Michail Bulgakov, da
Robert L. Stevenson (che fa accadere su una panchina la trasformazione del dottor
Jekyll in mister Hyde) a Thomas Mann in Cane e padrone. E tanti altri. Di recente in una libreria francese mi sono imbattuto nell’unico
romanzo di Fred Vargas che non avevo letto, Un peu plus loin sur la droite: una storia poliziesca in cui l’eroe ha la sua sede nella panchina n. 102 (a place
de la Contrescarpe) e può contare sulla complicità della variopinta popolazione delle
panchine come di una rete efficacissima di spie e di detective.
Si chiude su una panchina l’amore che Dostoevskij racconta in Le notti bianche; si apre su una panchina Bouvard et Pécuchet, precisamente la stessa panchina in cui simultaneamente si siedono in boulevard Bourdon
gli eroi epistemologici del meraviglioso e incompiuto romanzo di Gustave Flaubert,
monumento epico all’inutilità del sapere e della cultura, dove fallimento e riuscita
diventano la stessa cosa. Ho sempre pensato che gli eroi ridicoli e commoventi di
Flaubert siano gli antesignani di Stanlio e Ollio. E innumerevoli sono le panchine
che scandiscono le surreali avventure dei due celebri emarginati e vagabondi. La panchina
per Stan Laurel e Oliver Hardy è il luogo a volte magico di una deriva tragicomica,
e i loro continui, esilaranti fallimenti dicono la poesia di un nomadismo che resiste,
anarchico e irriducibile, all’imperativo dell’ordine e del successo.
Anche nel cinema le panchine resistono al disprezzo sociale in storie che costituiscono
una resistenza culturale all’omologazione, sia sociale che psicologica. Per non citarne
che alcuni, penso a quella di La venticinquesima ora di Spike Lee, dove Edward Norton medita su una panchina il suo ultimo giorno di libertà
prima del carcere, o a quella di Forrest Gump, eroe e quasi santo in rotta coi valori dominanti, che racconta la sua storia seduto
su una panchina mentre aspetta l’autobus. Se qualcuno ha suggerito che anche il luogo
della serie tv Friends – un bar di Manhattan che si alterna a un appartamento – è quasi una metafora delle
panchine pubbliche, è proprio una panchina il sito di celluloide divenuto icona del
paesaggio newyorchese, tra sogno e realtà. Parlo ovviamente della panchina di Sutton
Place che Woody Allen ha immortalato in Manhattan, dove lo si vede in smoking seduto di schiena ad aspettare l’alba con Diane Keaton
sotto Queensborough Bridge, ammirando come il viandante del romantico Friedrich non
le Alpi ghiacciate, ma lo skyline di New York. Segnalo anche la disperazione urbana
di un alcolista descritta di recente in The bench, dal regista danese Per Fly, e la versione cinematografica di Claude Chabrol di La panchina della desolazione di Henry James.
Già prima che cominciassero a sparire avevo iniziato il catalogo delle panchine che
ho amato: quelle del Parco Ducale di Parma, dove guardando gli alberi e la gente scrissi
le mie prime poesie, quelle di Bologna vicino all’università, isole nelle tempeste.
Quelle di tutti i centri storici vicino alle immancabili fontane, quando era normale
incontrarsi nei centri storici e stare sulle panchine, e c’era un senso di colorata
appartenenza. Le panchine incontrate per caso a Milano in un ricco quartiere dietro
via Solferino, dove imparai il valore del riposo guardando il pranzo di immigrati
nordafricani a base di pane e sardine, ma anche il valore d’uso di un luogo imbalsamato
dalle algide e lussuose residenze. Le panchine di Lerici e del Golfo dei Poeti, il
lungomare della mia infanzia. Le panchine di Ravello – un luogo già interamente votato
al lusso dell’ozio e della contemplazione. Le innumerevoli panchine in cui ho soggiornato
nei parchi di Parigi, nei suoi squares, sui suoi marciapiedi. Quelle sul Gianicolo o a Villa Borghese a Roma, a Villa Sciarra,
Villa Pamphili, quella sulla sommità della Scala del Tamburino, su via Dandolo, oggi
scomparsa. Quelle di piazza Dante, dietro piazza Vittorio. Quelle, sempre a Roma,
del cimitero dei poeti al Testaccio, dove sull’erba, di fianco alla tomba di John
Keats, si contempla la Piramide e il traffico irreale di auto. Ma anche in via della
Magliana, semiperiferia romana non priva di dolcezza, dove si siedono anziani e immigrati,
a Villa Torlonia, dove mi addormentavo al mattino dopo notti intense, come possono
essere quelle di un poeta ventenne di provincia, per di più innamorato. Il mio elenco rischia di assomigliare,
ben oltre le mie intenzioni, a una specie di autobiografia: una vita in panchina.
Blow up
È curioso che abbia cominciato da Ginevra, però si spiega. Ginevra è stata il mio
estero, la mia miniaturizzazione dell’America e dell’Occidente. Prolungamento e futuro
(profezia) dell’Italia che conoscevo. Ero incantato dai distributori automatici che
vendevano di tutto a tutte le ore (a volte andavo nei sotterranei della stazione solo
per quello), dai negozi aperti la notte e la domenica. Ero incantato dai riflessi
al neon che decoravano le acque del lago di mille colori, e dal contrasto tra quella
bellezza e l’aggressività della fonte che la irradiava, cioè i nomi di tutte le banche
del mondo in tutte le lingue del mondo (leggerli mi dava le vertigini). Ero incantato
dalla mescolanza incredibile di etnie e di lingue, dal cosmopolitismo così denso che,
quando ero seduto al bar con un paio di amici, potevo essere certo che al nostro tavolo
si contassero almeno cinque passaporti di diverse nazionalità (io ne ho uno solo).
Ai miei occhi era una città di allegri avventurieri, tipo Corto Maltese o Maqroll
il Gabbiere, marinai che non si vedono mai su una barca. Una città infine che dava
un agio intossicante, come il lampione acceso per le falene in una notte d’estate.
Io ero la falena, naturalmente, e rimasi appiccicato a quella città, pur senza bruciarmi,
per alcuni anni indimenticabili e inconcludenti. Una volta disincantato, pagai il
mio debito sentimentale ritraducendo le Rêveries del ginevrino Jean-Jacques Rousseau. Con altri scrittori e fotografi feci una descrizione
del lago Lemano. La mia appartenenza a quella città-Stato era ormai quasi perfetta.
Infatti me ne andai per ricominciare da capo da qualche altra parte.
Quando parlo di agio intossicante intendo anche una forma sottile di censura: quella
di ottenere tutto, di ricevere dal potere pubblico o privato (che nella lungimirante
Svizzera già coincidevano) l’oggetto di qualunque rivendicazione, qualunque desiderio
pubblicamente espresso. Non si dava il tempo di organizzare politicamente una domanda
di felicità che subito veniva esaudita, quindi neutralizzata. Quando arrivai a Ginevra
la prima volta, nei primi anni Ottanta, seppi che nel lago c’era una nave a disposizione
dei tossici. La città abbondava di parchi, e i parchi abbondavano di bellissime panchine.
Mi piacevano molto quelle di Parc Bertrand, in un quartiere residenziale in cui si
trovava la Cité Universitaire, dove alloggiavo il primo anno. C’era una radura che
mi ricordava il prato del parco di Blow up, e stando lì aspettavo anch’io che mi capitasse chissà quale avventura. Eppure, dopo
il primo anno, cominciai a diffidare di quella accoglienza, perfino di quelle panchine
così pulite e invitanti che mi facevano addormentare sempre più spesso. In un testo
che scrissi allora su Ginevra, Café Suisse, ritrovo queste frasi: «Appena arrivato, Beatrice mi disse che in questa città ci
si trova soli con se stessi. Quello che ho notato io è che c’è davvero molto spazio.
Dovresti vedere quanti parchi, e quante panchine libere ci sono. Anche senza parchi.
Lo dico spesso nelle lettere agli amici, le panchine sono quasi tutte belle, lisce
e libere. Adesso però continuo a camminare, e grazie al cielo non ho voglia di sedermi».
E più avanti: «Seduto su una panchina del porto, vedo la città dal punto di vista
preciso in cui si collocano i margini. Resto sulla soglia. La gente, qui, quando c’è
il sole, passeggia avanti e indietro leccando i gelati. Io guardo davanti a me e aspetto
di essere più stanco».
Ma tutto quel libro oggi mi sembra una meditazione sull’abitare e sulle panchine,
sull’osservazione della vita degli altri. Chiedersi ad esempio cosa sia abitare d’inverno
in una casa che si affaccia sul lago, in quella lunga periferia costellata di panchine
invisibili, dove l’aria e la nebbia portano a volte un profumo appena percettibile,
un alito lieve e quasi inodore, come di burro sul pane. Ricordo i cartelli stradali
che invitavano a dare la precedenza «alla cortesia», ricordo la cortesia raggelata
e stampata sui volti dei negozianti. Era l’epoca della paura della guerra – calda,
non fredda –, l’epoca dei missili a Comiso, di Ronald Reagan e dei presidenti dell’Urss
che si accavallavano e morivano dopo un raffreddore, delle grandi manifestazioni per
la pace, dello striscione magnifico delle donne: «Fuori la guerra dalla Storia». Ma
a Ginevra sembrava che la guerra non riguardasse la vita della gente, c’erano il Salève
e le Alpi intorno a proteggerla, c’erano la cortesia e le panchine. C’erano Rousseau,
Amiel, Godard, l’esplorazione del mondo interiore, i viaggi intorno alla propria camera,
l’urgenza del diario e delle confessioni.
Ogni tanto faccio ritorno a Ginevra, e devo ammettere che questa città è una festa
delle panchine. Nuovi ricordi affiorano. Le passeggiate con i professori Starobinski
o Steiner nel parco dell’università o nella città vecchia, nella mia timida inadeguatezza.
Il giardino di Michel Butor quando abitava ‘alla frontiera’. Le panchine di pietra
e legno in rue de la Corraterie, tra l’università e il Rodano. Davvero sembra che
nessuno si vergogni a stare seduto in pubblico. Però un anno fa mi ritrovai seduto
su una panchina di fronte al lago, zona centrale. La sera prima avevo lasciato mio
figlio in un taxi in quello stesso quartiere ormai svuotato dagli abitanti, solo negozi
chiusi, uffici, palazzi di vetro e acciaio. Lui aveva paura a quell’ora, perché il
centro è percorso da bande che promettono violenza. La periferia, nel suo senso più
temibile, si trova nel cuore della città – ecco un’altra cosa in cui Ginevra ha giocato
d’anticipo.
Quel giorno dunque, era pomeriggio, spinto da una fame improvvisa, avevo comprato
hamburger con patatine fritte, e lo mangiai di gusto sulla panchina, perché tutti
gli altri locali non mi piacevano per una ragione o per un’altra, e volevo stare all’aperto.
Ero vestito elegantemente, perché più tardi dovevo andare a una cena cerimoniosa in
un posto di lusso.
Per un po’ sono rimasto lì, seduto con le dita unte a guardare la gente, che rigorosamente
non mi ha degnato di uno sguardo.
Margini
Né luogo di rinuncia né luogo di eroismo, semplicemente di sosta: ma chi aspetta il
bus o esce dal metrò, le gambe stanche dopo una giornata di lavoro, troverà sempre
più raramente una panchina. Scompaiono perché sospettate di attirare i «drogati» e
i «senza casa». Quando era ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy propose di eliminare
le panchine ai piedi degli immobili, mentre il sindaco di Tolosa, la sera, faceva
copiosamente innaffiare le panchine per dissuadere i miserabili dal sistemarvisi per
la notte. Sopprimere le panchine è diventato un modo politicamente corretto di rimuovere
i poveri.
Lo scorso novembre, a Roma, mentre si procedeva allo sgombero e alle espulsioni di
rom, alcuni lavoratori rumeni, pestati da squadre di neofascisti, venivano intervistati
dai telegiornali sullo sfondo di immancabili panchine in giardinetti dimessi di periferia.
Negli stessi giorni, a Pordenone, alcuni abitanti coprivano con triangoli acuminati
di alluminio le panchine di un quartiere, per impedire non solo di sedersi, ma persino
di appoggiarvi cose e oggetti. Per impedire soprattutto i bivacchi che sarebbero avvenuti
su quelle panchine. Ho usato apposta la parola spregiativa «bivacco»; se avessi scritto
«picnic», quell’acuminato impedimento sarebbe sembrato più malevolo e grottesco, eppure
è la stessa cosa. Picnic o pranzi al sacco di turisti si vedono spesso, sulle panchine
intorno al Castello Sforzesco a Milano o a Castel Sant’Angelo a Roma. Nessuno del
resto chiamerebbe extracomunitari una coppia di grassocci statunitensi o di rosei
svizzeri, perché extracomunitari sono solo i poveri. O meglio, i poveri sono ormai
gli extracomunitari. Clandestini non sul piano geografico, ma ontologico.
Che oggi sulle panchine soggiornino gli extracomunitari (qualunque senso abbia questa
parola: anche gli anziani sono esclusi dalla comunità dei consumatori), lo confermano
le sparizioni e i divieti in alcune città del Nord-Est, ultima delle quali Padova
(sindaco Ds): panchine eliminate per scoraggiare la sosta degli indesiderabili. Nel
frattempo, già da molti anni è in atto nel nostro e in altri paesi una guerra contro
i poveri (non contro la povertà), di cui la rimozione delle panchine è solo un tassello.
A parte il fatto che sulle panchine non si siedono solo i barboni ma chiunque, non
è pazzesco che si voglia lucidamente impedire ai senza casa di sistemarsi sulle panchine,
come se li si punisse di una nefandezza? Mi viene in mente la parodia delle banche
in un vecchio film di Benigni: solo se hai già un miliardo ti prestano un milione,
come se il verduraio per darti un chilo di melanzane a credito si assicurasse che
tu ne abbia già dieci chili. (A proposito: banche e panchine vengono dalla stessa
parola, ma questo è un altro discorso.)
Forse troppo spesso abbiamo dato per scontate alcune abitudini urbanistiche, cioè
politiche. Come l’orario di chiusura di parchi e giardini. Credo risalga a Jack London
la prima descrizione del popolo dei senza casa e senza sonno, e la seguente constatazione:
«è il potere costituito a vietare che la gente senza fissa dimora dorma di notte».
In Il popolo degli abissi London descrive le migrazioni notturne dei miserabili sulle strade di Londra, a cui
è vietato riposarsi («ehi tu, fuori dai piedi»). Green Park, scriveva, «gode della
reputazione di essere il parco che spalanca per primo i cancelli». Le leggi «prescrivono
che questi senza dimora vaghino tutta la notte per le strade della città; dai portoni
e dai sottopassi vengono allontanati; dai parchi, vengono chiusi fuori. Ovviamente,
tutto ciò ha un unico fine: privarli di ogni possibilità di dormire. Ok: le autorità
hanno il potere di privarli del sonno e di qualunque altra cosa. Ma allora perché
alle cinque del mattino spalancano i cancelli dei parchi e lasciano che quegli stessi
senza casa cui finora hanno proibito di dormire vi sciamino dentro per farsi qualche
ora di sonno? Se è davvero intenzione delle autorità impedirgli di dormire, perché
glielo permettono dopo le cinque del mattino? E se al contrario non è questa la loro
intenzione, perché allora non li lasciano dormire prima delle cinque?».
Franco La Cecla (amico antropologo con cui ho condiviso case e panchine) in un suo
scritto si soffermava sul nuovo «galateo urbano»: «dormire in pubblico è considerato
una pratica non solo oscena, ma soprattutto a rischio dell’incolumità di chi dorme.
Nonostante secoli di siesta, di stravaccamenti e di riposo in pubblico. In altre culture
e in altre città, specie in quelle asiatiche, ciò sarebbe inconcepibile. Nelle città
europee e americane il ‘riposo’ diventa, se esercitato in pubblico, altrettanto osceno
di un atto sessuale».
A inaugurare in Italia la recente rappresaglia sociale contro il popolo delle panchine
fu l’ex sindaco leghista di Treviso, Gentilini, che fece ripulire una piazza da ogni
tipo di sedile in funzione anti-immigrati. L’opposizione di sinistra si defilò dalle
proteste, non volendo rischiare di cavalcare una rivolta ‘pauperistica’. Ma un gruppo
di dissidenti è riuscito tempo dopo a rimettere le panchine al loro posto, con tanto
di saldatrice e fiamma ossidrica.
Per impedire ai barboni di sedersi a Natale, le panchine furono segate, letteralmente,
anche a Trieste, dove però si registrò una protesta tanto inattesa quanto significativa;
La città in piazza con i clochard, titolava un articolo di Paolo Rumiz il 9 dicembre 2006: «Stavolta qualcosa s’è rotto.
Dopo il primo blitz dei vigili armati di sega, un mese fa, in piazza Venezia, una
delle più antiche del centro, è cambiata l’aria. Sul giornale locale sono piovute
lettere indignate, piene di parole come ‘rabbia’ e ‘vergogna’. Sono nati movimenti,
il tam-tam è cresciuto, anche tra gli anziani della città, utenti consolidati delle
panche cittadine. Un’associazione giovanile ha acquistato un sedile nuovo e l’ha cementato
sul luogo del ‘delitto’, subendo per ritorsione una denuncia e persino lo sfratto
da parte del sindaco. E quando il Comune di centrodestra, senza fare una piega, ha
compiuto un secondo blitz in un giardino di periferia, il confronto è diventato guerra
aperta».
«Come può venire in mente di segare delle panchine?», sbottò lo scrittore triestino
Claudio Magris. «Le panchine sono quelle cose dove quasi tutti, grazie a dio, abbiamo
passato momenti felici, e non certo in compagnia di assessori o scrittori.» L’attore
veneto Marco Paolini esortò i triestini a mettersi sulla schiena un bel numero 13,
come i giocatori di calcio d’una volta quando dovevano restare fuori campo come riserve,
e aggiunse: «Intorno a noi è pieno di gente pronta a toglierci di sotto il culo la
tua panchina gratuita e a offrirci mille alternative a pagamento. Non credo che sia
per caso che segano le panchine nelle piazze e ne mettono di nuove nei centri commerciali».
E Rumiz: «Stare su quelle panchine di legno rosso era il mio modo di segnare il territorio,
di dire: questo luogo è un po’ mio, fa parte della mia Trieste. Sedendomi lì, accanto
alla fontana, celebravo la comunità e i valori in cui essa si riconosce. Ribadivo
che lo spazio pubblico ha un valore irrinunciabile, specie oggi che tutto diventa
privato, anche l’aria». Dalle montagne del Vajont, lo scrittore-boscaiolo Mauro Corona
dichiarava di essere esterrefatto: «Segare le panchine è una cosa vergognosa e incivile.
Lasciamo stare la vigliaccata contro i barboni. La storia è un’altra: la panchina
è anche mia. Io voglio sedermi quando vengo a Trieste». E lo scrittore triestino Pino
Roveredo: «Che la gente vada a sedersi anche sul teatro romano, così vediamo se abbattono
anche quello».
L’articolo riportava anche gli interventi della gente comune: «Se porteremo de casa
una panca cole riodele», ci porteremo una panchina con le ruote, proponeva una signora
con la sporta della spesa. «Negli altri giardini pubblici, la gente quando vede un
vigile si afferra alle panchine, perché non si sa mai», rideva un tipo brizzolato
in maglione davanti all’edicola. «In comun i ga la fobia del cul», ghignava una sboccata
signora col bastone; «appena uno si siede, gli corrono dietro con la sega». Un altro,
azzimato in cravatta, aggiunse saggiamente: «Non sono i barboni che danno fastidio.
Siamo noi, perché vogliamo sederci gratis. Senza consumare».
Pausa. A proposito del consumare, confesso che nella mia vita ho passato un mucchio
di tempo anche ai tavolini di bar e di caffè, alternati allegramente alle panchine.
Per questo mi ha colpito molto questo severo e pascaliano brano del filosofo Emmanuel
Lévinas: «Il caffè è la casa aperta, al livello della strada, luogo della socialità
facile, senza responsabilità reciproca. Si entra senza necessità. Ci si siede senza
stanchezza, si beve senza sete. Pur di non restare nella propria stanza. Voi sapete
che tutte le disgrazie provengono dalla nostra incapacità di restare soli nella nostra
stanza. Il caffè non è un luogo, ma un non-luogo, per una non-società, per una società
senza solidarietà, senza domani, senza impegni, senza interessi comuni: società del
gioco. [...] Si sta lì, ciascuno al proprio tavolino, vicino alla propria tazza o
al proprio bicchiere, ci si rilassa assolutamente, al punto di non sentirsi in obbligo
verso niente e nessuno; ed è perché si può andare al caffè a rilassarsi che si sopportano
gli orrori e le ingiustizie di un mondo senz’anima. Il mondo come gioco, dal quale
ognuno può ritirarsi per esistere solo per se stesso, luogo di dimenticanza – dell’oblio
dell’altro – ecco il caffè».
Scopo della citazione non era stigmatizzare il bar, ma l’indifferenza, la sazietà,
l’uso sterile della noia. Fine della pausa.
«Il Piccolo» dell’11 dicembre 2006 riportò la cronaca della manifestazione: «Trieste:
corteo fino in piazza Unità per protestare contro il taglio delle panchine. La protesta
contro la decisione dell’assessore ai Lavori pubblici si è trasformata in una kermesse
popolare che ha visto la partecipazione di Vinicio Capossela». Fu un’allegra festa
con musica e canzoni, e cartelli inneggianti alle panchine. Una sagra popolare dell’essere
viandanti, di passaggio. Una festa della gratuità e della cittadinanza.
Di colpo le panchine, oggetti ignorati dai più, o dati per scontati, al massimo incasellati
dagli assessori nel cosiddetto ‘arredo urbano’ di molti municipi italiani, sono diventate
oggetti politici, risvegliando l’attenzione della gente. Uscite dalle poesie di Jacques
Prévert o dalle ballate di Georges Brassens (maestro di De André), le panchine si
rivelano, mentre spariscono, non più solo un decoro degli innamorati, ma valore d’uso
per tutti e per ciascuno. Ci si accorge che le panchine sono l’unico posto gratuito
delle nostre città, l’unico contrassegno di una cittadinanza che non vuole per forza
entrare nei ranghi dei clienti per esistere in pubblico, per continuare a sedersi
all’aperto.
È proprio vero, come scriveva un altro filosofo, che non c’è niente di meno marginale
della questione dei margini.
Modena 1973
Beat
Anni fa c’era una serie televisiva che raccontava di un gruppo di adolescenti, I ragazzi del muretto. Avrebbe anche potuto chiamarsi «i ragazzi della panchina», e sarebbe stato altrettanto
universale. Nella mia adolescenza, ritrovarsi con gli amici aveva effettivamente a
che fare con delle panchine. Parlo di un’epoca in cui per vedersi non c’era bisogno
di telefonarsi. Ci si incontrava e basta, e si sapeva sempre dove.
A una certa epoca il luogo di ritrovo era una delle panchine, l’ultima, di un viale
alberato dai marciapiedi molto larghi, dove il flusso delle automobili non aveva ancora
l’intensità di un’autostrada, le si poteva anche guardare una a una, e commentarle. La gente lo chiama «lo Stradone», anche se il vero nome
è più banale, viale Martiri della Libertà, e da un ponte arriva a un casotto giallo
che fa ora da rotonda nel traffico, costruito in passato dal mitico architetto Petitot.
Una volta era un circolo ricreativo, e quando ero piccolo mio padre suonava lì il
pianoforte con gli amici la domenica mattina all’ora dell’aperitivo (io leggevo i
miei fumetti).
Ma la mia vera educazione alle panchine avvenne nel Parco Ducale di Parma, il «giardino
pubblico», come lo chiama la gente. L’iniziazione alla poesia e ai comportamenti trasgressivi
avvennero lì. Fu una cosa dolce e forte.
Il parco era il mio rifugio, la mia campagna, il mio Aperto Mondo. Non avevo dubbi
che le panchine – ma anche i prati e il selciato – fossero i luoghi naturali in cui
sedermi. (Stare ai tavolini del chiosco posto al centro del parco era una rarità,
insieme al