Italiani, razzisti inconsapevoli
di Federico Faloppa
«Non sono razzista, ma»
Una manciata di frasi. Di frasi fatte. Talmente banali da sembrare artificiose, posticce. Ma non sono farina del mio sacco. Non le ho inventate io. Le prime sei le ho estratte dall’articolo di Enzo Costa Non sono un razzista, pubblicato nel settimanale di satira politica «Cuore» il 2 aprile 1990. Sono state scritte, quindi, oltre vent’anni fa, con lo scopo, dichiarato, di mettere alla berlina un modo di dire che proprio allora – avevamo da poco scoperto l’esistenza di vu’ cumprà ed extracomunitari – si stava radicando nell’uso.
Le altre, invece, le ho trovate in internet nel dicembre del 2010, inserendo in Google la query «Non sono razzista, ma». Appartengono all’oggi, quindi. E fanno parte di quelle 140.000 (circa) occorrenze che il motore di ricerca ha scovato nel web. Non che questo numero – 140.000 – dica molto in termini assoluti. Dice però qualcosa se confrontato con un dato riportato dal giornalista Giovanni Maria Bellu nella sua rubrica Gli altri noi. Storie di immigrazione del 13 maggio 2007 (www.repubblica.it). Ovvero che la stessa query quattro anni fa produsse «soltanto» 10.000 occorrenze.
In quattro anni, insomma – pur filtrando i contesti duplicati, o in cui l’espressione compare sotto forma di discorso riportato, e pur tenendo conto della fisiologica espansione di internet dal 2007 a oggi –, si sono moltiplicati i documenti in cui qualcuno ha avuto bisogno di raccontare o di sostenere che non è razzista, ma. E non solo di affermarlo, ma anche di condividerlo. Perché basta spostarsi su Facebook per scoprire che l’espressione «non sono razzista, ma» (o «però», o altre varianti simili) è il nome di decine e decine di gruppi.
Qualche esempio? «Io non sono razzista, ma non ne posso più» (e nella descrizione del gruppo si legge «per tutti quelli che non ne possono più degli extracomunitari che rubano nelle nostre case, che spacciano droga nelle strade»); «Io non sono razzista, però ne ho pieni i maroni »; «non sono razzista, ma sto diventando intollerante»; «Io non sono razzista, ma i neretti nel parcheggio dell’Ipercoop hanno rotto»; «Io non sono razzista, ma neanche buonista». O ancora: «Non sono razzista: mi baso sui fatti» e «non sono razzista: sono loro che puzzano di merda». Oppure «Non sono nato razzista… ma adesso voglio un’Italia pulita». Per finire – ma si tratta di una veloce carrellata – con il gruppo «Io non sono razzista! Sono solo selettivo!» («diciamo basta! A tutti gli immigrati clandestini! Che vengono in cerca di lavoro… ma poi finiscono a rubare… se vogliono stare in Italia devono lavorare! Devono pagare le tasse! E non devono fare casini! Altrimenti, andrebbero rispediti nei loro paesi a calci in culo!»), che a dicembre 2010 aveva attirato la bellezza di 1459 simpatizzanti.
Poca cosa, si dirà, considerando che Facebook ha circa 600 milioni di utenti sparsi per il mondo, di cui ben 16 milioni in Italia. Eppure, anche a volerci scherzare su, l’impressione è che il «fantasma del non sono razzista, però», evocato da Giovanni Maria Bellu nel 2007, e da lui stesso sinteticamente soprannominato, con efficace neologismo, noràppero, si aggiri ancora per l’Italia. Sfuggendo, tra l’altro, a modelli e definizioni: perché i noràpperi – è ancora Bellu a suggerirlo, ma è Facebook a confermarlo – sono «trasversali». Sono sia di destra sia di sinistra. Sia uomini sia donne. Sia giovani sia meno giovani. Divisi su molte cose, ma accomunati – sempre secondo il giornalista – da una personalissima sensibilità «alle vicende di cronaca, ai sentimenti dominanti nell’opinione pubblica, e anche alle esperienze personali». O forse – aggiungo io – da una manifesta incapacità di discernere, chiaramente, tra queste e quelli.Prigionieri di una logica che si nutre di semplificazioni, di un’argomentazione povera, spesso scopertamente mediocre, fallace, contraddittoria.
Federico Faloppa, Razzisti a parole (per tacer dei fatti)
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