Un libro di Piero Martin racconta come sono nati metro, secondo, chilogrammo…
Adriano Favole | La lettura – Corriere della Sera | 9 gennaio 2022
Nel 1769 Tupaia, un polinesiano di Tahiti, salì a bordo dell’Endeavour, l’imbarcazione di James Cook, e guidò l’equipaggio alla scoperta delle isole della Società. A bordo Tupaia disegnò una celebre mappa (ora alla British Library) delle isole dell’Oceania. Mentre i britannici si orientavano collocando le isole in uno spazio cartesiano attraverso la griglia della latitudine e della longitudine, Tupaia e i marinai polinesiani che esplorarono tutta la Polinesia un migliaio di anni prima di Cook — misuravano la distanza tra le isole attraverso un insieme di variabili che includevano forma e frequenza delle onde, forza presunta dei venti, presenza o meno di correnti marine, mettendo in conto l’attesa serale delle rotte tracciate in cielo dagli uccelli marini e l’apparizione notturna dei «sentieri» di stelle che sorgevano all’orizzonte. La mappa di Tupaia rappresenta la distanza non attraverso una misurazione di tipo metrico, ma contraendo e dilatando lo spazio-tempo in funzione di venti, correnti e altre variabili. I polinesiani non erano Einstein, ma avevano una visione relazionale (e in fondo relativa) dell’universo marino: in base alle loro conoscenze era sensato misurare la distanza tra le isole in funzione del tempo di percorrenza delle rotte che le legavano in una trama di fili oceanici.
L’uomo misura tutte le cose, si potrebbe dire. Ogni società, a volte ogni comunità, ha sentito l’esigenza di misurare le distanze, lo scorrere del tempo, il peso degli oggetti, l’intensità di una fiamma. Ogni società lo ha fatto a modo suo, cioè a partire dal tipo di esperienza e di relazione che ha instaurato con l’ambiente. Le 7 misure del mondo del fisico Piero Martin (Laterza) prende spunto dalla confusa quanto ricca babele di modi con cui in passato si è misurato il mondo. Il corpo umano ha fornito ispirazione con le spanne, le braccia, i piedi, i passi, il cubito ovvero la distanza, di circa mezzo metro, tra la punta del gomito (cubitus) e quella delle dita, in uso in gran parte delle civiltà del Mediterraneo. La rotazione degli astri ha permesso di misurare il tempo, con le ore, i giorni, l’alternarsi delle stagioni. Prodotti come un chicco di grano, il seme di carrube (da cui viene il carato con cui definiamo i diamanti), una data quantità di acqua (per esempio i «talenti» di cui parla il Vangelo che corrispondevano nella Grecia antica a circa 26 chilogrammi) hanno costituito unità di misura molto diffuse. Nell’antico Egitto il dio Anubi usava una bilancia a due piatti per pesare il corpo del defunto paragonandolo con una piuma. La parola «bilancia» significa letteralmente «due volte» (bis) un «piatto» (lanx).
«Da sempre — scrive Martin — l’uomo misura il mondo. Lo misura per conoscerlo ed esplorarlo, per viverci, per interagire con i suoi simili, per dare e avere giustizia, per rapportarsi con le divinità. La misura è potere, ma è anche fiducia reciproca». Le 7 misure del mondo prende spunto dal caleidoscopico archivio delle culture, ma si propone di narrare, con gustosi episodi e riferimenti alle biografie dei grandi nomi della fisica, il modo in cui la scienza ha standardizzato e universalizzato la misurazione. Con sette unità di misura fondamentali — il metro, il secondo, il chilogrammo, il kelvin, l’ampere, la mole, la candela — possiamo comprendere e valutare l’universo, dal micro al macro. Come si è arrivati a questo accordo internazionale? E soprattutto, è possibile definire in modo preciso le unità di misura, sottraendole alla tentazione della manipolazione e dell’inganno e alla deperibilità dei materiali con cui tradizionalmente erano state identificate?
Prendiamo il metro, termine che già da un punto di vista etimologico ci porta alla «misura». Nell’antica Roma le pietre miliari definivano la distanza dalla capitale e dalla città più vicina in passi, corrispondenti a circa un metro e 48 centimetri, il tratto che unisce il punto di distacco e quello di appoggio di uno stesso piede (un po’ contro intuitivo per noi che in genere definiamo il passo in rapporto allo stacco del primo e all’appoggio del secondo piede). Il miglio, milia passum, corrispondeva a 1.480 metri. Con la fine dell’Impero romano il miglio cadde in disuso e in Europa tornarono a diffondersi sistemi locali, forme di «sovranismo metrico» le definisce Martin. Saranno il metodo di Galileo a livello scientifico e la Rivoluzione francese a livello politico ad avviare un processo di standardizzazione. Nell’Assemblea nazionale del 3o marzo 1791 il metro venne definito come un decimilionesimo della distanza tra il Polo Nord e l’equatore misurata lungo il meridiano che passava per Parigi. Sulla base di ciò venne realizzata una barra in platino, definita mètre des archives, e varie copie furono sistemate su palazzi parigini. Quel prototipo sarà la base del metro italiano visto che nel i861 il sistema metrico decimale fu introdotto, non senza opposizioni, nel Regno d’Italia.
Un secolo dopo la Rivoluzione, il sogno di un sistema di misurazione internazionalmente condiviso divenne realtà, con l’istituzione nel1875 a Parigi della Conferenza generale dei pesi e delle misure. Le rivoluzioni scientifiche che sconvolsero la fisica classica tra il XIX e il XX secolo resero tuttavia anacronistica la definizione del metro in base a un materiale «deperibile» come il platino. I termini di paragone di metri, secondi, grammi cessarono di essere oggetti tratti dall’esperienza comune e divennero le nuove forze o leggi universali, come la costante di Planck o la velocità della luce, che la fisica svelava nel suo studio di micro e macrocosmo.
Oggi il metro è definito pari a 1.650.763,73 lunghezze d’onda della radiazione emessa durante una precisa transizione energetica dell’atomo di kripton 86. Una definizione per nulla intuitiva e, per fortuna, nelle nostre case continuano a esistere metri di legno snodabili con cui misurare lo spazio che abbiamo a disposizione.
Il libro di Martin mostra la transizione tra l’eterna esigenza di misurare il mondo e il processo di uniformazione degli standard di misura, prodotto e produttore della globali7zazione. Come tutte le rivoluzioni, però, anche quella dei pesi e delle misure ha avuto i suoi costi. Misurare, scrive Martin, è anche un atto di potere. E ancor più lo è imporre le proprie misure al resto del mondo. Come osserva James Scott (Lo sguardo dello Stato, Elèuthera, 2019), la globalizzazione delle misure ha significato anche la perdita di diversità culturale e la svalutazione di forme di esperienza del mondo altre da quelle basate sulla scienza occidentale. Se nessuno di noi sarebbe oggi disposto a rinunciare alla precisione di un Gps, alla puntualità di un Frecciarossa, alla sicurezza fornita da un puntatore laser capace di definire la temperatura corporea, è bello tuttavia immaginare un mondo in cui la massima precisione degli orologi atomici convive con l’esperienza della «durata» di un tramonto, in cui la capacità di calcolare la distanza tra la Terra e un cratere di Marte convive con quella che Scott chiama la metis, l’esperienza pratica e artigianale delle cose.
Il libro: