«Solo in tempi recenti si è cominciato a denunciare in modo sistematico il carattere etnocentrico e sessista di molta filosofia tradizionale: dietro l’apparente neutralità, epistemologia, etica e filosofia politica hanno più o meno consapevolmente modellato le loro teorie su soggetti maschi, bianchi, eterosessuali, occidentali, di ceto medio-alto e privi di disabilità.»
Commenti sessisti, insulti razzisti, attacchi omofobici: le parole possono essere scagliate contro gli altri per deriderli, ferirli, umiliarli, e ancor più per rinchiuderli in ruoli e posizioni di inferiorità. Le parole possono essere potenti strumenti di oppressione, pesanti come pietre.
Chi parla, soprattutto se da posizioni di autorità o in contesti istituzionali, ha una pesante responsabilità: ciò che diciamo cambia i limiti di ciò che può essere detto, sposta un po’ più in là i confini di ciò che viene considerato normale, assodato, legittimo. E cambiare i limiti di ciò che può essere detto cambia allo stesso tempo i limiti di ciò che può essere fatto: ci abituiamo a una mancanza di attenzione e vigilanza sulle parole, che rende più accettabile la mancanza di vigilanza sulle azioni. Il silenzio, l’indifferenza o la superficialità con cui spesso accogliamo gli usi offensivi di altri corrono il rischio di trasformarsi in consenso, approvazione, legittimazione – e muta noi in complici e conniventi.
Ospite di Giorgio Zanchini a Quante storie, in questo video Claudia Bianchi racconta il suo Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio in dialogo con Bruno Mastroianni.
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