L’infanzia, la “sardità”, l’amore, la solitudine intellettuale e la malattia. Torna in libreria la vita del leader comunista scritta da Giuseppe Fiori
Alberto Asor Rosa, la Repubblica, 23 gennaio 2021
In un articolo apparso in occasione della scomparsa dell’autore di Vita di Gramsci, Rossana Rossanda osservò, con la consueta acutezza, che Giuseppe (Peppino) Fiori aveva per primo attirato l’attenzione sulla componente umana, sul dramma esistenziale che aveva accompagnato il grande dirigente e teorico comunista dall’inizio alla fine del suo percorso. Più esattamente: quella di Gramsci «era stata una sofferenza impossibile da addomesticare nella memoria sotto la veste dell’eroismo. Era sofferenza pura, solitudine esistenziale, verifica del pensare isolato, senza possibilità di comunicazione». «Noi – aggiunge Rossanda – non lo avremmo ammesso facilmente come se nell’impegno politico ci fosse un risarcimento oggettivo, un limite al patire». «Fiori – continua Rossanda – ci obbligava a vedere che non era così. Per me fu il primo».
Questo rappresenta inequivocabilmente il punto di partenza di qualsiasi discorso su questa Vita di Gramsci, una valutazione del suo tessuto tematico come del suo, veramente notevole, dispiegamento narrativo (Fiori scrive con un’asciuttezza e un’incisività esemplari, anche fuori del contesto prescelto).
Siamo nel 1966. Fiori mostra di essere cosciente già allora della prospettiva nuova sulla quale Rossanda e altri più tardi si soffermeranno. E nella Premessa alla prima edizione dichiara: «Questo libro non vuole avere altra ambizione che di completare il ritratto di Gramsci, cioè di aggiungere alla “testa” (al Gramsci grande intellettuale e leader politico) “gambe e corpo”: quegli elementi umani, dall’infanzia alla maturità, che aiutano a farci vedere il personaggio “intero”, nei giorni della fame, dell’amore e del lento morirsene. E quindi specialmente il ritratto di Nino Gramsci (il diminutivo con cui Antonio veniva conosciuto famigliarmente e amicalmente».
Facciamo qualche esempio. Le prime ottanta pagine del libro sono ovviamente dedicate, a partire dalla nascita, agli anni della prima formazione, degli intensissimi rapporti famigliari, delle consuetudini, molto condivise, paesane e amicali. In un certo senso si concludono quando Antonio, squattrinato come pochi altri giovani pretendenti ad una carriera umanistica e professorale del suo tempo, concorre ad una borsa di studio presso il Collegio Carlo Alberto di Torino, e la vince, cosa che gli consente d’iscriversi all’università e di trasferirsi – pressoché stabilmente, a guardar bene – da quel momento in poi sul Continente.
La mia tesi è che la ricostruzione, così attenta, minuziosa, circostanziata, fedele, che Peppino Fiori fa di quei primi vent’anni, porti come conseguenza – più che mirare intenzionalmente, quasi come un programma di obiettivi e risultati perfettamente chiaro e consapevole – ad una sottolineatura particolarmente chiara di quei caratteri anche nella personalità e nell’opera del Gramsci maturo.
Naturalmente non voglio dire che Fiori riduca Gramsci alle sue origini sarde. Fiori è indubbiamente, in sé e per sé, un cultore autentico della “sardità”, ma in virtù di queste sue radicate preferenze e impostazioni – la linea che lui segue nel ricostruire passo per passo la biografia gramsciana consiste nel vederne le radici e le scaturizioni psicologiche e culturali nel massimo della profondità possibile, là dove biografia ed ethnos traggono alimento reciproco. È proprio per questo, perciò, che si può dire che questa è una “vita” autentica, non un casellario di idee fatte calare dall’alto, e cioè una “biografia” intesa nel senso più tradizionale ed esteriore del termine. Considerazioni analoghe si potrebbero fare a proposito di quegli altri temi e aspetti “umani” che attraversano da cima a fondo la seconda fase (quella dell’impegno politico, nel Partito socialista, prima, nel Partito comunista d’Italia, poi, di cui nell’agosto 1924 divenne Segretario) e la terza (quella della prigionia, dopo la condanna a vent’anni del Tribunale speciale fascista nel maggio 1928) della sua vita. Qui, fra i molti esempi possibili, uno spicca indubbiamente su tutti gli altri: quello del suo amore per la giovane intellettuale russa Giulia (Julka) Schucht, conosciuta a Mosca e destinata a diventare sua moglie e madre dei suoi due figli. Di questa importanza decisiva, se non addirittura centralità, del tema amoroso nella ricostruzione della biografia gramsciana, è senza dubbio Giuseppe Fiori l’artefice maggiore.
La nostra conclusione è che questo conferma quanto accennavamo fin dall’inizio: per Fiori la biografia di Gramsci è la conseguenza, non meccanica ma volontaria, di una serie di scelte tutte intrecciate fra loro, di cui quelle sentimentali, passionali, personali e comunicative occupano uno spazio di altissimo livello. Ma – potrebbe osservare uno qualsiasi degli interlocutori con i quali abbiamo cercato di dialogare nel corso di queste note – in questo modo non si farebbe che confermare l’analisi originaria, quella della Rossanda, secondo cui il libro di Fiori è apprezzabile soprattutto perché evidenzia fortemente il lato umano dell’esperienza gramsciana. Io invece penso che la Vita di Gramsci di Peppino Fiori contenga ben altri spunti, sia pure intrecciati con gli aspetti più personali e primigeni della sua biografia.
Siamo – l’ho già ricordato – nel 1966. Giuseppe Fiori ha circa quarant’anni, è un giornalista molto noto e capace, di orientamento socialista. Non c’è ombra di dubbio che a “tirarlo” verso il tema gramsciano ci sia, oltre che la “sardità”, il clima di revisione critica e autocritica che spira in quello scorcio di tempo sulla cultura e sulla intellettualità cosiddetta “di sinistra”.
Due sono i punti, nella ricostruzione della biografia gramsciana, su cui Fiori, con evidente scelta interpretativa, insiste con particolare efficacia. Innanzi tutto, la linea che, da recente Segretario, Antonio intende imprimere al Partito, in mezzo (non dimentichiamolo) al caos impresso dal fascismo al contesto politico e sociale italiano. Siamo, grosso modo, fra il 1924, l’anno del delitto Matteotti, e il 1926, l’anno del Congresso di Lione, dove Gramsci riuscì almeno formalmente a far passare le sue tesi. Non gli restava molto tempo per pensare e lavorare in libertà: l’8 novembre 1926 fu arrestato e restò in vario modo prigioniero, fino alla morte avvenuta nella Clinica Quisisana di Roma il 29 aprile 1937 (quando aveva 46 anni). Fiori insiste molto efficacemente sulle caratteristiche di questo punto. Gramsci ha alle spalle le esperienze leniniste nell’organizzazione comunista internazionale. Elabora una linea, quasi, si potrebbe dire, senza il sostegno di nessun altro e, almeno formalmente, riesce a farla approvare. La questione si ripresenta ancor più drammaticamente quando in Russia, dopo l’uscita di scena di Lenin, arrivano alle ultime battute i dissensi interni al gruppo dirigente comunista. Gramsci si schiera risolutamente contro il pericolo della scissione, che renderebbe insanabile il conflitto e aprirebbe la strada secondo lui ad un’ulteriore estremizzazione della posizione comunista internazionale.
Questa presa di posizione così netta e così chiara – e così coerente, secondo Fiori, con le prime battute del suo essere dirigente comunista italiano – non riscuote il consenso di Palmiro Togliatti, il quale allora rappresentava a Mosca il partito italiano presso l’Internazionale comunista.
Fiori torna più e più volte sull’argomento: sostiene e documenta che Antonio resta estraneo ed ostile alla linea ormai dominante nell’Internazionale comunista e nel Partito italiano. Gli ultimi anni sono quelli dell’estenuazione, della perdita di conoscenza, della sofferenza e della morte.
Antonio muore il 27 aprile 1937, assassinato da quel regime criminale di massa che fu il fascismo (spero che la ripubblicazione di questo libro aiuti a ricordare anche questo aspetto, certo non irrilevante, della storia). Giuseppe Fiori ci aiuta a conoscerlo più da vicino, e più profondamente.
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