Le responsabilità di populismi e sovranismi, la nascita insidiosa di nuovi poteri privati e “selvaggi”: una teoria del garantismo costituzionale per affrontare la crisi dei modelli di “governo popolare”
Luigi Manconi e Federica Resta | TuttoLibri | 27 marzo 2021
«Prima di ogni nostra appartenenza, viene il dovere della cittadinanza»: quest’affermazione del Presidente del Consiglio Mario Draghi, in occasione delle Dichiarazioni programmatiche alle Camere, contiene un interrogativo di fondo. Che tipo di democrazia presuppone oggi quest’idea di cittadinanza come dovere oltre che come diritto? È una domanda che sta a fondamento del rapporto tra democrazia e diritto e diritti, reso se possibile ancor più complesso nel contesto attuale. L’esperienza della pandemia, che non sembra destinata a esaurirsi in breve, ha rappresentato – come ogni altra emergenza – un banco di prova importante per lo Stato di diritto, chiamato a tracciare un confine, sempre mobile e incerto, tra regola e necessità. Superato tale confine, la deroga degenera in legittimazione dello Stato di prevenzione. E questo equilibrio è tanto più difficile in un ordinamento come il nostro che – diversamente da altri, come ha sottolineato l’allora Presidente della Consulta Marta Cartabia – non riconosce all’emergenza la natura di autonoma fonte del diritto. Ciò che la nostra Costituzione prevede (o meglio: consente) è, piuttosto, uno stato eccezionale, dovuto a circostanze eccezionali, non certo sciolto da un quadro di norme, vincoli e limiti.
Ma la tenuta della democrazia oggi è insidiata, anche e in senso più generale, dall’emersione ai nuovi poteri privati e micro-sovranità e dalla conseguente rifeudalizzazione di molti rapporti sociali. Pensiamo, in primo luogo, al capitalismo delle piattaforme, resesi sempre più arbitre di libertà fondamentali, al punto di aver autonomamente tracciato (è il caso di Facebook e Twitter, con il blocco dell’account di Donald Trump) il confine tra potere di esternazione del Presidente degli Stati Uniti e discorsi illeciti. E questo in un ordinamento, quale quello statunitense, in cui è prevalsa sempre (fin al sommo vertice della Corte suprema) la convinzione che le idee storte si raddrizzino con buoni argomenti e non con la censura e, tanto meno, con il bastone. Il percorso carsico di populismi e sovranismi che emergono e si inabissano ciclicamente è poi, al tempo stesso, causa e conseguenza di questa crisi della democrazia che, tuttavia, sarebbe errato pensare come irreversibile. E ciò nonostante che quella stessa crisi si manifesti conclamata e profonda persino nei paesi in cui il modello democratico risultava talmente solido da apparire immune da qualsivoglia degenerazione. E, in effetti, l’assalto a Capitol Hill dimostra in maniera emblematica tanto questa crisi quanto la capacità di reazione di una democrazia matura.
Proprio su questo nodo ammonisce Luigi Ferrajoli, che con La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, anzitutto individua con puntualità proprio le molteplici cause della crisi del modello democratico. Le principali di esse sono riconducibili allo sviluppo di «poteri selvaggi», come indicava il titolo di un altro libro di Ferrajoli.
Questi ultimi sono alimentati, per un verso, da una idea elementare e populista della democrazia come tirannia della maggioranza (anziché come, diremmo noi, governo del limite e delle garanzie); e, per l’altro, da una concezione liberista e altrettanto elementare del mercato. Questo binomio sembra stringere e soffocare, come una tenaglia, le dinamiche fisiologiche dello Stato di diritto, alterandone i meccanismi decisionali, eludendone le garanzie, distorcendone il sistema di valori. E questo non solo sul piano nazionale, quello dei singoli stati, ma anche su quello globale.
Ma Ferrajoli traccia anche le linee di una possibile, anzi doverosa, inversione di rotta. A partire dalla valorizzazione di quella sfera dell’indisponibile costituita dalla garanzia dei diritti fondamentali e della pace, verso un garantismo costituzionale «allargato ai poteri extra e sovra-statali». La prospettiva è quella di un «costituzionalismo dei mercati e un costituzionalismo planetario». Ed è proprio la dimensione propositiva e progettuale il merito maggiore di questo libro, che unisce al rigore dell’analisi giuridica e teorica la spinta propulsiva della passione civile e politica, che rende fertile la prima e la indirizza verso un obiettivo di lungo periodo ma, non per questo, meno urgente. Ovvero l’espansione ultrastatuale del costituzionalismo democratico per garantire globalmente l’effettività dei diritti, altrimenti soltanto proclamati come fondamentali dalle carte internazionali.
Così, anche grazie a una certa nuova consapevolezza maturata con la pandemia, dell’interdipendenza di tutti i popoli della Terra, «idonea a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani», la politica potrà rifondarsi come politica interna del mondo: a dimostrazione di come siano reciprocamente funzionali non soltanto la democrazia e i diritti ma, anche, la politica (planetaria) e il diritto. Già si poteva osservare a proposito di Principia Iuris (Laterza 2007), anch’esso di Luigi Ferrajoli, che gli esempi della guerra, dell’emergenza, del corpo e della sovranità su di sé, dimostrano come il governo della vita non sia affidato né soltanto alla «corrente fredda» del diritto, né solo a quella «calda» della politica.
L’equilibrio su cui si regge la democrazia, a livello sia del singolo Stato che globale, si fonda su un gioco di continui rimandi tra l’una e l’altra corrente, perché i diritti fondamentali (tanto quelli sociali quanto quelli di libertà) siano resi effettivi. Del resto, ricorda Ferrajoli, «la democrazia non è soltanto una costruzione giuridica. È soprattutto una costruzione sociale e politica» e si articola nelle dimensioni politica, civile, liberale, sociale corrispondenti ad altrettante categorie di diritti costituzionalmente garantiti.
Il libro, di tale costruzione come è oggi e di come debba divenire, offre un’analisi lucida e a spettro amplissimo. Una diagnosi severa eppure appassionata che conferma, ancora una volta, come la debolezza, ma al tempo stesso la vitalità della democrazia – come scrisse Ahron Barak – sia il suo dover lottare, sempre, con una mano dietro la schiena. Infine, si sbaglierebbe a guardare a questo libro quasi fosse un testo, come usa dire, utopico. Con ciò che di astratto e velleitario il termine porta con sé. È un errore. Scriveva il grande matematico Bruno De Finetti: «Occorre pensare in termini di utopia, perché ritenere di poter affrontare efficacemente i problemi in maniera diversa è ridicola utopia». L’affermazione può essere intesa e come critica dell’angustia di molti approcci politico-teorici e come allusione al ruolo necessariamente profetico di chi parla avanti o parla prima o parla per conto nostro. L’utopia può essere certo una fuga verso l’irrazionale, ma può avere anche la forza di un giocare di anticipo lungimirante e concretissimo.
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