Lo sterminio attuato dai burocrati di Hitler
Gianni Santamaria | Avvenire | 17 febbraio 2023
Nella ricerca sul nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei la lente degli storici si è nel tempo, a partire dagli anni ‘80-‘90 sempre più puntata sull’aspetto economico. Di recente Johann Chapotout in Liberi di obbedire (Einaudi 2020) ha messo al centro una figura emblematica di quel sistema che univa efficientismo e sistemi manageriali, mettendoli al servizio della causa di Hitler: Reinhard Höhn, che – fattala franca – nel dopoguerra fu un affermato formatore di dirigenti d’impresa. Ora la storica Anna Veronica Pobbe, utilizzando una vasta mole di documenti, pubblica uno studio che dà conto di come questa «galassia, composta da manager, banchieri, professionisti e dirigenti di grandi gruppi industriali, ebbe un peso non indifferente nelle politiche attuate dal Terzo Reich; come dimostra la grande importanza che venne accordata a questioni quali la contabilità, la ricerca delle più piccole economie e il recupero sistematico di tutti i sottoprodotti; oppure ancora l’efficacia tecnica dei centri di sterminio che si ispirò al modello delle fabbriche». Punto di partenza di Un manager del Terzo Reich è la figura di Hans Biebow, l’amministratore del ghetto di Lodz (Litzmannstadt). Quando nel 1947 le autorità giudiziarie polacche lo portarono alla sbarra, lo considerarono tra i dieci peggiori criminali nazisti in circolazione, alla stregua di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, di ArthurGreiser, Gauleiter della Wartheland (una delle suddivisioni del Paese occupato) e di Hans Prank, governatore generale della Polonia. E, infatti, lo impiccarono. Rispetto al già citato Höhn, che apparteneva alle Ss, Biebow era però un semplice civile, un Kaufmann, un commerciante, come lo definisce l’autrice. Un uomo comune, insomma, che nella foto di copertina appare in giacca e cravatta, ben rasato, mentre in primo piano un uomo dalla barba incolta porta un cappottone con sopra una stella gialla.
Quella di Biebow è una figura sinora trascurata dalla storiografia, con l’eccezione di Christopher Browning al quale, nota l’autrice, si deve l’elaborazione della nuova categoria criminale del “ghetto manager”; che, nota, ha dei limiti, ma che ha contributo a rompere la rigidità degli schemi interpretativi Le Ss, giustamente avvolte da un alone di tenore, erano state, infatti, almeno fino al caso Eichmann, una sorta di capro espiatorio di tutte le responsabilità. Che pian piano, sulla scorta di concetti come la “banalità del male” hanno preso, invece, sono state attribuite anche alla Wehrrnacht e ad attori civili, zelanti esecutori di ordini. Burocrati, sì, ma ben selezionati per le loro capacità organizzative e parte attiva nell’ideologia di regime. A muoverli era anche l’ambizione, come dimostra proprio la vicenda di Biebow. La sua direzione del ghetto fu, infatti, improntata a criteri manageriali e si mosse sotto le direttive ideologiche e funzionali dettate da Greiser. Non sempre fu così per le amministrazioni dei ghetti e in genere per i “quadri amministrativi” scelti dal regime, che spesso invece finirono con l’avere attriti con i gerarchi che li consideravano «burocrati strapagati». Biebow invece riuscì a far durare il ghetto fino al1944, ben oltre l’inizio dei massacri su larga scala, tanto da essere preso in considerazione da Himmler per guidare il ghetto “modello” di Terezin (Theresienstadt). In realtà la produttività del ghetto era molto esagerata e frutto di un’operazione di propaganda. Tale longevità, sottolinea Pobbe, fu dovuta non tanto alla volontà ebraica di sopravvivere, quanto al passaggio da una mentalità di espropri “selvaggi” a un «sistema basato sulla produzione industriale». Il disprezzo di Biebow fu esplicito non solo verso gli ebrei, che fece deportare nei lager della morte, ma anche nei confronti degli zingari, considerati inabili al lavoro e per questo confinati una zona apposita. Di lui si diceva che avesse reinvestito i profitti accumulati per rendere lussuosa la sua casa di Brema, città dove era nato nel 1902, e che fosse dedito all’alcol, facile agli scatti d’ira e umiliasse le prigioniere ebree facendole denudare per il piacere perverso di guardare corpi femminili smagriti dalle privazioni. Nel processo venne descritto come «l’esempio perfetto delle “bestie bionde” naziste – conclude Pobbe – nonostante poi sia stato principalmente condannato perché facente parte di un’associazione criminale». Un profilo, in conclusione, che non si adatta a una sola categoria di persecutore – assimilabile com’è anche ai medici nazisti e alle guardie dei campi di concentramento – e che mostra tutta la complessità del Terzo Reich e della sua pratica genocidiaria.