Letture | 28 settembre 2021
Prof. Giampiero Brunelli, Lei è autore del libro La guerra in età moderna, edito da Laterza: in che modo, a partire dalla fine del XV secolo, nell’Occidente europeo cambia radicalmente il modo di combattere?
Sono molti i fronti sui quali il modo europeo di combattere e di prepararsi alla guerra cambia, tra la fine del Quattrocento e la seconda metà del Settecento. Il libro si apre con il racconto della battaglia di Pavia (1525), che mostra come l’epoca della cavalleria pesante, armatura scintillante e lancia in resta, stia tramontando velocemente. I «fantaccini ignobili e privati» – come li definiva Paolo Giovio – cioè i soldati armati dell’«abominioso ordigno» che scandalizzava Ludovico Ariosto – l’archibugio – imparano presto a sparare da punti riparati e a coordinarsi nel tiro: i gentiluomini a cavallo diventano facili bersagli; un semplice archibugiere può prendere prigioniero il re di Francia. Ma questo è solo il punto di partenza di tutta un’evoluzione tattica. L’azione di archibugieri e moschettieri viene dapprima meglio organizzata con il contributo decisivo dei quadrati di picchieri; poi, acquista un’autonomia sempre più riconoscibile e, nel Seicento, viene affiancata dai primi esempi di artiglieria leggera da campo. Quanto alla guerra navale, questa conosce mutamenti ancora più manifesti: la galera viene sostituita dai vascelli a vela, con due o tre ponti irti di cannoni; chi ha combattuto a Lepanto (7 ottobre 1571), il più celebre scontro navale dell’età moderna, in una battaglia del Seicento non avrebbe saputo letteralmente cosa fare. È cambiato tutto: le galere usavano poco l’artiglieria pesante, puntavano all’arrembaggio di una nave avversaria e alla mischia sul ponte. I vascelli, invece, si dispongono in linea e fanno fuoco per affondare e distruggere le navi nemiche. Tutto diverso, dunque. Altro fronte di cambiamenti evidentissimi: le fortificazioni. L’immagine classica del castello – mura merlate, alte torri, caditoie per l’olio bollente – diventa pura letteratura. Ora le mura sono spesse, basse, bastioni a punta di freccia spuntano ovunque: prima in Italia, poi nel resto d’Europa (e del mondo).
Cosa hanno in comune tutte queste trasformazioni? A ben vedere, sono tutte risposte all’evoluzione delle armi da fuoco. Dunque, il libro non può che prendere le mosse dalla rivoluzione tecnologica militare tra Quattro e Settecento. Si tratta di innovazioni che partono da lontano, nello spazio (Cina) e nel tempo (medioevo), ma che solo nell’Europa dell’età moderna si cristallizzano in un nuovo format, quando si scopre che la polvere da sparo dà il suo meglio se usata non come arma incendiaria, ma come propellente esplosivo di proiettili. Da qui parte l’evoluzione delle armi da fuoco, prima solo pesanti, poi anche portatili. Quando le artiglierie raggiungono un buon grado di diffusione, è chiaro che le fortificazioni e le marine da guerra devono cambiare; quando i primi cannoncini portatili del medioevo diventano archibugi e moschetti e sono messi in mano a migliaia di uomini sui campi di battaglia, tutta la tattica deve essere trasformata. Un altro elemento decisivo – a questo proposito – sarà, a fine Seicento, la nascita della baionetta a ghiera: una punta d’acciaio di circa 50 cm di lunghezza innestata al moschetto tramite un anello con filettature e intagli che permettono il serraggio. Non dà fastidio alle operazioni di tiro e di ricarica: un fuciliere si trova in mano allo stesso tempo un moschetto e una picca, può sparare o combattere corpo a corpo.
Quali innovazioni conosce l’architettura militare?
Partiamo intanto dalla rielaborazione umanistica dei classici latini (intendo Vitruvio, innanzi tutto). C’è un grande dialogo con gli antichi dietro a tutte le innovazioni in questo campo. Le soluzioni più avanzate, però, vengono escogitate da un architetto che ha anche lavorato in una fonderia di cannoni: Francesco di Giorgio Martini (1439-1501). Il maestro senese propone circuiti romboidali, o comunque molto angolati. Solo moltiplicare gli angoli, a suo giudizio, permette di limitare i danni da parte delle artiglierie nemiche. D’altro canto, le nuove artiglierie possono diventare un vantaggio anche per i difensori, a condizione però di essere poste su bastioni a punta di freccia. Soprattutto se formano un sistema integrato: i nuovi baluardi, infatti, si difendono l’un l’altro; sono disposti in modo che il nemico, attaccando, venga colpito di fianco, d’infilata. È italiano il primato della prima fortezza interamente progettata e realizzata secondo i nuovi canoni: parliamo del forte di Nettuno (città costiera del Lazio, poco lontano da Roma), edificato fra il 1501 e il 1503.
Ne consegue l’apoteosi della geometria applicata: la progettazione delle nuove fortezze sarà fatta d’allora in poi con riga e compasso, coprendo sempre ogni postazione di tiro. Nel secondo Seicento, grazie al genio dell’ingegnere francese Sébastien Le Prestre, marchese di Vauban (1633-1707), l’età delle nuove fortificazioni tocca il suo apice. Visti dall’alto, i circuiti difensivi sembrano cristalli di neve al microscopio, tante sono le opere geometricamente approntate sul terreno.
Quale evoluzione caratterizza gli eserciti dell’epoca?
Le innovazioni tecnologiche da sole non provocano il mutamento di un esercito o di una marina da guerra. Tutte le trasformazioni di cui abbiamo già parlato sono avvenute in un contesto istituzionale molto particolare, lo Stato della prima età moderna. Dotato di forma di governo monarchica o repubblicana; di grandi, medie e piccole dimensioni; più o meno aperto agli apporti dei privati imprenditori militari: non importa. L’ambiente peculiare delle trasformazioni tecniche dell’arte della guerra è lo Stato. Gli stessi sovrani pronti ad accettare la sfida della polvere da sparo, a volere sempre più cannoni, più reparti di moschettieri, più fortezze bastionate, hanno intrapreso, fra Cinque e Settecento una completa riorganizzazione delle forze armate, sia di terra, sia di mare, investendo ingenti somme di denaro. Contemporaneamente, per seguirle stabilmente, hanno promosso la nascita di grandi uffici centralizzati e specializzati, forma embrionale di quei «Ministeri della guerra» che diventeranno protagonisti dell’Europa dell’Ottocento e che sopravvivono nel mondo attuale con il nome più tranquillizzante di «Ministeri della Difesa».
Così, l’età moderna ha visto la nascita dei primi nuclei di forze armate in servizio permanente. Non è stato un passo facile: inizialmente si tratta di poche migliaia di uomini anche in regni importanti come Francia o Inghilterra. Esperienza comune a molti stati europei è stata altresì la creazione di ordinamenti non professionali, le milizie, da usare come scorta di riservisti. Ma queste istituzioni – “armi proprie” le avrebbe chiamate Niccolò Machiavelli – si sono dimostrate ovunque un fallimento. La guerra diventa sempre più affare da professionisti. Ed è il numero di questi che aumenta vertiginosamente. I 25-30.000 uomini arruolati da Carlo VIII al momento della sua celebre “Discesa in Italia” (1494) impallidiscono al confronto dei 148.000 messi in campo dall’imperatore Carlo V d’Asburgo contro tutti i suoi nemici (Turchi compresi) nel 1552 e dei 180.000 registrati da un documento ufficiale ancora francese – intitolato Contrôle général des armées du Roy – nel 1636. Ma è sotto il Re Sole (Luigi XIV), cioè nel 1692, che si tocca il vertice quasi incredibile di 446.612 uomini sotto le armi.
La composizione interna di queste forze è radicalmente cambiata. La cavalleria perde la sua antica supremazia (era già molto in crisi nel Medioevo, in realtà: i primi che osarono sfidarla furono gli arcieri e i balestrieri). La fanteria è l’arma principale, distinta prima in archibugieri, moschettieri e picchieri, poi concentrata quasi esclusivamente sull’uso delle armi da fuoco, personali e da campo. La cavalleria abbandona l’armatura pesante e torna alla carica con la sciabola in pugno. Non è un modo di dire: è accaduto letteralmente così. E si è trattato di un’innovazione venuta da est e da nord (Polonia, Svezia).
Il coordinamento, dunque l’addestramento, di masse di uomini tanto grandi è diventato sempre più essenziale. Anche in questo caso, l’obiettivo è generare movimenti misurati, anzi di nuovo di impostazione geometrica. È appena il caso di ricordare che il Seicento è stato anche il secolo del matematico Cartesio, il quale peraltro fu anche un giovane soldato.
Ma vorrei rimarcare ancora un fatto importante. Per ottenere i movimenti coordinati di cui stiamo parlando, bisognava che i soldati fossero separati dal resto del tessuto sociale. La caserma nasce nell’età moderna: in prospettiva, essa ha dato un grande contributo al processo di professionalizzazione dell’esercito.
Qual è la percezione che di tale cambiamento hanno i protagonisti?
Questa è una delle mie parti preferite del libro. Tutte le innovazioni di cui stiamo parlando sono state accompagnate da un’intensa produzione intellettuale ed editoriale. I libri di argomento militare hanno letteralmente inondato l’Europa fra il Cinque e il Settecento. Il poemetto del filosofo illuminista Voltaire La tactique si apre con la scenetta di una visita al suo libraio di fiducia, che lo perseguita proponendogli un nuovo, imperdibile, saggio di arte militare. Ecco, dobbiamo immaginare uscite continue, sul soldato, sui compiti quotidiani di servizio, sui modi di dispiegare un esercito, sull’artiglieria, sulla scienza della fortificazione. Per non parlare dei racconti di guerra: vere e proprie opere storiografiche, quasi in diretta, e fascicoletti di otto fogli che riferiscono di una singola battaglia. Pubblicazioni incessanti. Un mare di carta.
Accanto a questo, deve essere notato che i protagonisti prendono la parola. Non scrivono solo i comandanti generali e gli ufficiali, ma addirittura i soldati semplici. E non sto parlando delle immagini dei soldati offerte dal Don Quijote di Cervantes o dal Simplicissimus di Grimmelshausen. No: intendo proprio scritti di cui soldati semplici sono stati autori: le memorie di Sydnam Poyntz, quelle – meravigliose – di Peter Hagendorf, che addirittura ci dà conto della sua scoperta del formaggio parmigiano, quelle dello scozzese Patrick Gordon, arrivato ai vertici dell’esercito dello Zar, quelle del soldato bretone Pierre Lévêque, quelle infine dello svizzero Ulrich Bräker, testimone della vita sotto le armi durante il regno di Federico II di Prussia.
Il fatto che, almeno dal Seicento in poi, i soldati semplici prendano in mano una penna e scrivano è di grande rilievo. Si è molto dibattuto sul fatto se nell’età moderna ci sia stata o no una vera e propria “rivoluzione militare”. A me sembra che da sola questa evidenza ne sia la dimostrazione. Segna l’ingresso in un’epoca diversa e peculiare.
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