«Dovevo cercare di parlare di lei: non solo della sua perdita, ma di lei viva e palpitante, di ciò che abbiamo vissuto insieme, di tutto quello che mi ha dato e non solo di quello che mi ha tolto con la sua assenza. Dovevo, soprattutto, asciugarmi le lacrime e cercare di avvicinarmi a ciò che è stata lei in sé, avulsa dal sottoscritto, alla sua essenza interiore che sono appena riuscito a intravedere e che ho amato ciecamente. Ma dovevo anche raccontare la sofferenza, atroce e definitiva, patita negli ultimi mesi e sopportata con un coraggio superiore a quello che mostravo io con i miei gemiti esibizionisti».
«Uno dei primi giorni del nostro calvario, all’ospedale di Pontevedra, appena conosciuta la diagnosi il cui esito fatale ancora ignoravamo ma che già presagivamo capace di separarci, abbracciati sul tuo letto sfatto, mi dicesti: “Se tu non lo racconti, nessuno saprà che cosa siamo stati l’uno per l’altro”. Non sono sicuro di poterlo raccontare, amore mio, temo di non essere all’altezza di una tale sfida, ma capisco che sarebbe miserabile, da parte mia, non provarci nemmeno. Ecco dunque che cosa mi resta da fare».
Così Fernando Savater spiega la ragione di questo libro scritto dopo la morte di sua moglie Sara. Un libro intimo che avvicina, accoglie, accomuna tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza della perdita. Un inno alla vita e all’amore che solo ci può salvare.
In questa intervista a La Razòn, l’autore racconta L’amore che resta.
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