La filosofa e femminista americana Nancy Fraser nell’ultimo saggio analizza ingiustizie e storture del libero mercato. E qui spiega come uscirne
Eugenio Occorsio | la Repubblica | 12 marzo 2023
«Tocca da molti secoli ai neri e a tutti gli emarginati l’infausta sorte di subire spoliazioni ed espropriazioni di beni e diritti, ed essere infine costretti a fuggire dalla violenza, dalla povertà e dai disastri, prodotti oggi anche dal cambiamento climatico, per poi venir confinati in gabbie alle frontiere o lasciati annegare in mare». Nelle parole di Nancy Fraser, filosofa, femminista, docente di scienze politiche in quella fucina del pensiero progressista che è la New School for Social Research di New York, c’è la disperazione per le sciagure sulle coste italiane, non diverse da quelle vissute sul Rio Grande alla frontiera fra Usa e Messico: «Un eterno memento dell’egoismo di una società opulenta che non vuole condividere le risorse con gli sventurati del Sud del mondo se non sfruttandoli: il capitalismo continua a nutrirsi di diseredati finché si distruggerà per la sua cieca ingordigia», dice la professoressa della quale è appena uscito per Laterza Capitalismo cannibale, uno spietato baedeker utile per la sinistra di tutto il mondo, inclusa quella italiana che si alimenta di rinnovate speranze.
Con il capitalismo, che come diceva Marx pretende che la proprietà dei mezzi di produzione risieda in pochi eletti, siamo ormai abituati, ci piaccia o no, a identificare il libero mercato. Perché è “cannibale”?
«Perché l’occidente storicamente ha espropriato e sfruttato risorse che non gli appartenevano senza dare nulla in cambio, anzi spesso riportandosi indietro uomini e donne per continuare a usarli come carne da lavoro. E perché ancora persegue la stessa logica con gli stipendi da fame che non arrivano a fine mese, con orari massacranti, con contratti inesistenti o non protettivi, e poi con speculazioni finanziarie, il più delle volte ai danni delle stesse classi svantaggiate che per esempio sono vittime dei prestiti capestro delle banche. Tutte queste tensioni portano sistematicamente a gravissime crisi economiche di cui tutti facciamo le spese: ecco il “cannibalismo” del capitalismo».
Un discorso parallelo, al quale dedica ampi capitoli, riguarda la condizione femminile. Malgrado i progressi, c’è ancora molto cammino?
«Resistono situazioni che ricordano il XIX secolo, quando la rivoluzione industriale portò al conflitto frontale tra la produzione e la parte “non economica” del contratto sociale: la cura di casa, bambini e anziani riservata alla donna e non pagata. Era così stridente lo scontro fra classi lavoratrice e riproduttiva che Marx ed Engels erano sicuri che si fosse vicini alla svolta. Invece il processo prosegue con esasperante lentezza».
Una politica progressista, chiamiamola socialista, farebbe meglio in questo come in tutti gli altri campi?
Certo. Un nuovo ordine sociale deve superare il dominio di classe, le asimmetrie sociali, l’oppressione etnica e razziale. Ma il capitalismo è un sistema più forte di qualsiasi Stato e impone le sue regole. Ogni tanto distrugge se stesso ma si riproduce senza che si riesca a creare una barriera di contenimento. Il potere dell’economia sulla politica ha ridotto la sfera del processo democratico: quando le decisioni, non solo relative alla produzione, sono devolute alle imprese e alle banche, a controllare il destino del pianeta non siamo noi ma la classe dominante dei capitalisti».
Thomas Piketty propone una supertassa mondiale sulla ricchezza e poi aliquote progressive fino all’80-90%. Basta a contenere il potere dei ricchi e consentire agli Stati di creare le infrastrutture necessarie?
«A parte che non mi sembra verosimile, non basterebbe. È il sistema in sé che va cambiato. Devono emergere forze politiche in grado di unificare i poveri, gli sfruttati, le vittime del razzismo compreso quello contro i migranti, per rinnovare completamente i rapporti economici e sociali».
Le sembra possibile?
«È dura. Eppure il vuoto da riempire c’è, l’occasione è a portata di mano: Gramsci direbbe che è in crisi l’egemonia del neoliberismo, che dà valore solo al libero mercato perché questo risolverebbe tutto senza interventi statali. Una teoria che ha pervaso l’occidente dal dopoguerra ma ha creato tali diseguaglianze che viene finalmente messa in discussione. Senonché gli unici a inserirsi di prepotenza nel malcontento diffuso sono i populisti di destra con le loro false promesse troppe volte vincenti».
Perché scrive che perfino il Covid è un byproduct del capitalismo?
«La pandemia è stata causata dallo sfrenato bisogno di arricchimento che calpesta qualsiasi regola del buon senso. Accomuna il mondo ma ha provocato la diffusione del virus, che viveva nel profondo delle caverne abitate dai pipistrelli ed è stato portato alla luce dal riscaldamento globale e dall’urbanizzazione frenetica di Wuhan in una zona selvaggia, due colpe lampanti del capitalismo. La sfrenata globalizzazione l’ha diffuso in un lampo».
È sicura che non sarebbe successo tutto lo stesso?
«Non si conoscono le origini del Covid ma di certo il virus è arrivato da noi perché gli è stato consentito, anche se inizialmente l’avevano imbavagliato in qualche laboratorio chimico. Ha avuto come vettori degli animali come le scimmie per l’Hiv o i maiali per la febbre suina. Cos’altro se non la sfrenata mania di dominare la natura porta a tutto questo?».
Un capitolo che invece non c’è, per motivi di tempi, è la guerra. Possiamo chiederle la sua posizione?
«L’attacco russo è feroce e orrendo. Però qualche espansione di troppo forse la Nato l’aveva tentata. Ormai è diventata una guerra per procura Usa versus Russia. A questo punto gli Stati Uniti devono rinunciare alla pretesa di ricreare l’immagine eroica da liberatori che si erano cuciti addosso nella seconda guerra mondiale ma poi hanno perso nelle tante disavventure successive. Non hanno più un’indiscussa autorità morale ed economica, quest’ultima messa in discussione dalla Cina, e devono sfoderare le armi della diplomazia. Se uno dei due vuole vincere sul campo, la guerra durerà in eterno».