letture.org | 27 dicembre 2023
Prof. Federico Canaccini, Lei è autore del libro Il Medioevo in 21 battaglie: che spazio ha occupato, la guerra, nella vita degli uomini dell’Età di Mezzo?
Quando si dice “Medioevo” si compie un’astrazione talmente grande che è difficile offrire una definizione soddisfacente, e lo si fa sia nello spazio che nel tempo. Medioevo dove? Medioevo quando? La geografia del Medioevo a cui siamo abituati si ferma quasi sempre poco oltre Costantinopoli e da un punto di vista cronologico raramente ci si spinge prima del 476 e oltre il 12 ottobre del 1492. Mille anni di storia racchiusi in una sola parola: come a dire di associare gli uomini del 2022 con quelli del 1022. Un po’ eccessivo! Nel libro si offre un’Età di Mezzo volutamente non eurocentrica e che rompe gli argini geografici e cronologici a cui siamo stati abituati sin dai tempi della scuola. Altro aspetto ineludibile del Medioevo è una scansione degli eventi legata alla guerra, alla perenne conflittualità, ad un apparente stato endemico di violenza, sempre e dappertutto. “La guerra pubblica o privata è uno dei meccanismi funzionali della società medievale. Nella mentalità delle élites medievali, la guerra è un’eredità ancestrale e una costante antropologica. Non solo l’economia, ma tutta la vita quotidiana del Medioevo è largamente influenzata da questa antica festa crudele” ha scritto Mario Sanfilippo citando anche il titolo di un famoso libro di Franco Cardini. La storia medievale ha inizio, come è noto, con un grande scontro di civiltà che ha determinato uno dei più grandi preconcetti nella storia del pensiero occidentale. Il confronto tra le popolazioni germaniche e la civiltà classica – e l’aggettivo la dice già lunga! Classica: il punto di riferimento a cui dovranno adeguarsi tutti gli altri! – ha creato nel corso dei secoli un’antinomia fra una certa idea di stato, di bellezza, di estetica a cui è stata contrapposta una di rozza barbarie. I secoli a cavallo della fine di Roma furono certamente caratterizzati da una fase di violenza, ma fu probabilmente più l’idea che Roma morisse sotto i colpi dei Barbari a determinare l’idea di un Medioevo barbarico e violento. I secoli centrali sarebbero stati caratterizzati da lotte tra signori, tra regni nascenti, tra comuni, ma anche tra civiltà profondamente diverse fra loro. Infine anche la conclusione del Medioevo è associata a uno stato di guerra endemico: un conflitto secolare tra Francia e Inghilterra, un altro pure eterno contro il Turco, e infinite guerre a livello regionale. Davvero l’idea che venne trasmessa fu quella di un’epoca fatta di guerre e di violenza: ad ereditare questo concetto furono gli Umanisti che, idealmente, si collegarono ancora una volta all’età romana. Ecco allora che i brutali uomini d’arme prezzolati, i mercenari, diventano i “condottieri”, non deprecati, ma quasi esaltati per le loro doti assimilabili a quelle dei grandi generali romani, rinforzati dal concetto del Miles christianus di epoca medievale. La statua del Gattamelata non è forse l’imitazione di un Marco Aurelio? Eppure si sta parlando di un soldataccio che fa la guerra per arricchirsi, non certo di un eroe positivo. O forse sì: si tratta di quale interpretazione si decide di dare.
Perché sono proprio ventuno le battaglie da Lei individuate e raccontate?
Il libro è in parte eccentrico: 21 e non 20, una copertina non ordinaria e in parte fastidiosa, con quel fiotto di sangue anti-convenzionale per l’editoria, e una scelta di episodi militari medievali che, col Medioevo occidentale, hanno apparentemente poco o nulla a che fare. La volontà di uscir fuori da quei limiti mentali che ci siamo autocostruiti come identità di Occidente medievale, doveva dunque in qualche modo apparire già nel titolo. Quella “ventunesima battaglia”, volutamente stridente anche al nostro sistema decimale, non deve essere necessariamente identificata con l’ultimo capitolo, anche se è quello che forse meglio si presta a rendere l’idea di travalicamento degli spazi e dei limiti cronologici del “nostro Medioevo”. Il capitolo finale è, infatti, dedicato alla conquista di una favolosa città edificata in mezzo ad un enorme lago salato, una laguna, con case intervallate da canali e solcate da decine di piccole imbarcazioni: non sto parlando della conquista di Venezia, ma di Tenochtitlàn, capitale dell’Impero azteco. Lo spartiacque del 1492 – forse la data che ha avuto più successo tra quelle proposte dagli storici quale cesura tra Età Medievale e Moderna – ci induce ad arrestarci ancor prima che Colombo salga a bordo della Santa Maria: ciò che sta per accadere non appartiene, infatti, più al Medioevo! Ma, invece, quegli uomini sono figli del Medioevo, sono nati nel Medioevo, le idee che portano con sé sono le stesse, le armi e le strategie non cambiano. Piuttosto, gli Spagnoli – che proprio quello stesso anno completano la secolare Reconquista della penisola iberica – arriveranno sulle coste del Messico, intrisi di profetismo e convinti della necessità di recuperare il Santo Sepolcro, usando l’oro che abbonda in quelle terre: sono le idee propugnate da Enrico V Lancaster e quelle scritte su una missiva ai reali di Spagna da Cristoforo Colombo. Quanto di vero e quanto di propagandistico ci fosse in tutto ciò, questo, naturalmente, fa parte dello sporco gioco della guerra e degli affari.
Negli ultimi decenni, gli storici si sono progressivamente svincolati da quella che è stata polemicamente definita Histoire-bataille, la storia fatta solo di battaglie: in che modo le battaglie possono essere considerate come la chiave per accedere ad un mondo in realtà molto più ampio?
Le battaglie sono un argomento che affascina molti lettori: ciò è dovuto in parte alla apparente facilità di accesso all’argomento, ai colori dei due schieramenti – colori politici, etnici, culturali, linguistici ma anche i colori legati alle divise, alle bandiere, ai pennacchi – al responso finale – un vincitore e un vinto – e alle conseguenze di tale scontro. Purtroppo c’è anche il fascino della violenza e della guerra che attira in modo piuttosto morboso l’uomo e il lettore: per questo sarà utile provare a lasciare tra le righe anche qualche spunto di riflessione tra le pagine di un libro che di guerra parla, ma che di certo non la esalta. Raccontare la storia di mille anni e di un mondo così vasto, come quello tratteggiato nel libro, tramite appena 21 fatti d’arme è naturalmente un escamotage. La cosiddetta Histoire bataille è stata a lungo celebrata e poi criticata dalla storiografia che la vedeva come riduttiva: non si può, in effetti, ridurre la storia a una sequela di scontri, come se fossero questi a decidere le sorti dell’umanità. Ma se l’approccio è magari in parte nuovo, allora forse le battaglie possono divenire una chiave di lettura per esplorare un’epoca, anche lunga, come quella del Medioevo, e mondi che di volta in volta si scontrano. Ecco: la battaglia rappresenta certamente lo scontro tra due o anche più civiltà. Ciò che ho voluto tentare di fare è stato anche osservare gli incontri e magari gli scambi che sono intercorsi. Di certo 21 battaglie, e altrettanti capitoli, non esauriranno la storia medievale, ma non è questa la pretesa del libro. Al di là delle pagine dedicate al mero scontro militare, ogni capitolo offre pagine e pagine dedicate alla popolazione, o alla civiltà presa in esame: si parla di evoluzioni tecnologiche legate alla guerra – certamente! – ma si delineano anche usi e costumi dei popoli analizzati. Si tratteggiano i protagonisti, dove si può, mettendo a frutto fonti contrastanti tra loro, spesso finalizzate a demonizzare l’avversario, delineato come un violento conquistatore assetato di sangue, ma si parla anche di credenze e pratiche religiose e perfino di abitudini alimentari: insomma, alla fine, le battaglie sono un ottimo pretesto narrativo per parlare di molto altro.
Nel volume troviamo tutte le battaglie più note, da Hastings ad Azincourt, da Poitiers a Bouvines, ma anche ‘fatti d’arme’ remoti come quelli di Badr, Tarain e Diu o la battaglia combattuta sulle rive del lago Texcoco, in Messico: in che modo il loro racconto ci permette di valicare i confini culturali del nostro Medioevo?
Nello scrivere l’indice del libro mi sono reso conto di come anche io fossi imbevuto della visione eurocentrica ricevuta nel mio percorso di studi. Sono stati certamente i viaggi compiuti – forse più che le letture – in luoghi remoti e decisamente più sfortunati della ricca Europa a farmi interessare sempre più all’Altro, anche da un punto di vista narrativo e storiografico. La scelta dei 21 capitoli è stata dettata dalla volontà di raccontare in modo diacronico più di dieci secoli, includendo gran parte della storia mondiale, non per vezzo o per originalità obbligatoria. Scorrendo le pagine ci si renderà conto, infatti, che questi mondi – largamente esclusi dalla manualistica occidentale – per più di un verso sono intimamente connessi con la “nostra storia”. E non parlo solo di quei capitoli palesemente lontani, come quello dedicato al mondo del Giappone o dell’India. A ben guardare, già il mondo slavo e quello balcanico, non hanno goduto della dignità di figurare nella storia d’Europa, né medievale né moderna. Quando è accaduto è stato sempre e solo in funzione degli eventi d’Europa: quando gli Ungari attaccano l’Europa, allora si può dedicare loro un paragrafo, specie dopo che decidono di convertirsi al cristianesimo, quando si parla di Gerusalemme è perché la città è méta dei pellegrini occidentali, quando ci si dilunga sull’Impero di Bisanzio è perché è contrapposto a quello d’Occidente. Talvolta ciò è dovuto alla penuria delle fonti, ma in larga parte anche ad una quasi naturale volontà di inconoscibilità degli altri. Ogni capitolo, invece, vuole provare a ampliare un poco la conoscenza su singoli mondi, creando talvolta delle connessioni, dei riferimenti, dei rimandi che spesso relativizzano il “nostro orizzonte del Medioevo europeo”. Facciamo un esempio. Lo stesso giorno del 1260 in cui sulla piana di Montaperti si consumava lo scontro tra Siena e Firenze, battaglia percepita come episodio chiave della storia comunale italiana, ad Ayn Jalut una gigantesca armata di fede islamica sconfiggeva un esercito mongolo, definendo il confine tra mondi diversi, con conseguenze ben più significative di quelle locali legate alla lotta comunale, amplificabile al conflitto tra Svevi e Angioni e financo tra Papato ed Impero. Se osservati da un punto di vista geopolitico, il paragone non regge: ma nella mentalità italiana, complice anche Dante Alighieri, Ayn Jalut semplicemente non esiste. E, in fondo, che in questo libro non ci sia neppure una battaglia tra i comuni, sembra quasi un affronto!
Come è avanzata l’arte della guerra nei mille anni del Medioevo?
La guerra è sempre stata portatrice di progresso tecnologico: per quanto triste e tragico sia doverlo ammettere, per affinare il modo di uccidere il nemico, l’uomo da sempre ha messo a frutto il proprio ingegno, piegandolo a fini mortali. Lo ha espresso bene Salvatore Quasimodo nella sua poesia “Uomo del mio tempo”, e il poeta si riferiva all’uomo del XX secolo: “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta”. Lo stupore di Quasimodo non era poi così diverso da quello di intellettuali medievali come Bernardino da Siena o Giacomo della Marca.
Nel corso del Medioevo si è assistito ad una serie impressionante di evoluzioni e certamente non solo nell’arte della guerra. Ma ciò che poteva essere utile in ambiti non bellici, ha trovato ben presto impieghi letali in ambito militare: l’evoluzione delle forme degli elmi, segue di pari passo l’evoluzione delle armi offensive, ed è impressionante vedere quante varianti appaiano nel giro di pochi decenni nelle armi in asta, letali trasformazioni per lo più di strumenti agricoli. I secoli iniziali del Medioevo sono caratterizzati da un confronto tra tattiche diverse, ma sbaglieremmo ad immaginare le legioni romane di V secolo uguali a quelle di Traiano, che combattono con orde di barbari come quelli che vide Cesare in Gallia. Si diffonde la staffa, la balestra, gli scudi appaiono e scompaiono, si allargano, si restringono. Alla fine del Medioevo compare in Occidente l’impiego della polvere pirica, l’esplosivo, che ha rivoluzionato il modo stesso di fare la guerra. Ad oggi, purtroppo, la guerra si fa ancora così: si sono solo evoluti gli strumenti per lanciare quelle medesime bombe che atterrivano i campi di battaglia già nel XIV secolo. Un tempo si parlava di falconetti e bombarde, poi si parlò di cannoni e spingarde, per arrivare a carri armati e katiusce. Oggi si parla di droni: ma il risultato non cambia.