La vigilia del disastro

Paolo Mieli legge Paul Jankowski

Un saggio di Paul Jankowski, edito da Laterza, analizza le cause del Secondo conflitto mondiale. Le maggiori potenze si mostrarono incapaci di costruire un nuovo ordine all’insegna della sicurezza collettiva e delle norme condivise

Paolo Mieli | Corriere della Sera | 2 novembre 2021

Doveva essere l’anno in cui l’umanità intera — con l’accordo ginevrino sul disarmo si sarebbe messa definitivamente alle spalle la Grande guerra. Al contrario in quei dodici mesi si posero le premesse per il Secondo conflitto mondiale. Lo si intuì (o, meglio, lo si sarebbe potuto intuire) alla fine di settembre del 1933 allorché Joseph Göbbels partecipò alla Conferenza per il disarmo che, dall’anno precedente, si riuniva a Ginevra. Göbbels vestiva i panni di ministro della Propaganda di Adolf Hitler e fece un certo effetto ascoltare le sue insincere parole di omaggio alla Società delle Nazioni. Quella stessa Società delle Nazioni che proprio lui, appena un anno prima, da candidato alle elezioni in Germania, aveva giurato di distruggere. Ora — scrive Paul Jankowski in Il lungo inverno del 1933. Alle origini della Seconda guerra mondiale in uscita il 14 novembre da Laterza — «si muoveva con disinvoltura nell’ambiente ginevrino, da scaltro e piacevole praticante dell’arte della conciliazione». Sostenendo «sfacciatamente che il nazismo significava pace, una forma più alta di democrazia e di difesa dell’Occidente dal bolscevismo». In quegli stessi giorni un fotografo lo ritrasse fuori dall’Hotel Carlton «con un’espressione arcigna sul volto… quasi a voler mostrare l’uomo che si nascondeva dietro la maschera». Sostanzialmente Göbbels era lì per annunciare che la Germania intendeva procedere sulla via del riarmo e far capire che il suo Paese presto avrebbe abbandonato quella Conferenza oltreché la Società delle Nazioni.

Arthur Henderson, l’anziano malato laburista inglese che presiedeva il summit di Ginevra, tentò in ogni modo di far andare avanti i lavori della Conferenza. Ma il primo ministro del suo Paese, Ramsay MacDonald, fu, con lui, persino scortese. La Francia chiese — inutilmente — che si formasse un esplicito fronte antitedesco contro le violazioni hitleriane del trattato di pace. Il Giappone rese manifesta la propria contrarietà ai limiti posti dai trattati navali del 1922 e del 1930. L’Urss fece capire che mai avrebbe firmato un accordo sul disarmo non sottoscritto dal Giappone. La Polonia lasciò intendere che non avrebbe firmato un’intesa da cui i sovietici si fossero chiamati fuori. Il delegato americano, Norman Davis, annunciò che da quel momento il disarmo era una «questione europea» e che lui sarebbe tornato immediatamente in patria. Da quel momento i ministri degli Esteri di tutti i Paesi disertarono la Conferenza destinata a chiudersi l’anno successivo con un nulla di fatto. Accadde anche che nella stanza di ingresso alla Crystal Chamber dell’Hotel National, in cui si riuniva il consiglio, il fregio allegorico che simboleggiava la pace si staccasse dalla parete e cadesse a terra andando in frantumi. Un evento fortuito, certo, che però fu colto dai più come un infausto presagio.

Già Alan J.P. Taylor in Le origini della Seconda guerra mondiale (Laterza), più recentemente, Volker Ullrich in Hitler. L’ascesa, 1889-1939 (Mondadori) e molti altri oltre a loro — avevano messo in evidenza l’importanza di quel 1933, anche al di là del fatto che fu l’anno in cui il dittatore tedesco andò al potere. In che senso? Quello fu il momento, scrive Jankowski, in cui le grandi potenze e alcuni dei loro partner minori «voltarono le spalle a quel che restava di un ordine mondiale» e si «allontanarono l’una dall’altra». Il Giappone, che nel 1931 aveva attaccato la Manciuria, uscì, come si è detto dalla Società delle Nazioni, Roosevelt accentuò il distacco degli Stati Uniti dall’Europa. America, Gran Bretagna e Francia raggiunsero l’apice del litigio tra loro su debiti di guerra, armamenti, moneta, tariffe daziarie, atteggiamento nei confronti della Germania. Alla fine di quel 1933, scrive Jankowski, «il mondo postbellico diventò un mondo prebellico».

Il lungo inverno del 1933 demolisce alcune false credenze su quel che caratterizzò il «decennio meschino e disonesto» (la definizione è di W.H. Auden) a cavallo tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta. Nonché alcune analogie tra quei tempi e quelli attuali. Analogie, sostiene Jankowski, basate «su presupposti confusi riguardo a ciò che il mondo era allora e quel che è oggi». E vero, ad esempio, che la catastrofe economica dei primi anni Trenta contribuì in alcuni Paesi a trasformare dei partiti fascisti di scarsa importanza in movimenti di massa, «ma d’altra parte», fa notare l’autore, «negli Stati Uniti e in Francia portò al potere governi socialdemocratici di centro-sinistra». E «fino a tempi recenti i “populisti nazionalisti” ritenuti parenti stretti di quelli degli anni Trenta si sono affermati nei contesti economici più vitali». Mentre, al contrario, «hanno dovuto faticare nei Paesi a crescita più lenta e con livelli di disoccupazione più elevati».

C’è da osservare poi che da maggior parte dei governi autoritari degli anni Trenta si era già insediata quando la Grande Depressione si abbatté sul mondo». E che «piuttosto che portare al centro della scena gli irrequieti fascisti», agì «in modo da tenerli fuori dal gioco, almeno per un po’». Alcune delle «più sguaiate manifestazioni di psicosi a sfondo etnico o razziale provennero dalle culture ritenute più democratiche». Il modello che sottolinea le analogie tra quei tempi e quelli attuali «non regge», ribadisce lo studioso. E un modello che, a detta di Jankowski, evidenzia semmai «l’eterna lotta tra lo storico che vede gli alberi ma non la foresta, e lo scienziato della politica che vede la foresta ma non gli alberi». Se andiamo in cerca di analogie con il passato per dare un senso alle nostre difficoltà attuali, un confronto con il mondo immediatamente successivo al 1900, sostiene Jankowski, «si rivelerebbe più utile» di quello con il mondo degli anni Trenta.

E ancora. Nel primo dopoguerra molti, compreso qualche marxista, prevedevano che la mano invisibile del libero commercio avrebbe agito come una marea in grado di erodere le dighe statuali e dar vita spontaneamente a un nuovo ordine. Ma, come ha ben spiegato Kenneth Waltz in Teoria della politica internazionale (il Mulino) queste idee furono mandate all’aria proprio dalla Grande Depressione. Chi negli anni Venti guardava alla Grande guerra come a «un momento in cui tutti erano precipitati in una lotta primitiva», negli anni Trenta «paventò una futura ricaduta ancor più calamitosa, l’infrazione di ogni residuo limite alla brutalità umana». Le personalità pubbliche richiamavano continuamente il rischio di una fine delle civiltà.

Però quando la Gran Bretagna cercò di promuovere la riabilitazione della Germania e la Francia tentò disperatamente di contenerla, l’equilibrio delle potenze divenne d’un tratto «una chimera che non trovò gli artefici necessari» e non fu mai qualcosa di concreto. L’Unione Sovietica, ironizza Jankowski, «al mattino cercò di impedire la formazione di qualsiasi forte coalizione fra Paesi europei», «a mezzogiorno di volgerne una contro la Germania» e «sul far della notte di accordarsi con il Terzo Reich». Con questi subitanei cambiamenti di idea, l’Urss sembrò rispondere ad una logica «realista». Ma si trattava di «espedienti tattici» per portare avanti il proprio processo di militarizzazione che, osserva Jankowski, aveva preso avvio prima di qualsiasi altro. Quanto agli Stati Uniti, non erano interessati a equilibri di alcun tipo.

In tempi successivi, i «realisti» avrebbero cercato di attribuire le instabilità del mondo tra le due guerre a difetti strutturali. Spiegando, ad esempio, «che non era emerso nessun sistema basato sul concerto delle potenze in grado di mantenere la pace, come era avvenuto invece dopo il 1815». O che «nessun Paese egemone a livello globale aveva preso il posto occupato nel secolo precedente dalla Gran Bretagna». Oppure ancora che, come ha sostenuto Ian Clark, «che il mondo tripolare precedente alla Seconda guerra mondiale era più pericoloso di quello bipolare subentratogli dopo il conflitto».

Ma qui il discorso va riportato al Congresso di Vienna, al 1815. In quel momento, ricorda Jankowski, le potenze europee che si erano coalizzate contro Napoleone «assegnarono alla stabilità, nel nuovo quadro di pace un posto prioritario rispetto all’ingrandimento dei singoli Stati». I Paesi vincitori decisero allora «un cambiamento rispetto al tradizionale sistema dell’equilibrio che fin dal 1763 aveva prodotto solo squilibri e conflitti endemici». Adottarono invece «un sistema concertato che prevedeva obblighi e limiti reciproci». Non tutti se ne avvantaggiarono: polacchi e sassoni ebbero piuttosto a soffrirne. Quel sistema, però, si basò sulla capacità di due potenze «poste ai margini del continente» (Gran Bretagna e Russia) di «moderare le altre». Funzionò. Lo spirito che lo ispirava consentì all’Europa di non conoscere, per un intero secolo, neppure un conflitto fra grandi potenze. Eccezion fatta per quello franco-prussiano, che però non può essere considerato un «conflitto tra grandi potenze».

Qualcosa di analogo, sempre secondo Jankowski, avvenne anche dopo il 1945, quando gli Stati Uniti, i loro alleati e i loro avversari in tempo di guerra concepirono un nuovo sistema di cooperazione internazionale che «non assomigliava a nessuno di quelli precedenti», ma che «ancora una volta fece prevalere le finalità comuni su quelle individuali». E, che generò una lunga pace. Anche se prese le sembianze di una guerra, la guerra fredda.

Negli anni tra le due guerre mondiali, invece, accadde l’opposto. E accadde nonostante alcuni dei Paesi che «più covavano risentimenti» — il Giappone, la Germania — fossero in grado di esibire «una ripresa più sostenuta di altri dal baratro economico dei primi anni Trenta». Forse tutto degenerò perché laddove a Vienna nel 1815 i diplomatici erano riusciti a ignorare l’opinione pubblica dei loro Paesi, a Versailles ciò non fu possibile. E nei vent’anni successivi lo fu ancor meno. Sempre meno.

A questo punto «una storia improntata ai metodi della psicanalisi sociale» ha messo sotto i riflettori gli aspetti degradanti della guerra totale, ipotizzando che 60 o 70 milioni di ex combattenti avessero riversato sul loro mondo «la brutalizzazione che la Grande guerra aveva loro inflitto». Alcuni — si veda Seymour Martin Lipset in L’uomo e la politica (Edizioni di Comunità) — sulla scia di tali analisi diedero un crescente rilievo alle classi medie «spremute», impaurite e antimoderne. Ma le diagnosi di tal genere non spiegavano perché un gran numero di altri reduci diventarono invece pacifisti. O per quale motivo «l’esperienza della brutalizzazione sofferta da tedeschi, italiani o russi dovesse essere più grave di quella vissuta dai soldati francesi o britannici». La verità semplice ed evidente è che i percorsi di ogni Paese furono diversi uno dall’altro. Negli anni fra le due guerre «ognuno si contrappose in qualche modo al mondo». Ognuno «agì in modo da rendere discrezionali, quando non irrilevanti, le norme e le procedure». Negli anni Trenta «con imbarazzo o disprezzo», scrive Jankowski, regimi di ogni sorta «seppellirono le vestigia della sicurezza collettiva e delle norme condivise».

E pensare che negli anni Trenta i Paesi che poi si sarebbero combattuti nella Seconda guerra mondiale «disponevano della forza necessaria a compiere delle scelte e ad orientare le proprie storie nazionali in una direzione diversa». Ma non lo fecero. Questa è l’unica vera analogia con quello che è poi capitato nei decenni successivi al crollo del muro di Berlino. L’ordine che si pensava avrebbe fatto seguito alla guerra fredda «si è dimostrato frutto di una fantasia», esattamente come quello «immaginato dopo la Grande guerra». Perciò gli accadimenti di quel «lungo inverno del 1933» ci dicono qualcosa di utile per comprendere i rischi che corre il mondo di oggi.

 

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