Maurizio Viroli | il Fatto Quotidiano | 12 novembre 2021
Quando ero ragazzo ascoltavo stupito e ammirato i miei zii commercianti narrare che ai loro tempi i contratti si chiudevano con una stretta di mano. Oggi solo uno sprovveduto venderebbe o comprerebbe alcunché senza adeguate garanzie legali. Abbiamo sempre meno fiducia negli altri. Gli studi sociologici confermano da anni queste convinzioni di senso comune.
Robert Putnam, nel suo classico Bowling alone. The Collapse and Revival of American Community, 2000 (“Capitale sociale e individualismo: crisi e rinascita della cultura civica in America”, Bologna, Il Mulino, 2004) ha documentato che negli Stati Uniti la fiducia negli altri è aumentata dalla metà degli anni Quaranta fino alla metà degli anni Sessanta, quando la tendenza si è invertita ed è iniziato un visibile declino. Con il trascorrere degli anni sono sempre meno le persone che condividono il principio che la maggior parte delle persone merita fiducia, mentre sono sempre più numerose quelle convinte che non si sia mai abbastanza diffidenti nei rapporti con gli altri. Perfino i giovani sono diventati più diffidenti dei loro genitori e dei loro nonni.
Tommaso Greco, nel suo importante saggio La legge della fiducia. Alle radici del diritto, condivide e rafforza l’idea della crisi della fiducia: “Sappiamo di essere diffidenti e predichiamo consapevolmente la necessità di esserlo per evitare brutte sorprese. Viviamo pienamente in un modello di relazioni che possiamo chiamare sfiduciario e lo impieghiamo a maggior ragione per interpretare i nostri ruoli e le nostre azioni nelle situazioni regolate dal diritto. Anzi, andiamo oltre e magari ci comportiamo di conseguenza, secondo un modello fondato sulla scelta dell’opportunismo come suprema regola sociale”. Per sostenere e precisare la sua tesi Greco cita Jon Elster, il massimo studioso contemporaneo dei comportamenti collettivi: “Perseguire il proprio interesse richiede […] di non dire la verità né mantenere le promesse, a meno che non convenga fare il contrario; di rubare e ingannare se solo è probabile che se ne esca bene, o, più in generale, tutte le volte in cui il valore atteso di tali azioni è maggiore di quello promesso dal comportamento contrario; e, ancora, di considerare la punizione semplicemente come il prezzo del reato, e le altre persone come strumenti della propria soddisfazione”.
Greco sa bene che da secoli i filosofi hanno messo in evidenza che gli individui sono più inclini a non fidarsi che a fidarsi: “Basta leggere le ultime pagine di un testo fondamentale come l’Etica Nicomachea aristotelica per trovare una piena consapevolezza del fatto che ‘molti non sono per natura portati a obbedire per rispetto, bensì per paura, né ad astenersi dalle cose cattive per la loro turpitudine, bensì per le punizioni’. E invita a meditare il famoso passo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio dove Machiavelli scrive che ‘come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempli ogni istoria, è necessario a chi dispone una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione […] Gli uomini non operarono mai nulla bene se non per necessità’.
La diagnosi è ancora più grave per l’Italia, dove da sempre è carente la cultura della legalità. Nella mentalità collettiva gli eroi sono i furbi che ingannano e sfuggono alla legge. Il cittadino onesto che assolve con scrupolo i propri doveri, il giudice inflessibile, il politico integerrimo sono spesso derisi come sciocchi. Per non parlare poi della inveterata arte italiana della simulazione e della dissimulazione. Coltivare la fiducia con i simulatori e con le persone che credono che onestà e doveri siano qualità degli sprovveduti, sarebbe pura follia. Meglio non fidarsi e ‘volpeggiare con le volpi’, come insegnavano i trattatisti della Controriforma.
Il rimedio consiglia Greco, può e deve venire da una seria riconsiderazione del ruolo della teoria del diritto: “La teoria del diritto deve solo esplicitare – invece di nascondere – quel che dentro il diritto presuppone e implica inclinazioni positive e cooperative. Facendolo, non si falsa affatto la realtà ma le si rende giustizia, mettendo l’accento sulla responsabilità dei soggetti e aiutando quindi ad evidenziare le mancanze di chi a quelle inclinazioni viene meno”. Ubbidienza e responsabilità “non sono due cose distinte, ma si richiamano l’una con l’altra. Una ubbidienza senza responsabilità possiamo chiederla soltanto agli automi”. Se sappiamo che gli altri non ci inganneranno perché se lo facessero incorrerebbero nelle sanzioni della legge, possiamo, con gli occhi bene aperti, cooperare loro. Ma se sappiamo che non ci inganneranno perché detestano l’inganno, e non perché temono la sanzione del giudice, allora potremo davvero fidarci. Accanto al diritto con le sue sanzioni è dunque necessaria l’educazione civile con il suo potere di formare coscienze e additare i giusti esempi.
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