Dall’antica Grecia a oggi sono moltissime le donne che hanno dipinto, scolpito, decorato. Tanti dei loro nomi sono finiti – ingiustamente – nell’oblio.
È arrivato il momento di raccontare un’altra storia dell’arte.
In quest’estratto, le storie di tre delle – silenziose, coraggiose, libere – artiste raccontate da Costantino D’Orazio nel suo nuovo libro, Vite di artiste eccellenti.
Le visioni di Ildegarda
Nel Medioevo, raggiungere la veneranda età di ottant’anni è un traguardo notevole, soprattutto per una donna. Quando il 17 settembre del 1179 scompare, Ildegarda di Bingen ne ha ottantadue, vissuti intensamente almeno per la metà. Da circa vent’anni gira l’Europa raccontando in pubblico le sue visioni in cerimonie dove viene acclamata come una santa e venerata come una prescelta da Dio, con cui intrattiene un rapporto speciale. Tra un’adunata e l’altra, detta ad un suo fido scrivano meravigliose apparizioni, che raccoglierà in uno dei suoi libri più preziosi e controversi, lo Scivias, crasi di Scito vias, «Conosci le vie».
[…] Non è stato facile per Ildegarda ottenere il via libera per manifestare a tutti questa sua dote: solo all’età di sessant’anni ha potuto uscire allo scoperto. La monaca deve aggirare l’ostacolo costituito dal divieto imposto da san Paolo, che invita le donne a rispettare il silenzio nelle comunità cristiane e ad evitare di mettersi in una qualsiasi posizione di autorità. Ma lei non agisce per sua volontà, bensì si limita ad obbedire al Signore, che le impone di rivelare ciò che vede.
Donna sensibile e intelligente, capace di prevedere i rischi che una esposizione pubblica avrebbe potuto procurarle, per evitare l’accusa di eresia o, peggio, quella di stregoneria, decide prima di tutto di rivolgersi ad una delle anime più pure e rispettate del suo tempo: il monaco Bernardo di Chiaravalle. Gli scriverà confidando nella sua approvazione, che diventa il viatico per ottenere anche il placet di papa Eugenio III. Grazie a due uomini di prim’ordine, il segreto che l’ha tormentata per gran parte della sua vita diventa un privilegio. Intrattiene rapporti epistolari con dignitari di mezza Europa, che le chiedono consigli o le scrivono per il solo desiderio di vantarsene con i membri delle loro corti, è la consigliera di Federico Barbarossa, proprio nel frangente che si concluderà in uno scisma e l’elezione di due papi nel 1159, diventa badessa del suo convento e ne fonda uno nuovo a Bingen sul Reno, da dove irradia la sua sapienza. Dalla sua ha la convinzione di essere un semplice strumento nelle mani del Signore.
[…] Ildegarda non ha studiato il latino né ha ascoltato lezioni di precettori e teologi, ma riesce a costruire immagini folgoranti, che traduce in miniature straordinarie. Lo Scivias è un capolavoro di filosofia naturale, in cui ad illustrare le sue visioni contribuiscono dettagli estremamente realistici e frutto della sua conoscenza delle cose terrene.
Le sue visioni sono molto più concrete di quelle che coglieranno Matilde di Magdeburgo, Angela da Foligno, Caterina da Siena, o Brigida di Svezia. Sono immagini che non lasciano nulla al caso e non si sciolgono in formule nebulose, affidandosi alla sola emozione e all’ascesi impalpabile. Alcune pagine potrebbero illustrare facilmente un trattato di cosmogonia o un volume di botanica, tale è la consapevolezza che la guida nell’invenzione di figure limpide e sintetiche. Non c’è nulla di narrativo e aneddotico in queste pagine, dove il fulcro dell’immagine è quasi sempre occupato da un cerchio intorno al quale girano le componenti della visione. Alberi, venti, astri, animali d’ogni sorta in dialogo con esseri umani alle prese con le attività quotidiane: Ildegarda dimostra una consapevolezza fuori dal comune, che prende le distanze dagli atteggiamenti ascetici dell’Alto Medioevo. È il segnale che quel ruolo subalterno che la donna sembra assumere subito dopo l’epoca tardoantica, all’esordio del nuovo millennio, comincia a cedere il passo a favore di una sempre maggiore autonomia, intellettuale e sociale.
L’impegno civile di Tina Modotti (1896-1942)
Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini apprende i primi rudimenti della fotografia in Friuli, grazie allo zio Pietro. Nel suo studio fotografico, la piccola Tina impara l’arte dell’esposizione, dell’inquadratura fino alle tecniche dello sviluppo.
Riuscirà a mettere a frutto queste informazioni quando a diciassette anni affronterà da sola il viaggio verso gli Stati Uniti che la porterà a ricongiungersi con la famiglia, nel frattempo emigrata oltreoceano. Con i genitori si trasferisce a San Francisco, dove nel 1918 si sposa con il pittore Roubaix de l’Abrie Richey. I due decidono di vivere a Los Angeles per poter perseguire una carriera nel mondo del cinema. L’esordio della Modotti da attrice risale al 1920, con il film The Tiger’s Coat, il primo di tre film che interpreta. Il pubblico la acclama per il suo fascino esotico, ma Tina non gradisce quell’immagine di terribile seduttrice che l’industria di Hollywood le cuce addosso. Decide presto di mettere fine alla breve avventura cinematografica per dedicarsi alla fotografia, che approfondisce accanto al fotografo Edward Weston, di cui diventa modella e poi amante. Scoperto il tradimento, il marito scappa in Messico, dove muore di vaiolo prima che la Modotti riesca a raggiungerlo. Una volta lì, viene sopraffatta dal fascino del paese che diventerà la sua terza patria.
In tutta la sua vita, i dieci anni trascorsi senza mai uscire dal Messico sono l’esperienza più stanziale che abbia vissuto. […] Tina si tuffa in questa vivace scena culturale sfruttando la macchina fotografica per raccontare il contesto che la circonda, sempre divisa tra tensione estetica e impegno politico. Vive a stretto contatto con gli artisti più all’avanguardia. Ospita sulla terrazza di casa sua i festeggiamenti per il matrimonio di Diego e Frida, partecipa alle manifestazioni operaie, che documenta puntualmente con il suo obiettivo.
Sull’onda di ciò che ha appreso da Weston produce un cambio di passo nella sua ricerca: da immagini estremamente sfumate, dove prevale l’effetto pittorico, Tina passa alla registrazione della vita reale attraverso gli oggetti e i simboli della rivoluzione messicana. Compaiono cartucciere, falci, chitarre, murales, sombreros, ma anche mani che lavorano, donne con bambini, tessuti e fiori.
Sta maturando una passione politica sempre più profonda, che la conduce all’iscrizione al Partito comunista nel 1927, quando stringe una vivace relazione con Frida Kahlo e Diego Rivera, che la accolgono nel loro mondo fatto d’arte e impegno civile. Le sue posizioni radicali giungono a procurarle la qualifica di «persona non grata» da parte del regime fascista, che attacca spesso nei suoi articoli per il giornale «El Machete». La sua passione la costringerà a diventare cittadina del mondo, fotografa apolide in cerca di avventura.
I «selfie» di Francesca Woodman (1958-1981)
Chissà quali erano le reali aspettative di Francesca Woodman, quel giorno che si presentò a Giuseppe Casetti, proprietario della libreria romana Maldoror, mostrandogli le sue fotografie. Non aveva nemmeno vent’anni, ma aveva già accumulato una grande quantità di scatti che dimostravano una chiarezza di vedute piuttosto insolita per una persona così giovane. È giunta a Roma dagli Stati Uniti per frequentare i corsi che la Rhode Island School of Design mette a disposizione dei suoi studenti in Italia. L’esperienza romana costituirà il momento più intenso del suo percorso artistico. A Roma stringerà amicizia con altri artisti, come la pittrice Sabina Mirri o Giuseppe Gallo, frequenterà la Galleria Ugo Ferranti, una delle situazioni di proposta più vivaci della capitale, e condurrà la sua ricerca, tanto originale quanto fugace.
Apparentemente semplici e immediate, le sue fotografie celano uno studio profondo del rapporto tra il suo corpo e lo spazio circostante, che si tratti di un ambiente naturale o di un’architettura. Quando non buca l’obiettivo con lo sguardo, gli autoritratti della Woodman la vedono sfocare i contorni a causa del movimento.
Ha solo quattordici anni quando realizza il suo primo autoritratto, nel quale inserisce anche il filo che collega la macchina al pulsante dell’autoscatto, manifestando una sorprendente coscienza della narrazione del processo creativo. I capelli le coprono il viso, in un gioco tra visibile e nascosto che continuerà ad appassionarla in tutta la ricerca successiva.
Woodman si spoglia per trovare risposte sulla propria identità. Fotografa il proprio corpo con estrema naturalezza, documentando il suo mutamento negli anni, dall’adolescenza all’età adulta, ma spesso non lo rivela del tutto, lo tiene nascosto dietro mobili e oggetti, carta da parati, piante, specchi. Non c’è alcun intento di denuncia o presa di posizione politica in queste immagini: il corpo di Francesca esplora il rapporto tra pieni e vuoti nello spazio, quello tra presenza e assenza e la consapevolezza di sé, che nelle sue foto è soggetto e oggetto allo stesso tempo, autrice consapevole e oggetto esplorabile, fuori da qualsiasi simbolismo. Il suo uso del corpo verrà da molti considerato un atto femminista di affermazione della presenza individuale, ma si tratta di riletture postume, perché lei non sembra interessata ad alcuna affermazione politica. È a livello formale, invece, che il suo lavoro è perentorio e deciso, tanto da ispirare artiste come Cindy Sherman, Sophie Calle e Nan Goldin.
[…] Incredibilmente prolifica, Woodman, negli appena otto anni in cui lavora prima di togliersi la vita, produce oltre diecimila negativi e ottocento stampe, di cui ne risultano pubblicate ed esibite poco più di un centinaio. In una che compare nel suo libro d’artista è appuntato questo messaggio a Casetti, che sembra una icastica descrizione del modo in cui ha vissuto intensamente la sua breve esistenza:
Questa è l’ultima pagina di una storia. Io da piccola leggevo sempre al contrario e adesso sono un po’ così… contraria. In bocca al lupo. La tua amica del cuore.
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