- Noi non amiamo camminare per poche ore. Ci capita di farlo, ne ricaviamo una forma di benessere fisico, ma non ne ricaviamo una forma di gioia. Se gioia è una parola troppo
ingombrante, è possibile riformulare così: non ne ricaviamo dei sentimenti potenti tali da mettere in discussione la nostra vita. Sappiamo che c’è bisogno di giorni, di settimane, affinché ciò accada - Noi possiamo guardare storto chi, incontrandoci, ci augura «buona passeggiata». Si passeggia nel tempo libero per prendere aria, per prendere un gelato, per far passare del tempo prima di una cena. Chi passeggia è ancora inserito in un modello di vita riassumibile dalla sequenza casa-ufficio-sport-svago-casa. Stiamo male perché è una sequenza che ci sta sempre più stretta. Ci può capitare di passeggiare, ma non accosteremmo mai questa esperienza a quella del cammino.
- Noi non abbiamo interesse per l’allenamento, la competizione, i cronometri. Se ripetiamo più volte l’ascesa a un monte non prendiamo nota di quanto tempo ci abbiamo messo. Non amiamo i dislivellomani. Dei percorsi che abbiamo fatto più volte ricordiamo gli alberi, le fioriture, le tracce animali, le locande, i volti di chi abbiamo incontrato, i volti di quelli che non hanno potuto accompagnarci.
- Noi ci spostiamo anche con mezzi privati e pubblici, eppure le persone ci chiedono: «sei arrivato a piedi?». Alcuni ti immaginano in continuo movimento, sei per loro un apostolo, un pioniere, un oggetto non identificato. Altri ti prendono apertamente in giro, ai loro occhi sei lo scemo del villaggio, un Forrest Gump minore, un disadattato. Quando spieghi loro che possiedi la macchina, o la moto, o che hai l’abbonamento dell’autobus, non capiscono. «Sta barando», pensano dentro di sé. Come se questo fosse un gioco.
- Noi siamo stanchi di fare i turisti. Ci interessa sempre meno viaggiare per visitare quella chiesa, quel monumento, quel museo, quel parco. Se anche prendiamo una mappa all’ufficio informazioni e ci dirigiamo in tutti quei posti a piedi non stiamo bene. Abbiamo camminato ma non siamo stati in cammino. Facciamo fatica a spiegarlo a chi è vicino a noi. Soprattutto fatichiamo a spiegare che non amiamo la «vacanza». Vacanza ha che fare col vuoto. Viandanza col pieno.
- Noi sentiamo quotidianamente, in particolare con l’avvicinarsi della primavera, un esagerato desiderio di stare all’aria aperta, di non avere vincoli, non avere orari, non fare la fila, non compilare moduli, non maneggiare soldi, non fare shopping, non accumulare roba (quando lo facciamo ci sentiamo in colpa). Si tratta di una voglia di libertà che pervade gran parte delle cellule del corpo. Ci sentiamo in gabbia. Andare a camminare per qualche ora, fare una passeggiata, corrisponde all’andare avanti e indietro dentro la gabbia.
- Noi sentiamo il richiamo dell’eccezionalità. Siamo attirati dalla meraviglia. Lo abbiamo provato nei nostri cammini, ne siamo diventati dipendenti. Non si trattava del panorama dalla vetta, altrimenti basterebbe fare un’escursione di giornata per provare di nuovo quel sentimento (noi non amiamo la parola «escursione»). Era eccezionale e portatrice di meraviglie la nostra vita in cammino. La non prevedibilità. Il non sapere cosa sarebbe potuto accadere. La consapevolezza di avere dinnanzi a sé il mondo aperto. Lì lottavamo per addomesticare l’ignoto. Qui siamo costretti, per sopravvivere, a ignorare il domestico. Stando nell’eccezionale, eravamo eccezionali. Era il cammino a rendere ciò possibile, non il camminare.
- Noi sopportiamo sempre meno le notizie dell’ultima ora. La cronaca nera, la cronaca rosa, la cronaca bianca. Diveniamo daltonici. Ci indigna, ci fa andare in collera, ci addolora la serie di gesti violenti e prevaricatori. Nei nostri cammini ci eravamo abituati a dividere il pane, ad essere accolti, a non giudicare dall’aspetto, a non avere timore degli altri. Ci sentivamo esseri umani migliori. Non era il camminare a rendere ciò possibile, ma il cammino.
- Noi siamo sognatori diurni. Sogniamo in continuazione. Di mollare il lavoro, la casa, ogni sorta di incombenza. Alcuni di noi possono sognare di abbandonare le persone che amano. Di sparire con il proprio zaino e mettersi in un’altra vita. Sono sogni di cui possiamo parlare solo con i sognatori diurni. Risultano incomprensibili agli altri. Se non possiamo parlarne veniamo travolti dalla frustrazione. Camminare non intacca la portata di quei sogni. Solo il progetto di un lungo cammino placa temporaneamente la nostra inquietudine.
- Noi siamo viandanti, non camminatori. Siamo le creature della via, della strada aperta, degli incroci, delle curve, delle soste. Lo siamo anche quando non camminiamo. Perché dal cammino non si fa ritorno. Non abbiamo più fatto ritorno dal nostro primo cammino. Una parte di noi è rimasta appesa a qualche ramo, rappresa in qualche corteccia. Noi intuiamo, senza riuscire a razionalizzarlo, di essere parte di quella cosa chiamata viandanza: una vita nuova, una soglia, una soglia sulla soglia, un’altra dimensione in cui le nostre fantasticherie di sognatori diurni si realizzano. Siamo pochi, siamo una minoranza. Ci riconosciamo subito. Ci passiamo parole sottobanco. Ci pensiamo in silenzio. Non amiamo i decaloghi. Chiamiamo i nostri zaini per nome.