Introduzione Il mondo dopo la fine del mondo

IL MONDO DOPO LA FINE DEL MONDO

Introduzione

Nel giro di poche settimane, all’inizio dell’anno, le nostre certezze sono andate in frantumi: di fronte a un virus potente e sconosciuto, tutti i più avanzati strumenti di controllo, dalla genetica all’informatica, si sono dimostrati inadeguati e siamo stati costretti, volenti o nolenti, a tornare ad adottare come essenziale una misura inventata molti secoli fa, la quarantena. Mentre epidemiologi, virologi e genetisti si sono trovati a dichiarare la propria parziale impotenza e a chiedere tempo, sono tornati improvvisamente attuali racconti e riflessioni che guardavamo con il sussiego che si riserva ai ruderi del passato. Chi mai avrebbe immaginato che saremmo tornati a sfogliare Il Decameron di Boccaccio, i Promessi sposi di Manzoni o La Peste di Camus non tanto per il piacere della lettura o per ragioni letterarie, ma per cercare in questi testi tracce di esperienze, per conoscere le conseguenze emotive di un fenomeno dimenticato?

Nel momento in cui scriviamo queste righe la pandemia ha già tracciato un grande solco tra un prima e un dopo, ha segnato uno spartiacque tra un mondo che credevamo di controllare e uno nuovo dal profilo molto incerto, ma che sta facendo saltare attraverso l’inappellabile verifica della realtà i nostri paradigmi più ferrei. Siamo tutti chiamati a riflettere su ciò che è stato, sulle cause profonde di quanto stiamo vivendo e sulle conseguenze immediate, economiche, politiche e sociali, così come a porci quesiti nuovi sul futuro che ci aspetta e che dovremo ricostruire.

Un prima e un dopo, dicevamo. Nel “prima”, le nostre società facevano mostra di una organizzazione globale molto efficiente rispetto al passato più recente via la disponibilità di strumenti tecnologici in grado di mettere in connessione su ogni piano il mondo intero. Oggi questa efficienza, questo intreccio pervasivo hanno mostrato l’altra faccia, quella fragile, insostenibile, vulnerabile: un minuscolo organismo infettivo le ha neutralizzate e fatichiamo ad essere resilienti, a resistere, a reagire. Allora le prime domande che vengono alla mente riguardano proprio questo aspetto: cosa ci dice questa vulnerabilità di noi come sistema organizzato? Come abbiamo potuta ignorarla così a lungo? Mentre sceglievamo di privilegiare la produzione di merci e servizi, il nostro essere consumatori, abbiamo dimenticato la nostra debolezza per eccesso di hybris?

Nel “prima”, la democrazia appariva il destino dell’umanità, il sistema politico che aveva sconfitto prima il totalitarismo nazista e poi soverchiato in ogni aspetto il socialismo reale. Nel nostro “dopo” tutto questo non appare più così scontato. Da un lato un governo autoritario come quello cinese ha dato prova di una capacità di reazione inimmaginabile, contenendo il contagio e riprendendo l’attività economica e la vita sociale, tanto da poter uscire da questa crisi come un vero e proprio modello vincente e che rischia di esercitare un notevole influsso anche sul mondo “libero”. Dall’altro gli strumenti messi in atto per contenere l’epidemia, dalla restrizione delle libertà individuali fino alle pervasive forme di controllo tecnologico, rischiano di minare dall’interno i nostri diritti di cittadinanza. E anche qui molte sono le domande da porci: storicamente le democrazie si sono sempre dimostrate più resilienti rispetto ai governi autoritari o alle dittature, capaci di affrontare i costi umani della crisi ed elastiche nell’elaborazione delle risposte. Oggi queste caratteristiche sembrano appannate, le reazioni incerte e confuse, la gestione delle diverse esigenze e dei diversi interessi poco trasparente. Come mai? Esiste una crisi della rappresentanza che mina la selezione delle classi dirigenti politiche attraverso le elezioni? Saltata la mediazione dei partiti, la comunicazione diretta tra leader e popolo impedisce un confronto reale? La logica dell’emergenza diventa l’unica via attraverso cui la politica riesce ad imporre decisioni e scelte? E anche se fosse così, come è stato possibile che non ce ne siamo accorti e non sia mai stato possibile introdurre dei correttivi?

Nel “prima” la globalizzazione, la divisione internazionale del lavoro, le delocalizzazioni apparivano una straordinaria opportunità per lo sviluppo del pianeta, per consentire ad enormi masse di persone di sperimentare il privilegio degli standard di vita occidentali, per ridurre le disuguaglianze tra nord e sud del pianeta. Nel “dopo”, : risorgono, ovunque e senza provocare scandalo, confini e frontiere, si esigono controlli e limitazioni alla libertà di circolazione di merci e persone, mentre monta una crescente irritazione per la dipendenza di ogni nazione da linee di approvvigionamento che non possono essere controllate. Ma non era possibile prevederlo? Perché per anni abbiamo sentito cantare le lodi delle “magnifiche sorti e progressive” di questi fenomeni senza che se ne mettesse in luce anche i rischi?

Nel “prima” il capitalismo aveva unificato tutto il pianeta sotto il proprio dominio. La logica di mercato si era imposta, alla prova dei fatti, come legge universale cui tutti i popoli e tutte le culture si erano adeguate. Nel “dopo”, riemergono con forza tratti ed identità antichissime che producono distinzioni e fratture: dalla Cina “confuciana” in cui l’individuo esiste solo in funzione della comunità, all’Europa latina dove la difesa organicistica della società nel suo complesso prevale immediatamente sugli immediati interessi economici, fino al mondo Anglosassone dove la prima reazione è quella del “business as usual”. E allora ipotizzabile che, finita l’emergenza epidemica, tutto riprenda come se niente fosse successo? Le leggi bronzee della domanda e dell’offerta globale torneranno a farsi valere senza alcuna variazione o si produrrà un ripensamento analogo a quello imposto dalla grande crisi del ‘29? Se si indebolirà la capacità del capitalismo di assicurare benessere e consumi, riprenderanno forza i conflitti sociali e redistributivi?

Nel “prima” lo Stato era considerato una istituzione quasi residuale, che doveva essere limitato e contenuto in ogni suo tentativo di ingerenza nella vita economica. Nel “dopo”, dovremmo considerare la sua forza necessaria, non cedibile, non solo per la tutela della salute pubblica e dei soggetti più deboli, ma soprattutto per la ripresa: la ricostruzione difficilmente può farne a meno. Ma la domanda è: come arriverà a questo appuntamento? La macchina dello Stato ha l’esperienza e le conoscenze per assolvere a questo nuovo ruolo? D’ora in avanti si va verso forme di intervento statale che ritenevamo cancellate dalla storia? I sistemi sanitari, ad esempio, dovranno essere ripensati completamente e se si, come potranno coesistere servizi privati e quelli pubblici?

Nel “prima”, l’Unione Europea, pur con tutti i difetti e lo scontento che l’accompagnavano, appariva una formidabile fortezza rispetto alle incertezze globali e l’Euro la sua arma di difesa definitiva. Nel “dopo”, riemergono stereotipi atavici e antipatie congenite: i popoli del sud superficiali, sfaticati e spendaccioni, i popoli del nord avari, freddi e calcolatori. Le stesse istituzioni europee faticano a trovare una propria legittimità rispetto agli interessi nazionali e non riescono ad assumere un ruolo di guida politica per l’intero Continente. E si fanno avanti le domande urgenti: come si riuscirà a ricostruire il senso di un’Europa unita dopo questo disastro? Riprenderà forza l’idea di un destino comune di tutti gli europei o le logiche nazionali torneranno a prendere il sopravvento? Perché si è dovuti arrivare fin sull’orlo del precipizio senza percorrere strade alternative?

Nel “prima”, sembrava che all’Italia fosse assegnato il destino di vivere sfruttando il suo immenso patrimonio culturale e le sue bellezze attraverso il turismo o il gusto per la buona tavola, la moda e il design. Nel “dopo”, tutto questo appare un sogno da cui siamo costretti a destarci in preda allo shock: le nostre città deserte, i luoghi dello shopping abbandonati, il lavoro che scompare tanto che persino mangiare potrebbe, dopo generazioni, tornare a essere un problema, come stiamo già sperimentando… Dopo decenni siamo obbligati di nuovo ad immaginare un futuro che non sia soltanto basato su un decimale in meno di tassazione o sull’eliminazione di questo laccio e di quel lacciuolo, ma che tenga nella giusta considerazione delle scelte fondamentali: In che direzione possiamo sperare di ripartire? Dove vogliamo andare come società? Abbiamo navi da bruciare alle nostre spalle?

E poi dovremmo fare i conti con l’inedita esperienza di isolamento, di separazione dagli altri che abbiamo vissuto in questi mesi: restare chiusi in casa, ma chiusi anche fuori nell’attenzione maniacale a schivarsi per strada o nei supermercati. Probabilmente dovremmo tenere le distanze a lungo. E questo quanto influirà sulla natura e la qualità delle nostre relazioni? L’abitudine alla solitudine e all’isolamento ci porterà a accontentarci di una vita relazionale a bassa intensità?

Il libro che vi apprestate a leggere è soprattutto un libro di domande, le domande che molti si pongono oggi quando porgiamo lo sguardo all’orizzonte del nostro futuro più prossimo o su quanto resta dietro di noi. Ed è un libro immaginato e realizzato nel pieno dell’emergenza e del “distanziamento sociale”, risente quindi di tutti i vincoli e delle difficoltà che stiamo sperimentando ed è anche, per sua natura, provvisorio, nel senso che i temi ci appaiono dettati dall’urgenza del momento e, forse, saranno contraddetti da nuovi accadimenti o da nuove evidenze. Come accade quando si racconta una storia di cui si conosce l’esito, sarà facile tra qualche anno tornare a leggerlo e vedere tutte le ingenuità, i dubbi e le incertezze con le quali proviamo a dare un senso al nostro tempo. Oggi, in mezzo al buio nel quale procediamo, non è così. Proprio per questo ci è sembrato comunque utile porsi alcune domande e tentare di offrire prime risposte, indicando anche possibili soluzioni ai grandi problemi che si sono aperti. E per questo ringraziamo tutti gli autori che hanno accettato di partecipare a questa nostra piccola impresa editoriale, che hanno accolto la nostra sfida e si sono prestati a correre questo rischio.