«Abbiamo cercato di considerare Hitler un condensato, o se si preferisce come il catalizzatore di forze che si sprigionano dalla vertiginosa mutazione di quei sistemi economici, sociali e cognitivi che costituiscono l’Europa – in particolare l’Europa di mezzo – tra la fine dell’Ottocento e la Grande Guerra e che hanno trasformato il continente, le sue modalità di ‘gestire’ le masse umane, di nutrirle, guidarle, controllarle e di pensare la dimensione politica. Ciò che si delinea è quindi la storia di un uomo, di un destino, ma anche, per suo tramite, di un oggetto che abbracciò l’Europa e che si autodenominò ‘Terzo Reich’. Nel destino di quest’uomo si mescolano infatti militantismo frenetico, speranza imperiale, conquista dell’Europa, guerra ripugnante, inaudito genocidio.»
I fallimenti personali e i successi politici, le folli ossessioni e il freddo pragmatismo del più temuto dittatore del Ventesimo secolo: un estratto di Hitler, il libro di Johann Chapoutot e Christian Ingrao.
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Le conseguenze della guerra
Hitler non amava l’Austria, ma ha amato la guerra. La madre e la guerra: potrebbe essere questo un buon riassunto dei suoi anni di gioventù.
«La guerra è il padre di tutte le cose», dirà a più riprese negli anni Venti e Trenta citando Eraclito; la guerra è la matrice della sua identità. In essa ha vissuto la sua iniziazione alla vita, all’età adulta, la sua socializzazione, e in essa si è rivelato, in tutti i sensi del termine. L’arruolamento dell’agosto 1914 testimonia il suo impegno politico e personale per la causa pangermanica. Il fatto di aver disertato dall’esercito austro-ungarico nel 1913-1914 non era segno di repulsione verso la cosa militare o la guerra, ma di una radicale ostilità verso l’Austria-Ungheria. Non appena si tratta di battersi per la Baviera e per la Germania si arruola volontariamente nel regio esercito, nel 16° reggimento di fanteria della riserva che è diventato il reggimento List, dal nome del colonnello che lo comandava. Hitler ne ha fatto esperienza: l’ufficiale è importante per condurre il gruppo primario di battaglia almeno alla sopravvivenza, se non alla vittoria. Questo ufficiale, un “capo”, si chiama in tedesco Führer, un termine generico che significa “colui che conduce” e all’occorrenza colui che guida, che porta al combattimento e forse alla vittoria.
Da questa esperienza della guerra e del capo, Hitler tira fuori un’idea semplice: l’unico gruppo umano che funzioni e che valga non è costituito dalle monarchie – come la detestata monarchia austro-ungarica –, che nel 1918 e nel 1919 scompaiono, perché dovevano scomparire (Hitler è un darwinista sociale: secondo lui ciò che deve morire muore e ciò che muore doveva morire). E non è costituito neppure dalle democrazie, malgrado la loro apparente vittoria nel 1918-1919, perché esse funzionano sul principio contro natura dell’uguaglianza, e ciò contraddice agli occhi di un razzista e di un socialdarwinista come lui la naturale ineguaglianza. Peraltro le democrazie sono gli odiati nemici occidentali: la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, che hanno sconfitto gli imperi centrali. Quello che permette alla massa di fare razza e di restare unita è la comunità combattente, che è l’unione dietro un capo. Questa una delle convinzioni che trae dalla propria esperienza, una sorta di filosofia politica elaborata sul filo delle trincee. Hitler ha l’impressione di aver vissuto un’avventura in cui si è fatto onore per il proprio coraggio e per il semplice fatto di essere sopravvissuto: si tratta di una vittoria personale in quanto, in quattro anni, è stato ferito ma non è morto, cosa che statisticamente rappresenta una sorta di impresa. Ne trae una fiducia rasserenata e rinsaldata nella propria esistenza e nella propria missione: in mezzo a tanti morti, cadaveri e devastazioni, è riuscito a sopravvivere nel gruppo. L’uomo che inveiva e urlava, il solitario scorbutico e scontroso, quello che stordiva tutti con le sue invettive, ha continuato a esaurire gli altri nelle trincee ma ha l’impressione di aver vissuto una vita di comunità di battaglie e di destino. Una comunità illusoria, se si presta fede alle testimonianze dei suoi compagni di reggimento, perché Hitler non è un uomo che lega con gli altri. Ha amato a tal punto le regole della vita militare, dopo aver vissuto in una libertà spensierata e sregolata, da imporre agli altri le proprie regole di pulizia e di puntualità. Il suo grado di semplice caporale gli permette di prendersela e di moltiplicare i battibecchi con i suoi compagni di trincea, di pagliericcio e di battaglia, che certamente non gliene sono grati. Una comunità illusoria ma ai suoi occhi reale, questa Frontgemeinschaft (“comunità del fronte”), questa Kampfgemeinschaft (“comunità di lotta”), che egli contrappone alla Gesellschaft (“società”), la società alla francese, democratica e rivoluzionaria, a cui si aderisce con un atto di volontà. Per Hitler non si aderisce alla comunità mediante la volontà, ma perché si è dentro di essa e per essa si combatte. Anche qui si tratta di un’idea di filosofia politica primaria che trae dall’esperienza di guerra.
Hitler ha amato la guerra, il sentirsi utile, farsi onore, sopravvivere, combattere per il suo sogno pangermanico e per la Germania. Vive un trauma reale e profondo quando tutto finisce, nel novembre 1918. Apprende la notizia incomprensibile e intollerabile della fine delle ostilità, della sconfitta della Germania e del suo alleato austro-ungarico all’ospedale di Pasewalk, in Pomerania, lontano dal fronte, dove viene curato per la lesione dovuta al gas che lo ha accecato un mese prima. Una notizia incomprensibile, secondo l’analisi di Hitler, perché le sue percezioni sono organizzate secondo gli schemi dello Hurrahpatriotismus. Questo patriottismo ultrasciovinista, estatico, entusiasta e imbecille che aveva segnato gli anni 30 del Reich guglielmino ha dettato nei quattro anni di guerra i comunicati magniloquenti e le rodomontate dello stato maggiore tedesco che annunciavano la riconquista del forte di Douaumont per far dimenticare che era stato in precedenza perduto, o che promettevano la vittoria per domani o dopodomani. Questo lavaggio del cervello attuato con destrezza non ha preparato alla sconfitta né la popolazione tedesca, né i milioni di combattenti. […] Che cosa succede in Germania nell’autunno del 1918? A causa della stanchezza per la guerra, dei lutti, dello spossamento dei corpi e degli animi, della carestia e delle malattie provocate dal blocco economico messo in atto nei confronti degli imperi centrali, scoppia una rivoluzione: ammutinamenti e scioperi si propagano un po’ ovunque. Lo stato maggiore non ha più il controllo sulle truppe e sa che in ogni caso non sarebbe più in grado di spezzare il fronte occidentale, anche se il fronte orientale si è sbloccato grazie alla vittoria contro la Russia e alla pace con il nuovo potere bolscevico, siglata con il trattato di Brest-Litovsk (3 marzo 1918). È finita, ma la capitolazione è fuori discussione: sarebbe una decisione militare che metterebbe agli atti l’incapacità di uscire dalla morsa. La responsabilità della sconfitta deve ricadere sulle spalle dei civili. […] Non si dà grande rilevanza agli ammutinamenti ma si insiste molto sugli scioperi, i socialdemocratici, i sindacati, e, con una convinzione che diventa sempre maggiore, i capi dell’esercito adducono come pretesto una pugnalata alla schiena. Il soldato si trova davanti al nemico e regge il fronte, dicono, ma viene vigliaccamente pugnalato dall’anti-Germania, dai sindacati, dalla sinistra, da tutti quei socialdemocratici, comunisti, ebrei, elementi antinazionali che non possono sostenere la guerra e vogliono la sconfitta della Germania. […]
Che cosa succede a Hitler? La sconfitta gli risulta incomprensibile, e non capisce nulla del mondo civile al quale è restituito.
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