Capitolo VI.

Vestiti che classificano

Ebrei, prostitute, mendicanti e lebbrosi. «Un giorno – narra nella sua autobiografia il vetrario Ménétra ricordando il suo soggiorno a Carpentras – eravamo in tre o in quattro in campagna, incontrammo un ebreo che non aveva il suo cappello giallo e che trasportava due belle galline. Gliele prendemmo e le mangiammo. Quello ci citò davanti ai consoli [...] ma gli fu dato torto perché non portava il cappello giallo». Infatti nel Contado Venassino, geograficamente in Francia ma appartenente al papa fino alla Rivoluzione francese, «i poveri ebrei non possono uscire senza un cappello giallo, e le loro mogli senza un nastro giallo sulla cuffia». Era stato papa Innocenzo III, nel corso del IV Concilio Lateranense (1215), a sostenere per la prima volta la necessità di imporre un segno distintivo agli ebrei, senza tuttavia precisare come esso dovesse essere. Nel 1227 papa Onorio III aveva stabilito che dovesse trattarsi di un segno di panno a forma di ruota o di O e nei concili di Ravenna del 1311 e del 1317 si era precisato che esso dovesse essere giallo. Nel 1360, tuttavia, Innocenzo VI impose un berretto rosso, mentre nel 1425 l’antipapa avignonese Benedetto XIII reintrodusse il segno a forma di ­ruota ma di colore giallo e rosso. In seguito si tornò al giallo (1458). Dal XIII secolo, tuttavia, anche le autorità cittadine avevano cominciato ad introdurre segni distintivi, sbizzarrendosi nell’imposizione di O, rotelle, veli, nastri, orecchini, stelle, cosicché non ne esisteva uno uguale dappertutto. Esisteva però una vasta gamma di elementi identificativi che avevano tutti lo scopo di rendere evidente la «diversità» degli ebrei. L’imposizione di segni di riconoscimento si caratterizzava almeno in parte come reazione alla tendenza – manifestata da alcuni ebrei a partire dall’alto Medioevo – ad assimilare in misura maggiore che in passato usi e costumi del mondo che li circondava. Tradizionalmente, infatti, gli ebrei erano facilmente distinguibili per via delle consuetudini religiose loro proprie, come la foggia della barba o il capo coperto. In questo senso, in alcuni casi si trasformò in segno distintivo imposto dall’esterno quello che era stato in origine un elemento della cultura ebraica. È il caso del cappello a punta che gli ebrei dovevano portare in molte città tedesche e che in Italia venne adottato a Venezia, Verona e Asolo87.

Ma non solo gli ebrei erano costretti a portare addosso un segno visibile della stigmatizzazione di cui erano vittime. Lo stesso accadeva per le prostitute, che in alcuni casi venivano anch’esse contraddistinte da accessori gialli, fatto che creava ambigue confusioni tra le meretrici e le donne ebree, come avvenne a Bologna dopo le provvisioni del 1525. I segni che caratterizzavano le donne di malaffare erano tuttavia ancor più vari di quelli relativi agli ebrei: mantelli neri, zoccoli particolari, cappucci rossi non erano che alcuni tra di essi. Una cappa rossa era in alcune zone il segno anche dei questuanti, altro gruppo, insieme ai lebbrosi, che in genere doveva portare marchi di riconoscimento: si cercava insomma di rendere identificabili attraverso l’abito persone che la maggioranza considerava come marginali. In questo senso il loro aspetto esteriore era sottoposto ad una rigida codificazione, così come avveniva, per scopi parzialmente diversi, con le leggi suntuarie88.

Significati. Ma colori, fogge e tessuti potevano esprimere significati precisi anche senza che questi venissero fissati per legge: nel villaggio tedesco di Laichingen, per esempio, verso il 1750 inizia quella che è stata definita «la marcia trionfale del blu» quale colore preferito per i vestiti della festa maschili. Se infatti fin verso la metà del secolo i contadini e i braccianti maschi rispettarono quanto previsto dalla legislazione scegliendo il grigio per i loro abiti della domenica, mentre tessitori e artigiani facevano lo stesso con il marrone, in seguito gli uni e gli altri optarono sempre più spesso per il blu, colore introdotto da alcune persone venute da fuori o che non appartenevano al nucleo della popolazione artigiana e contadina del villaggio. Per quanto la moda del blu non fosse, all’epoca, un fenomeno solo locale, a Laichingen rappresentò «un movimento sociale e una svolta storica». I contadini, in particolare, lo adottarono rapidamente: in tal modo dimostravano quanto fosse forte ormai il loro desiderio di sfuggire all’imposizione del grigio, che li condannava a venir classificati come membri dei ceti inferiori. Al contempo tale scelta mostrava come le critiche che in quegli anni venivano rivolte, nel Württemberg, alle pretese dell’assolutismo fossero condivise al di là della ristretta cerchia dei funzionari e notabili borghesi. La scelta blu era insomma il segno visibile dell’emancipazione sociale dei contadini89.

D’altra parte, il nero è, tradizionalmente, il colore del lutto, cui si affiancano nell’Italia del Tre-Quattrocento anche il blu scuro, il verde e certi colori misti di rosso e nero come quello detto «rovano» e quello definito «morello». Il rosso, in molte zone d’Italia, è caratteristico dei vestiti o di qualche accessorio indossato il giorno delle nozze: in Età moderna il bianco non si è ancora affermato come colore tipico della sposa e sembra che solo a Venezia essa indossi, per antica tradizione, vesti candide90. Ma l’abito, gli accessori, la pettinatura, il modo di portarli servono anche a distinguere ragazze nubili, promesse spose, donne sposate e vedove, celibi e maritati: se nel Rinascimento, a Firenze, le ragazze dopo il matrimonio hanno diritto di portare i gioielli avuti dal marito al momento del matrimonio solo per un certo periodo, in Francia, l’inclinazione del cappello distingue il celibe dall’uomo sposato91.

I principali eventi della vita familiare, come la morte di un parente o il matrimonio, trovano in effetti non di rado espressione attraverso l’abito. Alcuni indumenti o accessori possono anzi caricarsi di particolari significati rituali. Nella Firenze rinascimentale il marito in occasione del matrimonio «veste» la sposa, acquista cioè per lei abiti e gioielli: egli la fa sua, dunque, anche mettendole addosso dei vestiti che ha acquistato per lei92. Pure ad Augusta gli uomini «vestono» le mogli. Esse però da parte loro confezionano una camicia per il futuro marito93. E nelle Asturie il giorno delle nozze viene donato alla sposa un cinturino, che lo sposo deve riscattare per poter far propria la moglie94.

Vestiti da uomo, vestiti da donna. L’identità di genere è forse quella che a partire dal basso Medioevo l’abito sottolinea in modo più netto. Dal Tre-Quattrocento, infatti, gli abiti maschili e femminili vengono fortemente differenziati. Gli uomini, in particolare, abbandonano i vestiti ampi, lunghi e drappeggiati: vestiti del genere continuano a venir usati solo da categorie particolari, come il clero, gli anziani e i bambini, per i quali, sia detto per inciso, solo dal Settecento comincerà a svilupparsi un abbigliamento specifico95. Le gonne e gli abiti lunghi divengono insomma un capo di abbigliamento quasi esclusivamente femminile.

L’abbigliamento maschile si divide allora all’altezza della vita: gli uomini indossano brache e farsetto. A quest’epoca le brache tendono a confondersi con le calze, dal momento che sono strette e aderenti, talvolta dotate di piede e suola. Sono costituite da due tubi di stoffa che arrivano sino all’inguine, e sono poi attaccati al farsetto con spille, nastri e passanti. Il farsetto è una veste corta e imbottita. Le donne invece portano ancora prevalentemente vestiti interi: per loro la divisione dell’abbigliamento all’altezza della vita si realizzerà soprattutto nel Cinquecento, come già si è accennato96. In pratica solo la camicia resta comune a uomini e donne, ma nel Quattrocento le camicie maschili e femminili cominciano a venir distinte, dopo che già aveva iniziato a delinearsi la differenziazione tra camicie da giorno e camicie da notte (quest’ultime, tuttavia, resteranno a lungo un privilegio di pochi: la maggioranza continuerà a dormire nuda o con la camicia indossata anche durante la giornata)97.

Già prima che si realizzasse questa più netta divisione tra abbigliamento maschile e femminile, le brache erano tuttavia assurte a simbolo della «superiorità» maschile. Si trovano attestate con tale valore, infatti, almeno dall’inizio del XIII secolo. Non a caso, allora, il tema della lotta per le brache sarà per secoli un classico della misoginia: rappresentare le donne che ambiscono ad avere i pantaloni consentirà di stigmatizzarne le aspirazioni presentandole come sovversive del «giusto» ordine delle cose, come incarnazione di un diabolico mondo alla rovescia (Figg. 4, 59). Oggi tuttavia, nota sornionamente un’autrice che ha dedicato un volume a tale tema, la netta divisione tra donne in gonna e maschi in pantaloni sopravvive con vetusta rigidità solo nelle piccole insegne che distinguono le toilettes maschili da quelle femminili98.

Nei diversi periodi storici, dunque, l’abbigliamento enfatizza o attenua le differenze tra i sessi. Anche una volta che, nel tardo Medioevo, abiti da uomo e da donna hanno assunto fogge più diversificate che in passato, non mancano però fasi o gruppi in cui tali distinzioni risultano meno nette: le cortigiane veneziane nel Cinquecento portano «braghesse» e giubboni di foggia maschile e comunque nella seconda metà del secolo l’abbigliamento femminile è caratterizzato da una certa mascolinizzazione.

Complessivamente, comunque, nei secoli qui analizzati, l’abito, soprattutto quello delle classi elevate, esalta in genere gli attributi maschili e femminili, anche con protesi o strutture rigide. Sul fronte maschile le braghette del Rinascimento, che servono a coprire e proteggere i genitali all’altezza dell’attaccatura delle braghe, hanno imbottiture talvolta di chiarissima simbologia fallica, tanto che non mancano donne che se ne dicono scandalizzate. Nel 1553 le donne di Ascoli, alle quali si è vietato di portare gonne troppo corte, ribattono dicendo che il vero scandalo non sono certo le loro gonne che lasciano vedere le pianelle o un po’ di calzette, ma le braghette maschili, la cui foggia è tanto invereconda, sostengono, «che in vero non potemo più comportar [= sopportar] di vedella»99. In seguito i pantaloni si amplieranno, e nel Seicento saranno tanto larghi da far concorrenza alle gonne. Nel Settecento tornerà invece prevalente, almeno tra i ceti medi e alti, il pantalone attillato, questa volta, però, corto e costituito da un pezzo unico, cioè la culotte di cui già abbiamo parlato100.

Vita stretta e fianchi larghi sono invece gli attributi femminili che più vengono esaltati nell’abbigliamento delle donne d’Età moderna. Soprattutto nei ceti medi e alti, a partire dalla fine del Quattrocento esse cominciano a portare corsaletti rinforzati da una striscia di legno o di metallo, che preparano l’avvento, di lì a poco, del busto vero e proprio, costituito da una armatura lignea o metallica coperta di lino o di seta. Il corpo viene insomma modellato, irrigidito e imprigionato in capi d’abbigliamento tanto stretti da provocare anche danni alla salute. Nel Settecento, le donne musulmane dei bagni di Sofia, abituate ad abiti larghi e comodi, quando chiedono a Lady Montagu di spogliarsi e di bagnarsi con loro vedendone il busto pensano che sia una sorta di cintura di castità impostale dal marito!101 Ma nei secoli dell’Ancien régime le classi sociali elevate durante l’infanzia talvolta infliggono il busto anche ai maschi, per abituarli ad un portamento rigido e austero102.

Se indossare abiti che rendono impossibile muoversi liberamente è anche un modo per sottolineare la propria lontananza dalla necessità di lavorare103, non c’è dubbio che le donne dell’élite d’Età moderna siano letteralmente ingabbiate in un abbigliamento che, ai nostri occhi, assomiglia ad uno strumento di tortura. All’inizio del Cinquecento, infatti, ai busti si affiancano la «vertugada» o «vertugale» e il «guardinfante», che dalla Spagna si diffondono nel resto d’Europa. Il primo è un cuscinetto portato sul ventre per dare volume alle sottane. Svolge lo stesso scopo anche il secondo, che è però costituito da ampi cerchi di legno o di ferro. In origine nato per proteggere dagli urti le donne incinte, perde ben presto questa funzione, mantenendo solo quella estetica, che anzi si estremizza al punto da rendere quasi impossibile alle donne muoversi o sedersi senza venir aiutate104. Nel Cinquecento, d’altronde, sono diffuse scarpe con tacchi e suole alti anche 60 cm che rendono necessario l’aiuto di due servi anche per fare pochi passi105. E dal Rinascimento sino al Seicento il trucco delle donne è così pesante che pare crei sulla faccia una sorta di maschera che impedisce addirittura di ridere o di girare la testa106. L’irrigidirsi della società pare quasi rispecchiarsi nell’abbigliamento.

In modo più netto negli universi più statici, in una continua rincorsa di confini destinati a venir infranti o ricreati negli universi più dinamici, i vestiti, oltre a proteggere dal freddo, classificano o cercano di classificare: abiti da laici e da religiosi, da nobili, borghesi, uniformi militari (che si sviluppano proprio nell’arco di tempo qui analizzato107)... Forse più di altri beni, gli abiti sono allora oggetto di strategie di appropriazione e di distinzione, di lotte simboliche da cui scaturiscono ridefinizioni, nuove simbologie e nuovi significati. Qualcosa, comunque, comunicano sempre, seppur attraverso linguaggi che sono diversi a seconda dei luoghi e dei periodi108.

È il caso, per esempio, dell’abito della festa e della domenica conosciuto fin dal Medioevo. Nel Settecento, nel villaggio ­tedesco di Laichingen non ci rinunciano neppure i braccianti, i pastori e i tessitori poveri, né le loro mogli, e probabilmente a quest’epoca accade lo stesso anche in molti altri luoghi109. Dunque anche il calendario – quello religioso, e non solo quello stagionale del freddo e del caldo – ha i suoi vestiti. Ad un livello ancora più profondo, dal momento che in questo caso l’abito fa tutt’uno con l’identità delle persone, si può dire la stessa cosa per la virtù, come ricorda l’insistenza dei manuali di comportamento o dei predicatori sulla modestia e la moderazione dell’abbigliamento110.

Dopo aver cercato di classificare e ordinare l’universo sfaccettato delle forme vestimentarie – gonne, sottogonne, camicie, grembiuli, corsetti, abiti, calze, zoccoli, scarpe, redingotes, mantelli e via discorrendo – ed esserci soffermati, più o meno ampiamente, sugli abiti che esprimono l’identità di genere, lo stato civile, i principali eventi della vita familiare, l’appartenenza ad una comunità nazionale e via discorrendo, volgiamo ora lo sguardo a quelli che esplicitano l’appartenenza ad una famiglia.

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