Proibire e riscrivere per dotti, massaie e ciabattini… Punti emergenti: la forbice tra élite e ceti subalterni; la pressione esercitata su editori e generi letterari
Vincenzo Lavenia | Alias – il manifesto | 12 giugno 2022
Gli odierni visitatori di una fiera del libro si aggirano per le istallazioni delle case editrici al solo scopo di curiosare tra le opere fresche di stampa e, in qualche caso, incontrare gli autori. Ma tra coloro che si recavano alla Buchmesse di Francoforte, già attiva nel Cinquecento, ci si poteva imbattere in alcuni emissari che, annusando tra i banchi, cercavano di intercettare le novità librarie più pericolose d’Oltralpe e segnalarle subito alla polizia istituita dai papi per erigere una barriera contro il dissenso religioso nella Penisola italiana: quel Sant’Uffizio romano, a cui dal 1572 si affiancò la Congregazione dell’Indice. Compito del secondo dicastero, soppresso nel XX secolo, fu quello di compilare e aggiornare la lista di libri proibiti che sulla carta valeva per tutto il mondo cattolico, ma di fatto ebbe efficacia solo in Italia, dove a partire dal 1558 i fedeli dovettero stare bene attenti a non possedere, copiare o mettere in circolo i testi «infetti et perniziosi», pena la scomunica e il sospetto di eresia.
Quando poi i libri proibiti venivano sequestrati, allora si accendevano i roghi per cancellare il contagio ereticale e ammonire chi osasse ignorare i divieti della Chiesa. Non si trattava sempre di cataste di volumi «maestose» a mo’ di «torre di Babele», come nella descrizione distopica de L’anno 2440 di Louis-Sébastien Mercier (1771), perché talvolta a bruciare erano pochi esemplari. Ma tanto bastava a istillare una pedagogia della paura: leggere era diventata un’abitudine insidiosa. Del resto, non era stata forse la stampa ad accelerare il successo della proposta luterana? Non era stata l’ossessione dei riformatori per le Scritture, che i fedeli dovevano gustare in lingua volgare, a spalancare la porta alla ribellione contro la tradizione apostolica, che dalla Germania era dilagata in ogni angolo d’Europa?
Decade la libertà intellettuale In un volume solido e ben scritto, pieno di vicende esemplari e di riflessioni sui caratteri originali della storia d’Italia: Libri pericolosi Censura e cultura italiana in età moderna, Giorgio Caravale racconta gli esiti della censura evitando due rischi: quello di tracciare una mera ricostruzione di come vennero compilati e modificatigli Indici dei libri; e quello di riproporre giudizi consolidati sugli effetti della sorveglianza ecclesiastica nella traiettoria culturale della Penisola. Certo, l’autore tiene conto del progressivo decadimento della libertà intellettuale propria della stagione rinascimentale (la leggenda nera anti-cattolica, fabbricata tra il Cinque e il Settecento, amplificò una realtà di fatto); e allude all’Italia di oggi, in cui pochi lettori forti tengono in piedi un mercato editoriale comunque rilevante, mentre la metà dei cittadini non si accosta mai a un libro. Sulla base di questi dati, verrebbe da ripetere che il Nord Europa ha beneficiato dell’impulso protestante a conoscere la Bibbia (il «grande codice») senza le mediazioni clericali; mentre nell’Europa cattolica la circolazione del libro ha scontato la plurisecolare ipoteca del controllo romano. Ma, precisa Caravale, sarebbe una risposta troppo semplice, tale da riproporre il coriaceo paradigma di un’Italia «mancata», esclusa dal «vero» progresso dispiegatosi altrove. L’autore, al contrario, sceglie di raccontare i percorsi della censura ecclesiastica — la sola attiva nella Penisola sino a metà Settecento, con la complicità più o meno convinta delle autorità politiche —, combinando il racconto del travaglio religioso dei secoli XVI-XVIII con quello delle strategie impiegate da tipografi, venditori ed esuli per eludere gli ostacoli e diffondere la cultura italiana in Europa; la storia del libro a stampa come manufatto con quella del manoscritto, la cui diffusione rimase considerevole nonostante l’avvento di un medium potente.
Nei primi capitoli si dipana il racconto della circolazione, spesso clandestina e corsara, dei testi religiosi importati dal Nord Europa o prodotti dai circoli del pulviscolare ma consistente dissenso religioso della Penisola. Si misura così il crescente allarme per l’incontrollata diffusione di prediche e dottrine pericolose da parte delle autorità ecclesiastiche (e di esponenti dell’umanesimo e della Riforma), e si ripercorre la storia dell’imprimatur dei primi Indici emanati dalle facoltà teologiche e dai tribunali dell’Inquisizione, fino alla travagliata lista promulgata nel 1596. Inoltre si comprende perché un sistema poliziesco nato per interdire i trattati di teologia, i catechismi e le Bibbie in volgare, si sia trasformato presto in un apparato per vigilare sull’intera produzione scritta e orale: testi di medicina, di diritto e di storia (specie se il soggetto erano i pontefici); immagini e madrigali; pasquinate e avvisi (i giornali dell’epoca); oroscopi e sermoni; senza contare la filosofia (il platonismo, Spinoza), le scienze della natura (Galilei, l’atomismo) e la letteratura cavalleresca, erotica e burlesca, che induceva il lettore al fatalismo, alla lascivia e al disprezzo del clero.
Agli occhi dei censori, il «luteranesimo» (una categoria che per secoli avrebbe inglobato ogni forma di dissenso politico-dottrinale nei confronti della Chiesa), l’empietà nutrita dall’averroismo e dal culto dei classici (Machiavelli lettore di Lucrezio) e l’immoralità alimentata da una tradizione che elevava a canone del volgare le liriche di Petrarca, le novelle di Boccaccio, l’arme e gli amori di Ariosto, erano manifestazioni di una stessa epidemia da contenere con il divieto assoluto di leggere gli «eresiarchi» e con l’emendazione chirurgica di centinaia di testi, scritti da protestanti e cattolici, sospesi fino alla correzione (donec expurgantur): un risvolto non secondario della censura, tanto più che emendare significò arruolare un esercito di intellettuali-correttori a servizio della Chiesa; deturpare, edulcorare o svuotare di senso opere filosofiche e letterarie (nella Secchia di Tassoni i «culi» e «culetti» divennero «colli» e colletti»); indurre gli autori a negoziare con gli inquisitori il contenuto dei loro testi editi e inediti; elaborare una scrittura dissimulata adatta a tempi di persecuzione; oppure praticare l’auto-censura preventiva (che con Tasso sfociò in paranoia nella tessitura della Gerusalemme).
Difesa del monopolio del latino Due punti emergono con chiarezza dalle pagine di Caravale. Il primo è la forbice tra le élite e i ceti subalterni, che si allargò anche per gli effetti della censura ecclesiastica. Difendere il monopolio del latino da parte del clero e di pochi dotti; impedire che di dottrina discutessero «il fachin, la fantesca e lo schiavone»; offrire ai lettori meno colti catechismi, rosari, agiografie e orazioni invece che la Scrittura; limitare le licenze per accedere ai libri proibiti a chi godesse dell’appoggio di un patrono presso la Curia papale, o a chi se ne servisse come strumenti di lavoro (per la controversia o l’insegnamento universitario), furono scelte che condannarono a uno stato di inferiorità gran parte dei fedeli comuni, a cui si prescrisse di credere ciò che credeva la Chiesa senza farsi troppe domande. Tramontò così quella breve stagione segnata dall’imitazione di Cristo e dal protagonismo del laicato che aveva contraddistinto il paesaggio religioso dell’Europa e della Penisola tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento, complice la proposta di pietà erasmiana.
Il secondo punto concerne gli effetti della censura, che non si limitò a vietare e a eliminare, ma fu un’arma per orientare le scelte degli editori; per innescare una risposta cattolica sul piano pedagogico e controversistico; per riscrivere i generi letterari (un chierico vergò un Oriando Santo che sostituisse il Furioso); per prescrivere modelli iconografici non troppo inventivi o inclini al paganesimo; per addomesticare la tradizione classica nei piani di studio della Compagnia di Gesù; per elaborare una storiografia e un canone dei libri «utili» per il buon cattolico.
Eppure si leggeva, nonostante tutto; e dalla seconda metà del Seicento gli eruditi e i ceti abbienti si fecero sempre meno scrupoli ad acquistare o a tenere in casa libri proibiti, magari chiusi a chiave in un piccolo armadio-ergastolo come nel palazzo dei conti Leopardi a Recanati (Monaldo fu un occasionale consultore dell’Indice). Per farlo, disse qualcuno, bastava «non passare per un nemico di preti e monaci». Poi venne la stagione dei Lumi e della secolarizzazione della censura, che per le autorità civili aveva lo scopo eminente di impedire l’insubordinazione politica. Ma per i fedeli comuni, o per gran parte di loro, praticare la religione continuò a significare aderire alla proposta devozionale della Chiesa senza sapere «se le cose che credono siano credibili o no». In ogni modo, la polizia ecclesiastica del libro avrebbe lasciato il segno nella coscienza e nella tradizione culturale della Penisola. E non fu un esponente italiano della Curia come il cardinale Bellarmino, icona della Controriforma, ma un eminente teologo francese a spiegare meglio di altri perché censurare: la «voglia di leggere», scrisse Jacques Bénigne Bossuet, non è altro «che divertimento e ostentazione, cattiva curiosità che fa seccare le fonti della carità».