«Quando arrivai a Palermo per iscrivermi all’università, mi accorsi a pelle che Palermo era ‘fimmina’. Non solo per la bellezza delle sue ragazze dagli sguardi pirateschi, ma anche per la presenza ad ogni angolo del centro storico di numerose edicole votive dedicate a santa Rosalia, la Santuzza. Palermo era ‘fimmina’ nella sua carnale decadenza. Odorava di fiori tropicali e di monnezza. Odorava di umidità nelle scale di palazzi aristocratici ormai in sfacelo, e odorava di mistero dietro i portoni che introducevano a chiostri carichi di gelsomini e di rose».
In questo estratto da Le siciliane, il racconto di un giovane Gaetano Savatteri, giornalista sucainchiostro tra i salotti aristocratici e una sgangherata campagna elettorale tra i vicoli di Palermo.
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La marchesa viveva in un palazzo affacciato su via Maqueda. Vi arrivai una sera, invitato a una riunione di vecchie signore dell’aristocrazia che avevano a cuore il passato, e quindi il presente, di Palermo. L’ingresso era su un vicolo minore, trasversale all’asse centrale della città. Accanto al portone c’era un cumulo di immondizie (là vicino c’era un mercato, ne sopravvivevano i resti: verdura marcia, cassette di legno, lische di pesce, arance ammuffite; una torma di gatti si disputava selvaggiamente quanto restava della testa di un tonno).
Palermo era altrove. Il centro storico era buio e vuoto. Da me intervistato, Rosario La Duca, appassionato storico e topografo della Palermo perduta – così si intitolava un suo libro, appunto, La città perduta –, aveva paragonato i quattro mandamenti, cioè i quattro quartieri che racchiudono il centro storico, a una specie di “veliero fantasma”, con le occhiaie vuote dei palazzi sventrati dai bombardamenti alleati, dall’abbandono e dallo spopolamento, che ogni notte spegneva le sue luci e vagava nel nulla. Oggi per fortuna le cose sono molto cambiate, in meglio, ma quarant’anni fa questa era la vecchia Palermo.
Avevo poco più di vent’anni ed ero per niente avvezzo ai modi della nobiltà cittadina. Peraltro avevo una certa allergia per gli aristocratici. Venivo da una famiglia di origini borghesi progressiste: i miei avi erano mazziniani, repubblicani, imprenditori di zolfare, avvocati e notai, sucainchiostro come forse li avrebbero definiti le vecchie nobildonne riunite in quel salotto di via Maqueda quando volevano definire con disprezzo i praticanti delle professioni liberali.
E come sucainchiostro, infatti, ero stato ammesso alla riunione. Volevano raccontarmi, per un articolo che avrei pubblicato sul «Giornale di Sicilia», il quotidiano per il quale lavoravo, della loro iniziativa di creare un’associazione per salvare Palermo. Mi pare di ricordare che il gruppo si chiamasse proprio così: “Salvare Palermo”. Parlammo per tutta la sera, una cameriera offriva vol-au-vent e mesceva vino bianco. La mia diffidenza evaporò: le signore – qualcuna centenaria e completamente sorda, ma altre molto più giovani e combattive – argomentavano con competenza le campagne che volevano organizzare per sensibilizzare la città e la politica al tema della rovina del centro storico. Forse, col senno di poi, nella selezione del gruppo c’era quasi un contrappasso: figlie e vedove di quei principi e duchi che avevano liquidato sbrigativamente i loro palazzi adesso cercavano di restituire onore a quelle pietre che cadevano a pezzi. Cercavano di scrollarsi, moralmente, la polvere che ricadeva sulle loro teste blasonate.
Provai una battuta ad effetto: «Volete salvare Palermo? Perché? È stata costruita nel tufo proprio perché un giorno si sbriciolasse. Se doveva essere eterna, sarebbe stata costruita di pietra dura e di marmo, come Firenze o Roma. Questo è il suo destino». La mia provocazione animò la serata, che fu piacevole e piena di speranze, progetti e sogni che forse non riuscii a contenere nelle cinquanta righe che il capocronista mi concesse l’indomani in cronaca di Palermo.
Al termine della riunione fui signorilmente accompagnato all’uscita dalla marchesa padrona di casa. Sul pianerottolo, forse perché leggermente brillo per il vino bianco e freddo che avevo mandato giù per tutta la sera quasi a stomaco vuoto, con il piede urtai inconsapevolmente un capitello istoriato posato in un angolo. Lo vidi cadere come un birillo e spezzarsi in tre pezzi. Riuscii a scorgere lo sguardo inorridito della marchesa.
Non sapevo cosa dire. Balbettai qualche scusa. La marchesa mantenne il controllo. «Non si preoccupi – disse con noncuranza – era una cosa vecchia, aveva solo quattrocento anni. Ci penserà la cameriera».
Uscii dal palazzo vergognandomi come un ladro – anzi come uno zotico, come un vandalo, come un sucainchiostro qual ero. Nel vicolo buio i gatti vincitori della lotta si saziavano, in piena armonia, della testa di tonno. Alcuni topi, sul cumulo di immondizie, aspettavano pazienti che terminasse il pasto felino per spartirsi gli avanzi.
Tornai dalle parti di quel vicolo poco tempo dopo – nella compressione del ricordo, “poco tempo” può significare due giorni così come due anni –, durante la campagna elettorale per le amministrative del 1987. Centinaia e centinaia di candidati, alcuni già famosi – nelle liste della Dc c’erano Sergio Mattarella, Leoluca Orlando, Enrico La Loggia; nel Pci Simona Mafai ed Enrico Colajanni; nei Verdi la fotografa Letizia Battaglia e la giornalista Marianna Bartoccelli, tanto per dire – altri praticamente sconosciuti. Per il quotidiano cittadino una manna di lettori interessati. Andavamo a spulciare le liste per scoprire storie da raccontare. E venne fuori quella di Salvatore Tamburello.
L’uomo aveva meno di quarant’anni, il profilo e la postura di un classico venditore di panelle palermitano, simile ai molti che si possono incontrare agli angoli della città dietro a un banchetto di friggitoria, accanto a una motoape carica di pesche tabacchiere, vicino al chiosco di acqua e anice, alle prese col calderone dove si cuoce nello strutto la milza per il pani ca meusa: insomma, Tamburello era uno degli esponenti di quell’umanità varia e variopinta, misera e guascona, sempre sul bordo della legalità, che incarna una delle anime popolari di Palermo.
Abitava dalle parti del palazzo della marchesa alla quale avevo distrutto il capitello seicentesco. Certo, usare lo stesso verbo – “abitare” – per la marchesa con i suoi appartamenti da quattrocento metri quadrati e per Tamburello è una forzatura del concetto. Tamburello in realtà viveva in un catojo, antico termine che in Sicilia indicava e indica l’omologo del vascio napoletano: a piano strada, piccolo, umido, uno o due locali in tutto, dove un’intera famiglia di cinque, sei o più persone condivideva stentatamente lo spazio privato, avendo come sfogo lo spazio pubblico del vicolo o della piazza antistante.
Tamburello non aveva un mestiere, campava di espedienti, ma possedeva un potentissimo impianto stereo che campeggiava nel suo catojo con lo sfarzo di un altare barocco. Non credo avesse le stesse parentele della marchesa e delle sue amiche che volevano salvare Palermo, ma molto più di loro ne aveva il senso di casta. Si candidava infatti per la lista Stella e Corona, un movimento monarchico che sopravviveva con ostinata nostalgia al referendum sulla Repubblica del 2 giugno 1946 (Palermo comunque aveva dato l’84 per cento dei suoi voti alla monarchia).
La marchesa era decisamente repubblicana e democratica, Tamburello decisamente monarchico e aristocratico. Vivevano a pochi metri di distanza, una al piano nobile e l’altro al piano terra, una malinconicamente ricca e l’altro vitalmente povero. Tamburello, non so con quali soldi, aveva tappezzato la città di un manifesto con il suo nome, il simbolo di Stella e Corona e uno slogan credo inventato dal suo ufficio marketing che era lui stesso: «Voto perso che sia / dallo a mia». Slogan camilleriano ancor prima che Andrea Camilleri diventasse famoso. E politicamente accorto: voto utile, si potrebbe dire. Se devi disperdere il voto, tanto vale darlo a me. Messaggio umile che appartiene alla moderna cultura del riciclo: nulla si butta, tutto si riusa. A partire del voto.
Tamburello non fu fortunato: non venne eletto. Si vede che non c’erano così tanti voti persi. A sua discolpa bisogna dire che non venne eletto a Palazzo delle Aquile, sede del consiglio comunale, nessuno dei candidati di Stella e Corona, nemmeno il vecchio principe che ne era il capolista. A dimostrazione che, in lista o per la strada, miseria e nobiltà, ricchezza e povertà, in Sicilia sono meno distanti di quel che si crede.
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