Anna Foa ripercorre la storia delle comunità giudaiche del nostro Paese. Dall’antica integrazione allo scempio delle leggi razziali
Simonetta Fiori | Robinson – la Repubblica | 5 novembre 2022
«Ma ci sono ebrei in Italia?», si sentì chiedere cinquant’anni fa Tullia Zevi da un tassista newyorchese ebreo. Anna Foa sceglie quest’aneddoto come inizio di una storia che finora non era stata mai scritta. È la storia dell’ebraismo italiano nei primi duemila anni, una vicenda largamente sconosciuta che viene indagata per la prima volta proprio nei suoi tratti originali rispetto ad altre esperienze della diaspora. La mancanza di un libro del genere era stata segnalata alla casa editrice Laterza dalla Princeton University Press, che ora firma la coedizione. La consuetudine di Foa con il tema – nella duplice veste di ebrea e storica degli ebrei – conferisce al racconto un tono narrativo quasi famigliare, come se si trattasse di un album autobiografico che viene aperto al lettore in un incalzare di domande, fino a rendere questa vicenda una storia italiana che riguarda tutti, ebrei e non ebrei. Che poi si tratti di una storia letteralmente famigliare è confermato anche dal nome più volte evocato del genitore dell’autrice, Vittorio Foa, ebreo antifascista condannato a quindici anni di carcere e padre costituente nel 1946.
È stata quella degli ebrei in Italia una storia diversa rispetto alle altre comunità? Il primo tratto specifico è nella continuità della presenza nella penisola nel corso di venti secoli, dalla Roma antica ai nostri giorni, con un radicamento costante che non si ritrova altrove. L’Italia è stata la culla della diaspora europea, e le stessa definizione di ebrei italiani precede la tradizionale distinzione tra “ashkenaziti” e “sefarditi”. Una seconda fondamentale specificità è nello stretto rapporto con il mondo circostante perché, fin dai primi secoli, dalla lingua al modo di vestire ci fu una profonda osmosi con la cultura cristiana, in una reciprocità di influenze che resiste nel Cinquecento all’istituzione dei ghetti. La convivenza tra ebrei e cristiani conosce alterne vicende, tra “aggiustamenti” e “resistenze” scrive la studiosa, ma il dato su cui insiste il racconto – e che ci porta alla terza caratteristica dell’ebraismo italiano – è il ruolo fondamentale della Chiesa cattolica: pur condannando gli ebrei a una sorta di “inferiorità teologica”, ebbe convenienza a farsi garante della loro presenza perché – soprattutto dalla fine del Medioevo – più interessata a convertirli che a eliminarli.
Nella ricostruzione proposta da Foa, a definire la storia degli ebrei sono soprattutto i rapporti con il mondo italiano non ebraico, più che quelli pur molto ricchi con il resto del mondo ebraico. Ed è una storia segnata spesso da un’eccezionalità che però non è mai priva di ombre e ambiguità. Il XIV secolo fu un momento di espansione del mondo ebraico in Italia – contrariamente a quello che accadeva in Inghilterra e Francia con le grandi espulsioni – ma funestato dalla catastrofe dell’ebraismo meridionale. Anche sul piano dell’odio antiebraico, l’Italia si distinse dal resto d’Europa non certo perché le fantasie popolari fossero libere dai peggiori stereotipi – siamo già nel Quattrocento – a cui contribuì la predicazione francescana a sostegno dei Monti di Pietà contro il prestito degli ebrei, ma perché la stessa Chiesa aveva interesse a evitare processi ed episodi di violenza per non alterare l’equilibrio precario sul quale si reggeva la convivenza tra ebrei e cristiani.
Nella lunga storia di emancipazione e integrazione, uno dei momenti più alti fu la partecipazione degli ebrei al Risorgimento e alla costruzione dello Stato nazionale, che avrebbe restituito loro tutti i diritti negati. Nella scia di Momigliano, la studiosa sottolinea come la partecipazione di una minoranza al processo di formazione della coscienza nazionale abbia caratterizzato questo processo in senso liberale. E l’identificazione tra gli ideali della nazione e quelli della minoranza ebraica è destinata a durare fino al primo decennio del Novecento, fin quando l’idea di nazione non si trasforma in nazionalismo, dando origine a una separazione che è preludio di sciagura. Nei capitoli più dolorosi, l’autrice spiega perché, in uno dei paesi fino a qualche decennio prima tra i meno antisemiti d’Europa, sia stato introdotto nel 1938 l’antisemitismo di Stato, spazzando via il senso comune autoassolutorio lungamente prevalso in Italia: non ci fu alcuna richiesta da parte di Hitler a Mussolini e si trattò di leggi durissime, per alcuni aspetti anche più di quelle naziste, applicate con uno zelo sconosciuto al Paese. La storia narrata da Anna Foa è anche una galleria di personaggi femminili tra cui brilla il ritratto di Ernesta Bittanti, vedova di Cesare Battisti. Nel 1939 sfidò il divieto di pubblicare necrologi sugli ebrei imponendo al Corriere un suo ricordo dell’ingegnere Augusto Morpurgo. Per il mondo ebraico fu una mano tesa sotto la tempesta. La storia sarebbe stata diversa se più persone avessero compiuto gesti come quello di Ernesta? La domanda della studiosa arriva dritta alla coscienza, come tante altre che attraversano una storia che è necessario conoscere.