Francesco Marzella | Avvenire | 16 febbraio 2023
Che Colombo e i suoi non siano stati i primi europei a metter piede in America, è cosa ormai da tempo acclarata. Le saghe islandesi ricordano i viaggi di alcuni coraggiosi che intorno all’anno mille si spinsero dall’insediamento islandese in Groenlandia (“la Terra verde”) verso un occidente ignoto, approdando prima a una terra coperta da ghiacciai e caratterizzata dalla presenza di rocce lisce, che fu pertanto ribattezzata Helluland (“la Terra delle pietre lisce”) e poi navigando ulteriormente fino a raggiungere una regione pianeggiante e boscosa, che chiamarono Markland (“la Terra dei boschi”). Di lì proseguirono ancora, fino a una terra cui diedero nome di Vinland (“la Terra del vino”) dove si fermarono per un po’ prima di far ritorno in Groenlandia. Alcuni testi menzionano anche l’incontro, degenerato in scontro, con le popolazioni locali, che avrebbero costretto gli islandesi a riprendere il largo sulle loro navi.
L’evidenza archeologica provò in seguito che il racconto delle saghe poteva effettivamente avere basi storiche. A l’Anse aux Meadows, sull’isola canadese di Terranova, furono ritrovate negli anni ‘600 le tracce di un insediamento vichingo che ebbe vita breve e servì probabilmente come base per esploratori che si sarebbero spinti anche verso terre più meridionali. L’insediamento è databile intorno all’anno mille, un dato compatibile col racconto delle saghe che prova come quel continente sia già stato raggiunto da europei quasi cinque secoli prima di Colombo.
C’è però un’altra parte della storia del rapporto fra Europa e Nuovo Mondo prima di Colombo che attendeva ancora di essere raccontata e che riaffiora da un testo inedito di metà Trecento. Poche righe che descrivono una terra rigogliosa, chiamata Marckalada, posta a occidente della Groenlandia, che secondo quanto raccontano «i marinai che frequentano i mari della Danimarca e della Norvegia», sarebbe popolata da giganti, come del resto si dedurrebbe da alcuni edifici costruiti con pietre così imponenti «che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi».
Si parla ancora di Markland, quindi. Non in Islanda o in un altro Paese scandinavo, ma questa volta in Italia, e più precisamente a Milano. Paolo Chiesa, professore di Letteratura latina medievale all’Università degli studi di Milano, ha dato notizia della scoperta per la prima volta nel 2021, con un articolo pubblicato sulla rivista accademica Terrae incognitae che ha suscitato grande clamore. Ora la scoperta viene raccontata anche in un saggio pubblicato nella collana I Robinson di Laterza, Marckalada. Quando l’America aveva un altro nome, che ha per protagonisti un autore trecentesco con la passione per la storia e la geografia e un manoscritto di cui a lungo si è sottovalutata l’importanza. Il cronista è un frate domenicano che risponde al nome di Galvano Fiamma, è attivo presso i Visconti e nutre ambizioni non necessariamente proporzionate al suo talento di prosatore. Sarebbe anche un autore prolifico, ma è troppo pedante e lascia spesso incompiute le sue opere per via delle revisioni continue mai portate a termine. Il manoscritto in questione non è un autografo, ma una copia eseguita da uno scriba milanese una cinquantina di anni dopo la morte dell’autore e forse commissionata dai Visconti. Sul finire del diciannovesimo secolo compare dall’altra parte dell’oceano, fra le donazioni fatte da un collezionista americano alla città di Omaha, nel Nebraska, mentre un centinaio di anni dopo viene messo all’asta perché l’amministrazione pubblica ha bisogno di far cassa e viene presentato come una copia del Cronicon maius di Galvano Fiamma. Grazie ai dettagli che trapelano dopo una seconda asta, si inizia a intuire, però, che il codice potrebbe contenere un testo diverso. Sarà proprio Paolo Chiesa, quando avrà la possibilità di esaminare il manoscritto per gentile concessione del nuovo proprietario, a confermare che in realtà si tratta dell’unico testimone di un’altra opera di Galvano, la Cronica universalis, ancora inedita. Dalle pagine del codice, trascritte dagli studenti coinvolti in un progetto didattico, è emersa, fra le altre cose, la menzione di Marckala(n)da, che rivela come anche nell’area mediterranea circolassero notizie di quella tersa lontana grazie alla «permeabilità di mondi, fra il Nord e il Mediterraneo, fra l’Est e l’Ovest». E dov’è che Galvano venne a conoscenza dei racconti dei marinai del Nord? Colombo dunque sapeva? Le possibili risposte a queste domande si possono trovare fra le pagine di Marckalada, che resta prima di tutto il racconto di una scoperta – di cui il lettore potrà valutare la portata – che illustra metodi e obiettivi del lavoro del filologo, esalta la ricerca «come atteggiamento e vestito» e vuole insegnare che «il sapere non è un dato, ma un processo» che porta a una comprensione della realtà sempre diversa e «mai definitiva».