Falsificazioni intere o parziali, audaci e talora geniali miscugli di realtà e di bugie: un saggio analizza i modi per comprendere ma anche per tradire ciò che è avvenuto
Franco Cardini, Avvenire, 11 dicembre 2020
«Papà, a che serve la storia?». Una domanda semplice ma per nulla banale. Lo sapevano bene quei genitori che per generazioni sono stati perseguitati da quel petulante quesito. Ma oggi è abbastanza raro che un ragazzo o un adolescente ponga una questione del genere. Per 999 probabilità su 1000 potenziale interrogante e potenziale interrogato su una cosa almeno sono tacitamente d’accordo: che la storia non serve a un bel nulla, che è un residuo patetico di un altro mondo e di un altro sistema di apprendimento, che con essa non si mangia, non si fanno soldi, insomma o si resta disoccupati o si fanno mestieri che non rendono. Semmai, la domanda che oggi potrebbe non dico suscitare qualche interesse ma quanto meno sperare in qualche esito è un’altra: che cos’è la storia? E per cominciare, quella che “si fa”, il risultato delle scelte e delle azioni umane, o quella che “si racconta”, e che più propriamente dovrebbe definirsi “storiografia”?
Ma limitiamoci alla storia “fatta”, o comunque “avvenuta”. Storia di persone o di gruppi? E di eventi, di re, di battaglie, oppure quotidiana, magari di cose, di oggetti? E perché non piuttosto d’idee, di pensieri, di sentimenti, di sistemi religiosi, di costruzioni politiche, di modi di sperimentare l’amore, o l’odio, o la gioia, o il piacere, o la paura? E magari di sogni, di miti, di utopie, di fantasie, di menzogne? E addirittura dei mezzi e degli strumenti: ad esempio dei libri, delle immagini, delle foto, del cinema, della Tv, dei media informatici, e di come trattano la realtà, e di come magari la manipolano e la falsificano. Storie, storie, storie. Un labirinto nel quale c’è da perdersi. Non a caso, è stato frequente il chiedersi se tutto quel che ci circonda o che noi ricordiamo non sia per caso sogno o menzogna, come al teatro o al cinema. E se davvero quel ch’è accaduto ci debba per forza condizionare per sempre, o non sia per caso legittimo sostituirgli qualcosa di non accaduto o chiedersi se veramente c’è stato un momento nel quale le cose avrebbero potuto andare diversamente da come sono andate. E se Alessandro non avesse mai preso quella brutta febbre a Babilonia? E se Cesare quel 15 marzo si fosse attardato nei giardini di casa e magari si fosse presa una storta e non avesse potuto recarsi in senato? E se il naso di Cleopatra fosse stato davvero un po’ più lungo? E che rilievo può avere il fatto che certe cose siano andate sul serio in un certo modo, dal momento che avrebbero potuto andare invece in un altro? E ci sono infine strumenti davvero sicuri e metodi davvero affidabili per ricostruire il passato veramente tale e distinguerlo da uno diverso, inventato, “ucronico” o “eterofattuale”? Insomma, il problema non è tanto che cos’è avvenuto, quanto come lo si appura e lo si ricostruisce. Quindi, come lo si valuta: non già per “giudicarlo” (lo storico non è né un giudice, né un prete), bensì per comprenderlo dal di dentro e secondo logiche le quali non possono essere quelle di chi indaga, bensì di chi è indagato (in altri termini il lavoro dello storico è simile a quello del detective o del medico).
Tommaso di Carpegna Falconieri Gabrielli discende da un nobilissimo casato del Montefeltro — come gli dico sempre (dal momento che siamo vecchi amici), “lui l’ha rovinato la Rivoluzione francese” — ed insegna (e dove sennò?) nell’Università di Urbino. Giovane studioso, ha scritto una bella biografia di Cola di Rienzo e un libro su uno strano personaggio del Trecento che si diceva o si credeva re, “Re Giannino”; ma soprattutto si è occupato con grande successo, nel libro Medioevo militante, di una sorta di malattia strisciante che insidia il “nostro Occidente”, il rapporto con il medioevo e i molti modi d’immaginarlo e magari perfino di riviverlo: insomma, si direbbe, dalla medievistica (la severa scienza che indaga i secoli di mezzo della nostra storia) al “medievalismo” (le infinite declinazioni secondo le quali si può ricostruire il medioevo ma anche “correggerlo”, contraffarlo, mimarlo, falsarlo) e quella che si potrebbe definire “medievalite”, la mania del medioevo. Certo, ci sono stati momenti importanti di questa specie di follia di solito (non sempre…) innocua, come durante il romanticismo ottocentesco. Uscendo (ma solo in parte) dal medioevo, di Carpegna si è impegnato anche in un’impresa di ampio e profondo respiro gnoseologico-esegetico. Il suo libro Nel labirinto del passato. Dieci modi di riscrivere la storia (Laterza) si pone a trecentosessanta gradi il problema dei differenti modi di comprendere, ricordare, sognare, dimenticare, alterare, falsare, tradire la storia: e sistema i suoi argomenti, i libri che gli sono serviti alla bisogna e i veri o falsi argomenti che a ciò sono serviti (e chi se n’è servito) in dieci scaffali immaginari ma a modo loro molto verosimili, sui quali trova posto una “Biblioteca di Babele” del Vero storico, del Semivero, del Controvero, dell’Immaginato, del Sognato, dell’Alterato, del Falso, del Mentito, dell’Immaginario. Scoprirete così quasi per gioco — ora divertiti ora affascinati ora perplessi ora indignati— che nulla, ma proprio nulla vi è risparmiato. Non c’è cosa sulla quale non si possa o non si debba dubitare, non c’è cosa sulla quale si possa essere del tutto sicuri. Falsificazioni intere o parziali, assemblaggi, audaci e talora geniali miscugli di verità e di bugia, frutti della disinformazione o della controinformazione. La storia come specchio della realtà: ma specchio spesso deformante. Ma davvero l’uomo è arrivato sulla luna? E la “Donazione di Costantino”? E la Shoah? Ma allora, non c’è nulla di certo? Tranquilli: di Carpegna, avvelenatore coscienzioso e caritatevole, vi fornisce con le pozioni avvelenate anche gli antidoti. Metodo, razionalità, disciplina, esperienza. Ma, sembra dirci, andateci piano anche con quelli.