«Un mattino, quando il giorno non è ancora cominciato né ha dispiegato il suo corso fatale, un dubbio si insinua in noi: la vita potrebbe essere tutt’altra rispetto a quella che stiamo vivendo. Dubbio tanto insidioso quanto vertiginoso, forse il più antico del mondo, sorto con il mondo stesso: la vita che viviamo potrebbe non essere davvero la vita. Potremmo non avere nemmeno cominciato a esplorarla. Potremmo non avere neppure iniziato a vivere veramente.»
In un tempo di smarrimento profondo come è quello che stiamo attraversando, con La vera vita François Jullien invita a tornare ai fondamentali della filosofia per porre le giuste domande su una questione radicale: qual è la vita degna di essere vissuta? È vita vera quella che portiamo avanti giorno dopo giorno? O esiste una dimensione autentica che ci sfugge? E la storia della filosofia occidentale, da Platone a Cartesio e Heidegger, ci fornisce gli strumenti più adatti per tentare una risposta?
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Tentare di vivere
Non è possibile apprendere ciò che, più ogni altra cosa, dovrebbe essere appreso: non si può “imparare a vivere”. Si può forse imparare qualsiasi cosa, ma non a vivere. Diciamo che l’apprendere si trova in una posizione stranamente instabile rispetto al “vivere”: in un rapporto di inadeguatezza originaria che si sa come correggere o superare. Ammesso che si possa apprendere a vivere, che cosa si tratterebbe di apprendere? Per lo meno questo “che cosa” non dovrebbe essere riduttivamente definito nei termini della morale conformistica (come quando si dice con tono di rimprovero: “bisognerebbe insegnargli a vivere…”). Se una volta, a scuola, c’erano le “lezioni pratiche”, ci sono anche quelle che talvolta chiamiamo “lezioni di vita”? Ogni fallimento ci insegna una lezione, almeno così si dice… la lezione di cui qui si tratta però non potrà che essere puntuale, essendo strettamente connessa ad un avvenimento preciso: occorre pertanto chiedersi fino a che punto essa possa venire appresa. Inoltre, una lezione siffatta può davvero iscriversi nella trama della vita a venire e assumerne la guida o quanto meno influire su di essa? Il rinnovamento metabolico della vita non porta assai presto questo genere di lezioni al naufragio dell’oblio? Del resto, se non si può imparare a vivere, bisognerà almeno imparare a morire, ripete la filosofia, gettando la spugna (ma alzando il tono), a partire da Platone. Eppure, che cosa significa “imparare” che si deve morire, se non cedere alla rassegnazione? Significa semplicemente, progressivamente, tacitamente, solitariamente, per “sovraccumulo” dei morti, “farsi” da parte, senza più commenti, se non tra sé e sé: l’apice (nella morte) del “c’est la vie” sottomesso che non si discute. Si può infatti “comprendere” come la morte sia parte integrante della vita, sia correlata alla vita pur opponendosi ad essa, sia al servizio del gigantesco inabissamento nel fiume del divenire. Ma in che modo si può essere educati a questo, ci si può far convincere di questa verità che già si conosce? “Credo a questa verità senza arrendermi ad essa. Sempre meno. Io non ho imparato ad accettarla, la morte” (afferma Derrida nel suo ultimo scritto, Apprendre à vivre enfin, a titolo di sfida, forse per evitare la smentita).
Se l’imparare ha così poca presa sul vivere è senz’altro perché la vita non può essere oggetto di apprendimento – a dispetto di tutti i cosiddetti “romanzi di formazione”. I romanzi di formazione sono sempre solo delle ricostruzioni a posteriori, quando la vita ha già fatto il suo corso, se ne fa il bilancio e la si rivive nel ricordo. Ebbene, grazie a quale miracolo questa descrizione retrospettiva potrebbe capovolgersi – riconfigurarsi – in capacità prospettica? Se l’apprendere ha così poca presa sul vivere è perché il vivere, di sicuro, non richiede alcuna applicazione. La vita non ammette il rapporto teoria/prassi, dato che non ci si può preparare a vivere. In alcun modo ci si può apprestare a vivere, poiché, nel vivere, si è già da sempre implicati: abbiamo già incominciato a vivere, prima ancora di poterci pensare sopra; non c’è distanziamento rispetto ad esso. Sarebbe rassicurante, ma illusorio, credere che si possa dapprima apprendere e poi vivere. E anche se potessimo farlo un minimo, il ritardo è strutturale: “il tempo di imparare a vivere…” – il tempo di imparare a vivere grazie alle esperienze fatte, alle situazioni negative affrontate – “… è già troppo tardi” per approfittarne. Se questo verso di Aragon è diventato un adagio è perché in esso viene formulata e vi viene sancita quella discordanza temporale che è impossibile ridurre. Di modo che, se si può imparare qualcosa dalla vita, si potrà tutt’al più dedurlo da essa; lo si apprenderà solo indirettamente, tramite indizi o inferenze. Non tanto a partire da sé (si è troppo implicati nell’immediatezza del vivere per far questo), ma da ciò che si vede negli altri, con una certa distanza da sé. Non tanto a partire dalla vita stessa e retrospettivamente, ma a partire dalla morte che arriva, che si profila in seno alla vita stessa. Gettando progressivamente la propria ombra, essa vi produce, sommessamente, un alleggerimento, un disinvestimento, un disimpegno, da cui scaturisce una sorta di “lucidità”, anziché degli insegnamenti. Al punto che si potrà vivere, iniziare a vivere in modo autentico, solo a condizione di disimparare ciò che si crede di aver appreso dalla vita e che invece era solo pseudo-vita. E malgrado ciò “tutta una vita non basta per disimparare ciò che sottomesso, ingenuo, ti sei fatto mettere in testa…” (Henri Michaux, Trave angolare).
Non possiamo nasconderci, una volta di più, il carattere eminentemente paradossale del vivere, in virtù della de-coincidenza che esso implica. Bisognerà approfondire ulteriormente l’assoluta singolarità di questo verbo, al fine di sganciarlo dalla logica dell’adeguazione che la civiltà europea ci ha imposto: la logica dell’“essere”, che esclude il paradosso e la contraddizione. E di conseguenza per non rinunciare del tutto alla razionalità e per non doversi per forza “convertire” al fine di svelare l’irrazionalità del vivere stesso (superare la loro contraddizione) – conversione metafisica o religiosa, all’Essere assoluto o a Dio, intrapresa da Platone, la sola che può dunque salvare il vivere dall’“assurdo”. Ma il vivere in sé è contradditorio, perché sfugge per principio alla logica dell’Essere e del possesso. La mia vita è quanto ho di più proprio, in effetti, anche se posso esserne espropriato in ogni momento. La sento in me stesso come ciò che vi è di più intimo in me stesso; per me, essa è ciò che mi appartiene di più e anche ciò che soltanto può appartenermi in senso più proprio. Eppure, allo stesso tempo, non mi appartiene, da cui deriva la famosa formula di compromesso “dare in dono”, tanto spesso evocata: “Se Dio mi ha dato in dono la vita…”. Soprattutto, il fatto di vivere è per me la condizione di tutte le condizioni, la pre-condizione, addirittura il presupposto di tutti i presupposti, senza un al di qua al quale poterla ricondurre. Ora, allo stesso tempo, il vivere rappresenta l’aspirazione di tutte le mie aspirazioni, senza alcun al di là possibile: posso solo desiderare, o sognare di vivere, e questo anche se il vivere mi è comunque già dato. Il vivere è a un tempo la sola fonte alla quale possiamo attingere e il solo orizzonte che possiamo progettare. Posso solo avvalermi della capacità di vivere che è in me, ma per aderire a questa stessa capacità: vivere, insomma!
A voler interrogare con maggiore precisione, nel suo fondamento, sul piano lessicale, il significato della parola “vivere”, si può notare come questo verbo oscilli, in effetti, tra un senso primario, elementare (“essere in vita”), e, al di là delle sue diverse accezioni modali, un senso più ampio e pieno, ancora implicito. Nel dizionario francese Le Robert: “realizzare tutte le possibilità della vita”. In Hugo: “coloro che vivono sono quelli che lottano”. Ora, quest’ultimo significato, sorprendentemente, è segnato ancora da una certa vaghezza. Eppure, esso non è forse, al di là di tutti i suoi possibili utilizzi, il significato decisivo? Di tutti i significati concepibili, e persino di tutti i verbi immaginabili, quello che bisognerebbe pensare nel modo più rigoroso possibile? Più stranamente ancora, i dizionari di filosofia non riportano l’item “vivere”: di che cosa è il sintomo una tale circostanza? È proprio questo scarto infatti che bisognerebbe esplorare più di ogni altra cosa: tra il vivere inteso nel senso minimale, condizionale, di essere in vita al vivere inteso in senso ottimale, ottativo, come aspirazione a vivere, e cioè a promuovere in sé – ma davvero solo in sé? – la vita. Proprio in questo scarto, infatti, sono contenute con ogni evidenza tutte le attese e le speranze (il celebre “che cosa ho il diritto di sperare?” kantiano, ma liberato dalla sua impostazione metafisica). Il primo significato è quello restrittivo di vitale, il secondo quello esteso di vivente. Tale distinzione si ritrova per la prima volta in Giovanni (psyché, ψυχή; zoé, ζωή) e non bisogna stupirsene, visto che – fino ad ora – il vivere è stato affrontato dal discorso religioso. Il primo significato, quello di “essere in vita”, ha come suo opposto, si sa, quello di “morte”. Ma quale sarebbe l’opposto del “vivente”? All’opposto del vivente, che da quel momento sarà inteso solo nel senso di “sovrabbondante” di vita (afferma Giovanni), daremo il nome di “non-vita”. Mentre la morte succede alla vita del vitale portandola a compimento, la non-vita rappresenta la morte intrinseca al vivente, di modo che, benché siamo ancora in vita, non viviamo “veramente”, ovvero esistiamo in una vita apparente. Vi è tuttavia una differenza tra la “vita” e il “vivere”. La vita (in quanto sostantivo) si fa mettere a distanza dal pensiero; si lascia astrarre e trasporre, si presta ad assumere un senso figurato: vita letteraria, vita delle idee, vita delle stelle… Per quanto riguarda il vivere (in quanto verbo), invece, nessuna forma di esteriorità è possibile, il suo uso è assoluto. Ora, nella “vera vita”, la distanza tra la vita e il vivere è colmata: la “vera vita” consiste proprio nel toglierla. In altre parole, la “vera vita” equivale a “vivere”: la vita corrisponde al vivere quando si tratta della “vera vita”. E come la morte, per opposizione, fa emergere la vita, nel senso elementare di essere in vita, come si è già detto (Orazio: in umbra mortis…), così la non-vita della vita apparente, per contrasto, mette in risalto ciò in cui consiste la “vera vita”. Per questo motivo, il concetto di vera vita risulta decisivo per pensare, non una qualsiasi morale, ma un’etica dell’esistenza. Poiché la vera vita, in quanto tale, non ha un’essenza, non possiede in sé un contenuto di verità (su quale criterio di adeguatezza potrebbe fare affidamento, o anche quale rivelazione potrebbe autorizzarla?), la “vera vita” si definisce solo negativamente, attraverso la sua resistenza alla non-vita, alla pseudo-vita in cui la vita cede alla rassegnazione, sprofonda, si aliena o si reifica. A tale riguardo, il concetto di vera vita mi sembra più opportuno rispetto a quello di vita “degna dell’uomo” o “degna di essere vissuta”, meschen- o lebens- würdig, cui persino Adorno e Derrida fanno ancora ricorso, forse per il loro valore indicativo. La formula “degno di” si basa infatti sempre su una valutazione, di cui non è possibile individuare né il criterio né il fondamento; al contrario, il concetto di “vera vita” – nel rigore intrinseco con cui è negazione, o meglio negazione della negazione: la vera vita è negazione della non-vita – è in se stesso dotato di una consistenza e di una giustificazione sufficienti, da cui trae la sua legittimità di principio.
Pertanto, non è possibile imparare positivamente a vivere perché vivere è anzitutto questo: continuare a resistere alla non-vita che si infiltra e si intromette perennemente e persino originariamente nella vita, bloccandola e opprimendola; perché, per intendere l’in-audito della vera vita, bisogna dapprima distruggere i punti di riferimento codificati, assimilati, per i quali tutto è già “udito”, o dell’ordine del “c’est la vie…”. Imparare a vivere significa rientrare da subito all’interno di categorie stabilite, puntare su attese orientate verso ciò che già conosciamo. “Tentare” di vivere, invece, è più corretto. Tentare, in effetti, significa forzare; provare, non appena si scorge una difficoltà, a trovare una possibile via d’uscita. Questo sfasamento è importante. Ogni tentativo infatti riconosce da principio che la difficoltà da affrontare non è né secondaria né derivata – allo stesso modo in cui imparare a vivere non significa altro che imparare come vivere. In questo caso, la difficoltà è riconosciuta nel suo essere intrinseca alla vita stessa, giacché il vivere, contraddittorio com’è, tende a smentirsi da solo e a sprofondare nella non-vita, in una vita apparente o pseudo-vita. Perciò “tentare” ha un valore strategico – è una strategia etica – e non morale: occorre “tentare” di eliminare la non-vita che falsifica la vita, allo stesso modo in cui si elimina un avversario.
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