Secondo Nancy Fraser viviamo in un sistema cannibalesco che consuma senza sosta risorse umane e materiali. Anche se riesce a mascherarsi assumendo forme rassicuranti
Carlo Bordoni | La Lettura | 19 marzo 2023
L’uroboro è un serpente che si morde la coda, simbolo alchemico del potere che si consuma e si rigenera. Ma anche della circolarità del tempo (Nietzsche) che si ripete all’infinito. Per Nancy Fraser, filosofa femminista della New School for Social Research di New York, l’uroboro può rappresentare bene il capitalismo. In Capitalismo cannibale (Laterza) ipotizza la sua capacità di crescere a dismisura attraverso la pratica auto-fagocitatrice degli stessi elementi che servono alla sua sopravvivenza. Cannibalizza le ricchezze della natura, soprattutto, senza provvedere a reintegrarle, assieme ai lavori di cura, le cui energie sono dirottate altrove, e persino le capacità politiche, destituite di ogni potere decisionale, con una continua opera di sfruttamento ed espropriazione a carico delle persone più deboli. Malgrado questa continua attività autodistruttiva, il capitalismo riesce a progredire e a rigenerarsi, in barba a ogni logica.
Fraser non ha dubbi: partendo da una tesi che sembrava superata, la traduce in un manifesto di critica sociale ed economica dai toni durissimi. Infatti di capitalismo non si parlava quasi più, sembrava un termine obsoleto, da «padroni delle ferriere», fuori luogo in tempi di lavoro immateriale, di finanziarizzazione e di globalizzazione. Persino la classica equazione «capitalismo uguale lotta di classe» sembrava caduta per effetto della dismissione dei termini. Che senso ha una lotta di classe senza il capitalismo?
L’ultima volta primeggiava nelle pagine del saggio di Marshall Berman Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria (il Mulino), ma erano gli anni Ottanta. Partendo da un’affermazione di Karl Marx, Berman scriveva che il capitalismo è per sua natura mutevole, proprio perché moderno. È instabile, si nutre di una modernizzazione continua, consuma risorse, idee, prodotti, mode. Crea nuovi equilibri, seguendo un processo incessante di dissolvimento e di ricreazione. Se si vuole contrastarlo è necessario cavalcare il cambiamento e magari precederlo.
Dell’idea di Berman resta molto in Nancy Fraser, grazie alla quale scopriamo che il capitalismo aveva alimentato le varie crisi che si sono succedute, compresa la pandemia, per tornare ogni volta più forte che mai. A perire sono stati semmai i suoi avversari, debitamente cannibalizzati o cooptati al suo servizio.
Perché c’è un aspetto su cui insiste: che il capitalismo non è un sistema economico, bensì un sistema sociale. Nato con la modernità, ha realizzato la prima grande frattura con il passato separando il «lavoro produttivo salariato» dal «lavoro riproduttivo non salariato», con una netta divisione dei ruoli. La produzione (retribuita) è riservata principalmente al genere maschile e i compiti relativi alla riproduzione e alla cura (non retribuiti) al genere femminile, determinando così «le moderne forme capitalistiche di subordinazione delle donne». Unitamente a un sistematico sfruttamento e a un’espropriazione delle ricchezze, al punto di privare di energia gli stessi agenti produttivi e riproduttivi da cui trae sostegno.
È in questa contraddizione insanabile, in questa continua dispersione e cannibalizzazione delle ricchezze naturali, umane e politiche che lo supportano, che il capitalismo si rafforza.
L’analisi di Fraser è radicale, svolta a tutto campo, quasi globale, nella sua comprensione degli eventi e delle tendenze. Offre al lettore una visione complessiva lucidamente destabilizzante dell’idea che abbiamo di una società tendenzialmente progressista, che deve ancora fare i conti con tante criticità e disuguaglianze.
Fraser avverte che per comprendere il reale status del nostro mondo è necessario andare a scavare nelle «sedi nascoste» della produzione. Si scoprirà che il capitalismo come forma di vita, stabilmente radicato nella mente dell’umanità moderna, nella sua capacità proteiforme, ha assunto volti rassicuranti e ha palesato soluzioni in apparenza innovative, sulle quali si è riversata la critica collettiva. Come nel caso del neoliberismo, che non è altri che il vecchio capitalismo sotto mentite spoglie, utile a deviare l’attenzione generale verso obiettivi secondari.
Alla fine Nancy Fraser non perviene a soluzioni, se non quella di «affamare la bestia». Obiettivo non facile, se dopo secoli di lotte e di faticose conquiste (in parte ritirate) dipendiamo ancora dalle idee di Marx esposte nel suo capolavoro Il Capitale.
La società attuale, sempre più individualizzata, sembra avere risolto i problemi generali a livello strettamente personale, ma sempre all’interno della stessa logica di accumulazione del valore. La privatizzazione delle vite riserva a ognuno il compito di risolvere i propri problemi, senza intaccare il sistema nel suo insieme. È una forma di sopravvivenza basata su un tacito accordo tra il singolo e il grande cannibale: l’importante è che lasci intatto il piccolo spazio personale in cui agire. In attesa della giusta soluzione, che non avverrà affamando la bestia e neppure attraverso una rivoluzione, meglio affidarci alla speranza di un lento declino. Se il capitalismo è nato con la modernità, solo la fine della modernità potrà cancellare la «sede nascosta» in cui nasce la cultura del capitalismo. È solo questione di tempo.