Claudio Tuniz | La Lettura | 8 gennaio 2023
Secondo le Nazioni Unite, il 15 novembre 2022 la popolazione umana ha superato gli 8 miliardi di persone (pari al 7% di tutti gli esseri umani mai vissuti). All’inizio della rivoluzione agricola, circa 10 mila anni fa, eravamo meno di 4 milioni, numero che è lentamente salito a circa 800 milioni alle soglie della nostra prima rivoluzione industriale. Rispetto alla tempistica dell’evoluzione umana, che supera i due milioni di anni, il numero di umani in vita si è dunque impennato (e concentrato) soltanto negli ultimi due secoli. Oggi abbiamo talvolta la sensazione di vivere in un formicaio, con metropoli che superano i 20 milioni di abitanti. Secondo le stime dei paleo-demo grafi, intorno a 100 mila anni fa la nostra specie comprendeva in tutto qualche decina di migliaia di persone raggruppate in bande che non superavano il centinaio, e gli incontri con altri gruppi erano rari. Vivevano quasi tutti in Africa, la cosiddetta culla dell’umanità, ma incominciavano a disperdersi verso altri continenti. Noi Sapiens non eravamo i soli umani intelligenti del pianeta, ma le altre specie «diversamente umane» costituivano una presenza più discreta.
Oggi abbiamo le prove che noi scuri e slanciati Sapiens africani, dalla testa tonda e dal volto aggraziato ed espressivo, abbiamo avuto incontri molto intimi con altre specie intelligenti, come i pallidi Neanderthal eurasiatici, dal corpo più robusto, faccia prognata, arcate sopracciliari prominenti, e cranio allungato all’indietro. Lo stesso è accaduto con una seconda specie umana di origine asiatica, di cui purtroppo non conosciamo ancora la fisionomia. Alcuni resti di una donna appartenente a questa specie, soltanto il dito mignolo e pochi denti, sono stati rinvenuti pochi anni fa nella caverna di Denisova, alle pendici dei monti Altai, in Siberia. Nello stesso luogo è stato trovato anche il frammento del femore di una donna ibrida con padre denisoviano e madre neanderthaliana.
Sappiamo tutto questo grazie a Svante Paabo, il premio Nobel 2022 per la Fisiologia e la Medicina, che ha inventato la paleogenomica, una disciplina che ci rivela questa e sorprendenti storie del nostro passato profondo. Nel 2010, il gruppo da lui diretto al Max Planck lnstitute for Human Evolution di Lipsia ha sequenziato sia il genoma dei Neanderthal che della denisoviana senza volto. Ma per noi è molto importante conoscere la fisionomia dei nostri lontani antenati.
Guido Barbujani, genetista di fama internazionale e gran divulgatore, ci spiega il perché nel suo libro più recente Come eravamo. Storia dalla grande storia dell’uomo (Laterza, 2022). Immaginare i loro tratti e il loro stile di vita ci aiuta a stabilire con loro un contatto emozionale: un elemento chiave della nostra evoluzione. Con l’aiuto di splendide illustrazioni, veniamo guidati nella preistoria attraverso una divertente galleria di ritratti. Nell’incontrare lo sguardo di Lucy, l’australopiteco che fu forse un nostro parente diretto, cerchiamo di interpretare il suo sorriso enigmatico. Nell’osservare il Ragazzo del Turkana, vissuto 1,6 milioni di amni fa in Africa Orientale, e appartenente a Homo ergaster, ci emoziona sapere che fu probabilmente il primo umano a controllare il fuoco, e quindi a dare una svolta decisiva alla nostra linea evolutiva. Nella Caverna delle Ossa (Pestera cu Oase) in Romania, incontriamo un Sapiens di 37 mila anni fa che aveva un trisavolo neandertaliano.
In seguito, ci imbattiamo in Otzi, lo sciamano tatuato vissuto 5.200 anni fa, emerso dal ghiacciaio di Similaun nel 1991. In Inghilterra incontriamo Cheddar Man, un Sapiens che, 10 mila anni fa, aveva ancora la pelle scura (nonostante la latitudine), i capelli neri e riccioluti e gli occhi azzurri.
Quest’ultimo caso offre a Barbujani l’opportunità di promuovere la sua instancabile battaglia contro il razzismo. Ci rendiamo conto che tutti questi parenti lontani non erano «anelli mancanti» o umani incompleti, nella grande marcia verso il progresso (cioè verso noi Sapiens di oggi) ma esseri perfettamente adattati all’ambiente in cui vivevano.
Le immagini del libro derivano da ricostruzioni a grandezza naturale prodotte da bravissimi paleoartisti, come la francese Elizabeth Daynés. Visitando il suo atelier di Parigi, ho potuto constatare di persona quanto sia laborioso ottenere una fedele replica di un Neanderthal. Volto e corpo sono modellati con i metodi delle scienze forensi. La struttura ossea viene ricoperta con una fedele replica dei nostri tessuti. Peli e capelli vengono inseriti con precisione. Il tocco finale è costituito dagli occhi, anch’essi incredibilmente realistici. Questo può avvenire grazie alla paleogenomica, che ci permette di conoscere con esattezza il colore della pelle, dei capelli e degli occhi di un reperto. In particolare, forse solo noi Sapiens siamo dotati di una sclera perfettamente bianca, un dettaglio che si rivelerà importante per la nostra socializzazione, poiché aumenta le capacità espressive dei nostri occhi.
Le tecniche isotopiche forniscono molti indizi sullo stile di vita dei nostri progenitori. Conoscendo l’ambiente e il clima, tra le diverse ere glaciali e interglaciali, possiamo valutare i loro spostamenti sul territorio, la loro dieta e i loro impatti sull’ambiente. Con le analisi dei loro denti — vere «scatole nere» della vita riusciamo a determinare quando raggiungevano l’età dello sviluppo e perfino rilevare eventuali sofferenze fetali. Possiamo quindi generare sia modelli sulla loro evoluzione biologica (grazie alla paleoantropologia) sia modelli sulla loro evoluzione culturale (grazie all’archeologia) con lo studio di strumenti litici, arte rupestre e altri prodotti materiali.
Ma è stata la paleogenomica a dare il maggiore contributo a questi studi, con l’uso di nuove tecniche di sequenziamento del Dna e dell’intelligenza artificiale per analizzare i Big Data genetici. Il confronto del nostro genuina con quello dei Neanderthal e dei Denisoviani svela non solo la promiscuità delle diverse specie umane, ma anche effetti che ci riguardano direttamente. I frammenti di Dna ereditati dai Neanderthal sono associati, fra l’altro, alla nostra predisposizione al diabete, alla cirrosi epatica, alle dipendenze e ai sintomi più gravi del Covid-19. In passato, ci sono stati anche effetti positivi, che hanno accelerato l’adattamento dei nostri antenati agli ambienti glaciali dell’Eurasia. Questi però sembrano diventati controproducenti nel mondo attuale, caratterizzato da minori rischi di sopravvivenza nell’ambiente naturale e da maggiori rischi legati alla nostra socialità e a uno stile di vita più sedentario.
La genetica permette di studiare anche le migrazioni dei Sapiens del passato profondo e l’emergere di società più complesse e gerarchiche, in presenza di surplus di risorse, già a partire da 10 mila anni fa. Le cause della straordinaria crescita demografica di questi ultimi secoli potrebbero risalire al tardo Pleistocene, quando emergono importanti differenze genetiche, anatomiche, neurali, fisiologiche e comportamentali tra noi e le altre specie umane estinte. La singolare rotondità del nostro cranio, dovuta al rigonfiamento della corteccia parietale, si associa, ad esempio, alle componenti cerebrali coinvolte nell’integrazione visuo-spaziale e nel coordinamento cervello-corpo-strumenti-ambiente. Questo comincia a favorire una maggiore socialità e una migliore integrazione con l’ambiente. A queste trasformazioni viene associata l’emersione di nuove capacità cognitive, quali saper contare, sviluppare una memoria prospettica, generare pensiero simbolico e persino produrre musica. I Sapiens svilupparono anche tratti anatomici più gracili, un aspetto meno minaccioso (più vicino a quello femminile) e il mantenimento di comportamenti giovanili in età adulta. Si tratta di caratteri tipici della cosiddetta sindrome da autodomesticazione, osservata anche in alcuni animali, nella quale l’aggressività diminuisce all’interno di una certa domus, ma aumenta nei confronti dell’esterno.
Per concludere, il cantiere per la costruzione di Homo sapiens ha una lunga storia ed è ancora aperto. Come dice Edoardo Boncinelli, l’essenza dell’umano è in continuo divenire. Si tratta di un processo circolare tra biologia e cultura che coinvolge cervello, corpo, oggetti, strumenti, ambiente naturale e sociale. Dall’analisi dei singoli individui serve procedere verso l’analisi delle società che hanno saputo e voluto formare. Se questo è stato sicuramente il segreto del nostro successo, alla fine potrebbe costituire anche la ragione del nostro declino. Siamo ormai tutti vincolati alle condizioni di sopravvivenza determinate dal nostro organismo sociale, un corpo collettivo che recentemente è cresciuto a dismisura fino a formare un superorganismo, sempre più energivoro, bellicoso, conflittuale e invasivo, con effetti devastanti sul pianeta.
Anche se come individui possiamo fare poco, potremmo comunque guardarci negli occhi e usare i nostri neuroni specchio anche per generare empatia e cooperare, e non solo per dividerci in tribù eternamente contrapposte.