Maschi bianchi arrabbiati

Un estratto da “Il vento conservatore”, di Giorgia Serughetti

Dal secondo dopoguerra si sono ottenuti risultati straordinari a difesa dell’inclusione democratica. Oggi c’è un vento conservatore che spira in direzione contraria, la cui origine è da ricercare in altri processi che il Novecento ha innescato: dalla deregolamentazione dell’economia all’ideologia dell’individualismo competitivo.

Questo libro propone una lettura originale che mette insieme la crisi dell’ordine neoliberale, evidenziata anche dalla catastrofe planetaria della pandemia, e l’avanzata di progetti politici di segno antiegualitario e autoritario. I leader della destra radicale populista devono il loro successo alla promessa di proteggere le ‘maggioranze silenziose’ dei loro paesi dai sentimenti di insicurezza e spaesamento indotti dalle dinamiche dell’economia. Non offrono però, in risposta, ricette redistributive contro la crescita delle diseguaglianze. Piuttosto, fanno appello all’identità nazionale, etnica, religiosa o sessuale, ergendosi a difesa dei ‘nativi’ contro gli stranieri e della famiglia ‘tradizionale’ contro nuovi modelli di vita affettiva. Le destre radicali minacciano di acquisire nuova forza nell’incertezza generata dalla crisi pandemica e la risposta delle forze progressiste potrà passare solo attraverso una rinnovata lotta contro ogni forma di diseguaglianza.

Un estratto da Il vento conservatore, il nuovo libro di Giorgia Serughetti.

> Ne discuteremo con l’autrice e con l’editor Lia Di Trapani martedì 16 novembre alle 19.00, in un incontro su Zoom riservato agli iscritti al Club Laterza. Sarà possibile registrarsi a partire dal 4 novembre.

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Maschi bianchi arrabbiati

Considerato il forte carattere di genere della reazione conservatrice, una sua radice importante è da individuare nel vittimismo maschile e nel revanchismo che ne consegue. Le spinte nazional-conservatrici esprimono infatti anche l’esigenza da parte di alcuni uomini, principalmente bianchi e della classe media, di riaffermare una superiorità che vedono compromessa.

Come mostra efficacemente Stefano Ciccone nel suo studio sugli usi discorsivi della «crisi del maschile», questo è un topos che torna ciclicamente in ogni frangente storico in cui l’ordine tradizionale si incrina, il rapido mutamento delle condizioni della vita sociale provoca inquietudine, e i gruppi dominanti avvertono l’indebolirsi del proprio sistema di potere come una forma di spossessamento. I padri di una volta che non ci sono più, le donne «aggressive», i maschi «zerbini», i «mammi»: sono solo alcune delle figure di questo racconto, che vede nel femminismo e nella liberazione sessuale l’inizio della fine di un ordine capace di dare senso alla vita dei singoli e della collettività.

La «crisi» è l’espressione retorica di questo senso di smarrimento, ma è anche un concetto che serve a neutralizzare la potenzialità dirompente del cambiamento, a conferire all’analisi del presente una torsione reazionaria. Se ne sono avute testimonianze numerose nella reazione maschile alla campagna #MeToo. Sui giornali, in tv, sui social network, per voce di persone comuni e di uomini autorevoli, si sono moltiplicate le espressioni di disagio o fastidio per la presa di parola delle donne. Il senso di smarrimento – qual è il confine tra corteggiamento e molestia? – non ha generato, se non in casi eccezionali, un’autoanalisi maschile sul modo di intendere il desiderio, sul rapporto tra desiderio e potere, sull’importanza del consenso. Piuttosto, ha prevalso una postura vittimistica, piena di rancore verso le donne testimoni di violenza, e verso la «dittatura del politically correct».

Il populismo sovranista e conservatore offre una sponda politica alle frustrazioni che attraversano il mondo maschile. In particolare, gli «uomini forti» della destra radicale intercettano questo disagio identitario, offrendo come risposta il sogno nostalgico di una presunta età dell’oro in cui il posto degli uomini nel mondo e il loro privilegio erano garantiti dalla cultura, dalle istituzioni, dalla legge.

Per capire, per esempio, come abbia potuto Donald Trump vincere la corsa presidenziale nel 2016 contro la prima candidata donna, appare illuminante lo studio che il sociologo americano Michael Kimmel ha dedicato agli «angry white men» del suo paese. Partendo dalla premessa che viviamo in un tempo in cui il diritto maschile ad esercitare il proprio privilegio storico in ogni campo è messo in discussione – e che per questo è stato spesso descritto come «post-patriarcale» e «post-razziale» – saltano agli occhi i molti fenomeni di resistenza contro questo cambiamento inesorabile, che si esprimono in desideri rabbiosi di rivalsa.

I maschi bianchi arrabbiati sono «quegli uomini che rifiutano persino di essere trascinati a calci e urla in questo futuro inevitabile. Sono uomini bianchi che non sono affatto contenti del modo in cui sono cambiate le maree. Vedono una piccola serie di onde come un gigantesco tsunami che sta per travolgerli». Le piccole onde sono quelle generate dalla partecipazione sociale crescente dei gruppi storicamente svantaggiati – le donne, le minoranze sessuali e quelle razziali –, favorita anche dalle politiche positive e antidiscriminatorie.

Da molti uomini questo avanzamento è vissuto come una «discriminazione al contrario». Si chiedono, costoro: di che privilegio stiamo parlando? Non vedete che ormai sono gli altri ad essere privilegiati, che siamo diventati le vittime di questo nuovo corso? Però, scrive Kimmel, bisogna comprendere che

Non si tratta tanto dell’‘avere’ [il privilegio], quanto di una postura, una relazione con esso. Anche se non ci pensavamo come dei privilegiati, pensavamo però di avere diritto al privilegio, diritto a occupare le posizioni di comando. Solo perché chi è al potere è etero, bianco e maschio, non significa che ogni uomo bianco etero si senta potente. […] Ma il fatto che gli uomini bianchi etero non si sentano potenti non rende meno vero che, rispetto ad altri gruppi, essi beneficiano della disuguaglianza e sono, in effetti, privilegiati.

Il presunto diritto a occupare posizioni privilegiate all’interno del proprio universo sociale di riferimento non conosce insomma distinzioni di classe. Ogni uomo bianco cresce in un sistema che è attraversato da disuguaglianze di genere e razziali, ed è abituato a pensare che il mondo gira nel verso giusto solo se risponde alle proprie aspettative di guadagno economico e riconoscimento sociale. Ci sono, certo, uomini che vivono quietamente il cambiamento, e che riconoscono i benefici del vivere in una società più equa. Tuttavia, per tanti la fine dell’epoca del potere maschile indiscusso rappresenta un insopportabile tradimento delle aspettative connesse alla propria appartenenza di genere, un’offesa al proprio presunto diritto.

Le manifestazioni di amarezza e rabbia degli uomini bianchi etero, secondo Kimmel, sono «dita infilate nelle dighe che si sgretolano, cercando, inutilmente, di trattenere la marea montante di una maggiore uguaglianza e di una maggiore giustizia». Insomma, battaglie di retroguardia. L’autore, però, scrive queste pagine nel 2013, alcuni anni prima che simili sentimenti fossero intercettati da un imprenditore politico come Trump e capitalizzati in forma di consenso. «Essenzialmente», ha dichiarato nel 2017 in un’intervista a «The Guardian», «ho scritto un libro sui seguaci di un leader che non si era ancora manifestato».

Vittimismo e revanchismo maschile animano anche in Italia le battaglie di partiti e movimenti di destra contro la libertà delle donne e i diritti delle minoranze sessuali. Basti pensare alla sponda che un partito come la Lega offre da anni alle organizzazioni dei padri separati, miranti a ottenere attraverso la legge il riconoscimento di un diritto – il diritto del padre – che avvertono come perduto.

Il sessismo caratteristico delle ideologie della destra radicale può presentare tanto un volto «benevolo» quanto un volto «ostile», e spesso entrambi in riferimento a diverse categorie di donne. Il sessismo benevolo è quello che porta a esaltare le donne nel loro ruolo di moglie, madre e riproduttrice della nazione. Questo repertorio discorsivo è abilmente impiegato anche da donne leader di partiti di destra, come Marine Le Pen e Giorgia Meloni. L’associazione tra cura dei figli e cura del popolo intero funziona in questo caso come un dispositivo simbolico molto forte, che può servire a offrire un volto rassicurante ai contenuti politici più aggressivi.

Il sessismo ostile, invece, lancia accuse di corruzione morale e manifesta disprezzo verso categorie come le attiviste progressiste, le avvocate per i diritti di migranti e rifugiati, le lesbiche, e soprattutto le femministe. La destra radicale, spiega Cas Mudde, vede quasi sempre negativamente il femminismo contemporaneo. «Al di fuori dell’Europa del Nord, la maggior parte dei gruppi di ultradestra, ma anche molti gruppi conservatori, sostengono che le femministe siano un gruppo intollerante e oppressivo (le cosiddette ‘femminazi’) che vuole controllare la società imponendo ‘una nuova forma di totalitarismo’».

Il femminismo è considerato una minaccia per la famiglia e, di conseguenza, per la sopravvivenza della «nazione». Tanto più quando la causa dei diritti delle donne si intreccia con quella antirazzista, aprendo un varco nella rigidità dei muri sovrani e così mettendo a repentaglio tanto l’ordine interno quanto quello esterno.

 

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