“Le smanie per la villeggiatura”, la nuova rubrica estiva della pagina Facebook Lezioni di Storia Laterza, prosegue con un contributo di Alessandro Marzo Magno.
Domenica dopo domenica, la rubrica accompagnerà i lettori alla scoperta del significato delle ‘vacanze’ e dei viaggi in diverse epoche e contesti storici, dall’antica Roma alla Germania della DDR, dai Greci dell’Odissea al Medioevo, fino all’avvento del turismo di massa, con gli scritti di Simona Colarizi, Alberto Mario Banti, Laura Pepe, Massimiliano Papini, Maria Giuseppina Muzzarelli, Alessandro Marzo Magno e Gianluca Falanga.
> Prossimo appuntamento: domenica 22 agosto,
con Gianluca Falanga e le Cartoline dalla DDR. In vacanza nel socialismo reale.Già online i contributi di Laura Pepe, Massimiliano Papini e Maria Giuseppina Muzzarelli.
Smanie e follie. La villeggiatura da Goldoni a Byron
Alessandro Marzo Magno
La villa non nasce come luogo per villeggiare. Sembra un paradosso, invece è letteralmente così. Il sistema delle ville venete, che si sviluppa a partire dalla seconda metà del Cinquecento, fino a dar vita a una sorta di Venezia di terraferma, con tanto di rii (fiumi e canali) che collegano gli edifici tra loro e con la Dominante, è in realtà un sistema economico.
La villa viene concepita come posto dove guadagnare: sta al centro di un’azienda – agricola, ma talvolta anche preindustriale – dove si sviluppano varie attività: la coltivazione, l’allevamento, la vinificazione, l’oleificazione, la molitura in presenza di corsi d’acqua in grado di supportarla. La villa vera e propria è la casa dominicale dove el paròn dirige e controlla le attività economiche. Non è un caso che le ville palladiane siano spesso costruite in materiali poveri, magari camuffati in modo da sembrare ricchi (colonne di mattoni intonacate e dipinte a finto marmo), che non manchino mai le cantine e i granai, che ci sia sempre un’aia dove essiccare i cereali (se oggi non la si vede più è perché nell’Ottocento l’hanno trasformata in giardino) e attorno ci sono i vari annessi dagli usi pratici: le barchesse per tenere i materiali, le abitazioni dei contadini, le peschiere che oggi chiamiamo impropriamente fontane.
Ciò che differenzia la villa veneta dalle altre ville aristocratiche, per esempio lombarde, toscane, o campane, è la mancanza di un signore di riferimento. Venezia è una repubblica, non c’è un principe attorno al quale orbitare e di conseguenza viene meno la necessità di costruire la propria residenza estiva non troppo lontano dalla sua, come può accadere nel caso dei Borbone o dei Medici. Naturalmente non erano soltanto i patrizi veneziani a costruirsi le ville in terraferma, ma anche i nobili delle altre città facevano lo stesso, oggi ne sono catalogate 3803 nel Veneto, e 435 nel Friuli Venezia Giulia.
Le cose cambiano tra Sei e Settecento, quando nelle ville si comincia anche a villeggiare e il trasferimento estivo diventa un vero e proprio dovere sociale, così ben descritto da Carlo Goldoni nella Trilogia della villeggiatura. La stagione del soggiorno in campagna inizia a maggio e finisce in novembre, per San Martino, quando si rientra in città in corrispondenza dei primi ghiacci. Non è un caso che le ville, residenze estive, siano prive di caminetti, salvo una stanza o due: non era previsto che fossero abitate d’inverno e quindi non era necessario riscaldarle. Durante i mesi estivi avveniva un vero e proprio trasferimento delle classi sociali più elevate verso le residenze di campagna, con una parallela trasmigrazione dei modi di vivere cittadini.
La musica, per esempio, e infatti la villa Contarini di Piazzola sul Brenta (Padova), possiede una sala da musica unica, voluta dalla ricchezza, potenza (e megalomania) di Marco Contarini del ramo degli Scrigni. Dove scrigni sta per i forzieri pieni d’oro e d’argento a disposizione di questa famiglia di ricchissimi banchieri.
La sala da musica, a forma di chitarra, è una specie di miracolo dell’acustica, un esempio unico al mondo di Dolby Surround prima che il Dolby Surround fosse inventato. Costruita interamente in legno, ospitava i musicisti sulle balaustrate, da lì il suono saliva lungo le pareti, veniva riflesso dal controsoffitto e ridiscendeva attraverso un’apertura ottagonale nel pavimento al piano inferiore, dove si trovava l’auditorium e stavano gli ospiti. Questi ultimi non vedevano i musicisti, ma ne ascoltavano la musica. Anche ai nostri giorni vi si tengono concerti cameristici. Attenzione, però, che questa non è la sala da ballo: si danzava nell’altra ala della villa, al suono di una diversa orchestra.
Marco Contarini non si è limitato a costruire una sala da musica unica nel suo genere, ma aveva anche organizzato una scuola di musica per fanciulle, il “Loco delle vergini”, a imitazione dei celebri orfanotrofi di Venezia – Pietà, Derelitti, Incurabili e Mendicanti. Le ragazze di Piazzola alla fine diventavano così brave che arrivavano a cantare anche opere, a differenza delle orfane che facevano invece vita claustrale e potevano cantare solo musica sacra. L’Incoronazione di Dario, del bassanese Domenico Freschi, è stata eseguita per la prima volta a Venezia nel 1684, ma subito dopo a Piazzola, dove l’opera è stata ristrumentata perché le ragazze suonavano strumenti speciali e desueti, per esempio avevano una dozzina di viole da gamba, altrove abbandonate ormai da decenni. Almeno cinque opere di Freschi sono state rappresentate per la prima volta a villa Contarini: era anche questo un modo per sorprendere e per affermare il ruolo sociale del padrone di casa.
«L’innocente divertimento della campagna è divenuto a’ dì nostri una passione, una manìa, un disordine» in questo modo Carlo Goldoni introduce la Trilogia della villeggiatura, scritta a villa Widmann di Bagnoli, nel padovano. «Ho concepita nel medesimo tempo l’idea di tre commedie consecutive. La prima intitolata: Le Smanie per la Villeggiatura; la seconda: Le Avventure della Villeggiatura; la terza: Il Ritorno dalla Villeggiatura. Nella prima si vedono i pazzi preparativi; nella seconda la folle condotta; nella terza le conseguenze dolorose che ne provengono» precisa Goldoni e la prima rappresentazione data al 1761.
«La villeggiatura si deve fare, e ha da essere da par nostro, grandiosa secondo il solito, e colla solita proprietà» fa dire Goldoni a Vittoria, una delle protagoniste, e si tratta di una sottolineatura dello spirito con cui i soggiorni in villa erano considerati. Le commedie ruotano attorno a due famiglie, una aristocratica e spiantata, e una borghese e arricchita, una situazione niente affatto inusuale nella Venezia settecentesca.
Villa Widmann è dotata di un teatro, e anche questo la dice lunga su come fossero attrezzati questi edifici. Peccato che il teatro della villa di Bagnoli sia andato distrutto in un incendio a fine Settecento: Carlo Goldoni vi aveva messo in scena propri lavori nel 1755 e nel 1757, davanti a un pubblico molto folto. Ne scrive nelle Memorie: «Vado a trascorrere il resto dell’estate a Bagnoli, terra bellissima nel distretto di Padova, appartenente al conte Widmann, nobile veneziano e feudatario negli stati imperiali. Questo signore, colto e generoso, conduceva sempre con sé una numerosa e scelta compagnia; con questa si recitava la commedia, la recitava lui stesso. […] Io fornivo dei brevi canovacci, ma non avevo mai osato interpretarli. Alcune dame della compagnia mi obbligarono ad assumermi un ruolo di amoroso, le accontentai, ed ebbero così motivo per ridere di me e divertirsi a mie spese. Ne ero seccato; il giorno dopo abbozzai una commediola intitolata La fiera; e invece di un solo ruolo ne interpretai quattro: un ciarlatano, un giocoliere, un direttore di teatro e un venditore di canzoni. […] Lo scherzo piacque ed eccomi vendicato a modo mio. Alla fine del mese di settembre, lasciata la compagnia di Bagnoli, ritornai a casa per assistere all’apertura del mio teatro».
Un diciassettenne Giacomo Casanova nel 1742 va in villeggiatura dal grande nemico di Goldoni, ovvero Carlo Gozzi nella villa a Visinale di Pasiano (Pordenone). Gli viene assegnata come cameriera personale Lucia, una contadinella quattordicenne e, per quanto ci possa apparire assurdo, è lei a voler sedurre il giovanissimo Casanova, mentre Giacomo incredibilmente resiste. Gli ormoni, però, fanno il loro lavoro e quindi il ragazzo deve dare sfogo alla passione pensando a Lucia e arrangiandosi come fanno tutti gli studentelli di questo mondo. «Non potendone più, e diventando ogni giorno più innamorato, proprio a causa del rimedio di solito usato dagli studenti che sul momento esaurisce e disarma l’energia amorosa, ma che irrita la natura e l’eccita a vendicarsi col raddoppiare i desideri del tiranno che l’ha domata, stetti tutta la notte col fantasma di Lucia davanti alla mente» scriverà anni più tardi nella Storia della mia vita. La ragazza, già perfettamente formata, per una decina di giorni gli porta il caffè in camiciola e gonna al ginocchio, poi si siede vicino, sul letto, e si ferma a parlare. Giacomo resiste, come detto, e alla fine non ne può più e dice alla giovane che non la vuol più vedere. La reazione di lei però è maliziosetta assai, anche in questo caso non si capisce se per beata ingenuità o per perfido calcolo. Comunque, «alla fine del mio discorso, ella si asciugò gli occhi col davanti della camicia senza riflettere che con questo atto pietoso spiegava ai miei occhi due scogli fatti per far naufragare il più esperto nocchiero»: lui la respinge, lei gli mostra il seno. A questo punto anche Lucia afferma di essere innamorata e pronta a cedergli. Ma Giacomo non ci sta: «Con tutto ciò, rispettai la sua verginità, proprio per il fatto che lei non mi opponeva la minima resistenza. Ero un vizioso cosiffatto». La sua eccitazione sta nel non darsi a chi gli si voleva dare. Comunque vanno avanti così ancora per un po’: «Passai il resto del settembre in campagna e per undici notti di seguito mi trovai possessore di Lucia che, fidandosi del sonno di sua madre, venne e trascorrerle tra le mie braccia. Ciò che ci rendeva insaziabili era un’astinenza che Lucia cercava in tutti i modi di farmi smettere». La ragazza resta tuttavia turbata dai continui e ripetuti rifiuti di Casanova: lui le ha incendiato la carne e ora si rifiuta di spegnere il fuoco.
Anche Lord Byron soggiorna in villa, da metà giugno 1817, a La Mira (oggi, più semplicemente Mira), una decina di chilometri dalla foce del Brenta. Il poeta affitta villa Foscarini, sulla riva sinistra del fiume. È un grande edificio palladiano, un ex convento, sulla strada per Padova. Byron racconta a John Cam Hobhouse: «Più spaziosa che bella, e nemmeno tanto spaziosa, come tutte le vecchie abitazioni marittime venete è troppo vicina alla strada. Sembra che ritengano di non aver mai abbastanza polvere per compensare la lunga immersione». L’ha probabilmente scelta perché la ventiduenne Marianna Segati, la fidanzata del momento, naturalmente sposata, ha amici a Mira con i quali, per rispettare le convenienze, finge di alloggiare. Quella vita si addice a Byron. Nuota nell’Adriatico di pomeriggio, cavalca lungo la riva del fiume verso il tramonto, e scrive fino a tarda notte. Per l’inizio di luglio ha scritto trenta strofe del quarto e ultimo canto del Childe, con i celebri versi:
I stood in Venice, on the Bridge of Sighs
A palace and a prison on each hand.
Lungo la Riviera del Brenta avviene l’incontro con quello che sarà l’altro grande amore veneziano di Byron: Margherita Cogni, soprannominata la “Fornarina” in quanto moglie di un fornaio tubercolotico, Andrea Magnarotto (forse si tratta di un riferimento al quadro in cui Raffaello ha ritratto la propria amante con il medesimo soprannome, visto qualche tempo prima a Firenze).
Il poeta, assieme all’amico Hobhouse, bighellona a cavallo quando una sera, in mezzo a un gruppo di contadini, nota due ragazze, «le più carine che avessimo visto da tempo»: in testa portano il fazziolo, ovvero il fazzolettone bianco che scende fino ai fianchi, tipico delle popolane. Nelle campagne venete c’è grande miseria e lui si è guadagnato la reputazione di generoso. Una delle due ragazze si fa avanti e dice, in veneziano: «Perché aiutate altri e non pensate anche a noi?». Byron si volta sulla sella e le risponde: «Cara tu sei troppo bella e troppo giovane per aver bisogno del mio soccorso». Ma lei è prontissima a ribattere: «Se vedeste la mia capanna e il mio cibo non direste così». Il tutto ha un tono scherzoso, vagamente da commedia goldoniana, ma ciò non impedisce che si fissi un appuntamento per qualche sera dopo. Le ragazze arrivano con delle accompagnatrici, ma la più giovane, ovvero la ragazza destinata a Hobhouse, viene colta dal panico perché non è sposata e «qui non si fa nulla se non si tratta di adulterio», precisa Byron. Margherita invece resta: lei è di tutt’altra pasta ed è sposata, quindi – venezianamente – una donna libera e infatti presto lascia il marito a Mira e si trasferisce nel palazzo sul Canal Grande dove Byron vive, diventando di fatto la padrona di casa.
La villeggiatura in villa viene via via abbandonata nel corso dell’Ottocento, a mano a mano che la società borghese si sostituisce a quella aristocratica. Non ci si può permettere di stare sei mesi lontano dalla città e cominciano ad affermarsi nuovi modi di trascorrere le vacanze: in montagna, per esempio, e sul finire del XIX secolo di sviluppa l’asburgica Cortina d’Ampezzo, e al mare. Nel 1872 viene fondata la Società civile bagni Lido che dà il via allo sviluppo di quella che diventerà una delle più famose spiagge d’Europa.