Repressioni, “grandi purghe” e carestie causate nel ‘900 da leader come Lenin, Stalin, Mao o Pol Pot. Ne scrive Gianluca Falanga in ‘Non si parla mai dei crimini del comunismo’. Con una premessa: il movimento comunista ha avuto esperienze diversissime tra loro
Piero Bevilacqua | Left | 10 marzo 2022
L’ultimo volume nato in casa Fact Checking, la collana dell’editore Giuseppe Laterza curata dallo storico Carlo Greppi, non mancherà di far discutere. Non si parla mai dei crimini del comunismo è, infatti, un autentico pugno sullo stomaco per quanti hanno creduto nella forza palingenetica del 1917 e non hanno ancora fatto i conti con la storia.
L’autore, Gianluca Falanga, appartiene non a caso a una generazione successiva a quella del ‘68. Non a caso vive e lavora in Germania da più di vent’anni al Memoriale di Berlin-Hohenschönhausen, le prigioni della Stasi, la polizia segreta della ex Ddr. Nella capitale tedesca convivono, infatti, più memorie storiche, tutte bisognose di riparazione; non solo quella dell’Olocausto, anche l’esperienza dei gulag e delle persecuzioni comuniste costituisce un trauma non ancora del tutto elaborato. Emblematico è al riguardo un episodio di cui è stato testimone lo stesso autore. Un giovane studente, che indossa un colbacco nero con stella rossa, viene gentilmente bloccato all’ingresso delle ex prigioni.
Un’anziana guida gli chiede, garbatamente ma con decisione, di togliere quel copricapo per rispetto di chi ha sofferto in quelle prigioni. L’arrivo dell’insegnante in soccorso dell’allievo provoca un alterco. La guida, un uomo finito in quelle carceri quando aveva appena 15 anni, a un certo punto sbotta: «Ma, scusi, lei permetterebbe a un suo alunno di entrare a Dachau con una svastica sul berretto?». Parte da qui la lucida e sofferta analisi sui crimini perpetrati dai regimi comunisti nel corso della loro storia, con una premessa tutt’altro che marginale o scontata. Non ha nessun senso parlare di crimini del comunismo come hanno fatto gli autori del famoso Libro nero. Il movimento comunista non è mai stato monolitico, non possono essere assorbite nello stesso schema esperienze diversissime fra di loro, non si può tenere assieme i militanti dei movimenti studenteschi del Sessantotto con i khmer rossi o le dittature di Stalin e di Mao con l’eurocomunismo di Berlinguer. Bisogna, dunque, parlare dei comunismi e neppure ha senso frugare nel pensiero di Marx per trovare la radice dei crimini commessi nel Novecento in nome del socialismo perché sarebbe come voler spiegare la Shoah a partire dal pensiero di Nietzsche.
È con Lenin, sostiene l’autore, che la violenza – i massacri, le fucilazioni e gli arresti di massa – sino ad allora monopolio esclusivo dello Stato feudale-borghese, irrompe nel movimento operaio e socialista. La Čeka, capostipite delle polizie segrete comuniste di tutto il mondo, fu istituita già il 20 dicembre 1917 e venne incaricata di seminare il terrore ancora prima che si fosse formata una vera opposizione al regime. Per reprimere le rivolte contadine la violenza superò ogni misura, assumendo un carattere apertamente sterminatore, con pratiche feroci come la pubblica impiccagione, le esecuzioni di massa, il bombardamento dei villaggi, la deportazione e l’internamento sistematico di intere comunità. Per sopprimere la rivolta di Tambov del 1920 il generale Tuchačevskij non esitò a ricorrere addirittura ai gas asfissianti. Si dovette, però, attendere l’apertura, ancorché parziale e bruscamente interrotta dall’arrivo di Putin al potere, degli archivi sovietici nel 1991 per demolire la leggenda del Lenin “buono” contrapposto al “cattivo” Stalin. In realtà non c’è, per l’autore, soluzione di continuità fra il “Terrore rosso” di Lenin e il “Grande terrore” di Stalin, fra la rivoluzione bolscevica del 1917 e la “seconda rivoluzione” intrapresa da Stalin nel 1928-29 per procedere all’industrializzazione forzata e alla collettivizzazione Lo sforzo per attuare il primo piano quinquennale varato nel 1928 ebbe un costo altissimo di vite umane e causò la tremenda carestia del 1932-33, durante la quale persero la vita circa otto milioni di persone. Solo nel 2007 venne alla luce, svelando al mondo anche gli orrori del cannibalismo, il cosiddetto “affare Nazino”: nel maggio del 1933 circa cinquemila «elementi declassati e socialmente nocivi» furono prelevati a Mosca e a Leningrado per essere abbandonati su una striscia di terra disabitata in Siberia. Negli anni successivi la violenza assunse forme meno cruente e più sottili, come la criminalizzazione sistematica, la psichiatrizzazione del dissenso e l’infiltrazione da parte del Partito e della polizia segreta nella vita privata. Questa drammatica stagione venne formalmente chiusa con una direttiva emanata dallo stesso dittatore nel 1938 ma i massacri in realtà non cessarono neppure allora. Nella primavera del 1940 Stalin tentò di far passare per strage nazista l’eccidio portato a compimento dal capo della sua polizia segreta, Berija, nel villaggio di Katyn. Furono massacrati circa ventiduemila prigionieri, esponenti della intellighenzia polacca, ufficiali dell’esercito, magistrati, giornalisti, politici, professori. A partire dal 1928 furono internate nei Gulag circa 18 milioni di persone, due milioni dei quali almeno persero la vita. Solo la morte improvvisa di Stalin nel marzo del 1953 interruppe l’ultima campagna criminale del regime contro intellettuali e medici ebrei, accusati di slealtà e spionaggio in favore dell’Occidente. Nel Rapporto al XX Congresso del Pcus del febbraio 1956 Chruščëv si limitò a denunciare quanto già si sapeva sui processi di Mosca contro la vecchia guardia bolscevica e le cosiddette “Grandi purghe”, prestando attenzione a presentare il Partito stesso come vittima di Stalin. Tacque, invece, sulla dozzina di “operazioni nazionali”, eseguite dai servizi segreti contro quei gruppi etnici considerati ostili al regime.
I metodi adottati dai comunisti cinesi, dopo la proclamazione della Repubblica popolare il primo ottobre 1949, furono ancora più estremi di quelli stalinisti. Il crimine più grande fu la carestia del 1960-62 provocata dal piano di collettivizzazione e modernizzazione economica voluto da Mao, il cosiddetto “Grande balzo in avanti”. Il maoismo ebbe, poi, grande influenza sui regimi di Ho Chi Minh e Kim Il-sung, che adottarono dai compagni cinesi la cosiddetta “linea di massa”, il metodo della mobilitazione totale e permanente, e le “campagne di rettifica”, ossia il principio dell’educazione e rieducazione permanente come strumento di controllo sociale. Anche i khmer rossi guidati da Pol Pot, assumendo il potere in Cambogia nel 1975, provarono a imitare “il Grande balzo in avanti”. L’esito fu tremendo. La deportazione della popolazione urbana nelle campagne costò la vita a un quarto della popolazione cambogiana. Solo l’invasione vietnamita della Cambogia nel gennaio 1979 mise fine a quell’immane tragedia.
Criminalizzare indiscriminatamente tutto ciò che è stato il movimento comunista novecentesco sarebbe, tuttavia, un errore. Molti trovarono nel comunismo un’ideologia di lotta per la conquista di condizioni di vita migliori, scoprirono un orizzonte ideale di emancipazione che andava oltre le libertà e i diritti della società liberale. Molte delle conquiste sociali del Novecento non sarebbero state neppure possibili senza i comunisti. Ma criminalizzare indiscriminatamente i comunisti sarebbe ancor più ingeneroso perché, come ricorda Falanga, i primi a subire la violenza dei regimi che si proclamavano comunisti furono gli stessi comunisti e i primi a denunciare e raccontare i crimini staliniani, molto prima della crisi del 1956, furono ancora una volta dei comunisti. Il comunismo detiene, infatti, uno sconcertante primato tra le ideologie: è quella che ha fatto più vittime fra i propri sostenitori, che ne ha assassinati di più di quanto siano riusciti a fare i suoi avversari. Probabilmente è stato l’anarchico Michail Bakunin a intuire per primo che l’amministrazione del nuovo Stato avrebbe inevitabilmente comportato la creazione di una classe burocratica invadente e oppressiva ma anche i comunisti Antonio Gramsci e Rosa Luxemburg avversarono il culto sovietico dello Stato e contestarono il potere assoluto del partito.
La cultura della violenza e della repressione era espressione di una ragione superiore, che i bolscevichi nel 1919 avevano formulato in questi termini: «Respingiamo i vecchi sistemi di moralità e “umanità” inventati dalla borghesia allo scopo di opprimere e sfruttare le “classi inferiori”. La nostra moralità non ha precedenti, la nostra umanità è assoluta perché si basa su un nuovo ideale: distruggere qualsiasi forma di oppressione e violenza. A noi tutto è permesso, poiché siamo i primi al mondo a levare la spada non per opprimere e ridurre in schiavitù, ma per liberare l’umanità dalle catene». Qualsiasi cosa, scrive Falanga, diveniva a questo punto sacrificabile pur di realizzare quel progetto. Proprio l’umanesimo totale diveniva il germe dell’inumanità. «Il comunismo non era inumano di principio, come lo furono il fascismo e il nazismo, ma, date le premesse, non poté non esserlo la sua realizzazione». L’autore richiama Rossana Rossanda che già nel 1998, intervenendo nel dibattito aperto con la pubblicazione del Libro nero, così scriveva: «Sarebbe assai utile se da una parte si smettesse di appiattire il movimento comunista sui socialismi reali, e questi sulla repressione pura e semplice, ma dall’altra, la nostra, si ammettesse che non è possibile una separazione drastica. In altri termini, alla domanda: ma siete certi che da quell’idea non derivi necessariamente un totalitarismo, risponderei sicuramente di no. Ma alla luce della storia non posso dichiararla irricevibile». Gli eccidi perpetrati da Stalin e da Mao sono stati rappresentati come alto (ma necessario) costo umano di una modernizzazione a tappe forzate, quelli di Lenin come legittima protezione della rivoluzione che sarebbe stata altrimenti soffocata sul nascere. «Così argomentando, si precipita in un abisso di cinismo. Cosa si vuole affermare? – si chiede retoricamente Falanga – Forse che quanto più nobili sono gli intenti, più elevati gli orizzonti ideali, tanto più accettabili e quindi perdonabili i misfatti? Non è vero piuttosto il contrario?».