Tra sfoghi telefonici e oltre 300 lettere con la Petacci, fatti privati e autocelebrazioni lo storico del fascismo Mimmo Franzinelli costruisce una (auto)biografia del Duce: il ritratto di un dittatore mosso non da un disegno per la nazione ma da pulsioni irrazionali, lucida follia e una volontà di potenza senza limiti
Mirella Serri | tuttolibri | 1 aprile 2023
«Fascismo regime» o «fascismo movimento» secondo la celebre distinzione fatta dal più grande interprete della dittatura, Renzo De Felice? Fascismo fondato sull’azione risolutrice dell’arditismo dannunziano e sull’imposizione dei valori della guerra oppure «regime» caratterizzato dai compromessi con la monarchia, con la classe dirigente tradizionale e con la Chiesa? Non è esattamente così: adesso a rimescolare le carte e a spiegarci i lati oscuri della personalità del Duce – che non fu mai «un grande statista», capace di progetti per uno sviluppo progressivo del Paese – arriva il nuovo libro di uno dei più noti storici del fascismo, Mimmo Franzinelli, Mussolini racconta Mussolini. Franzinelli costruisce un’antologia di testi autobiografici del Duce – dalle confessioni de «La mia vita dal 29 luglio al 23 novembre 1911» fino alle 300 e oltre lettere dell’epistolario con Claretta Petacci nei venti mesi trascorsi a Salò – e ci restituisce un’immagine degli umori, delle esaltazioni, degli improvvisi colpi di testa, delle voluttà e degli innamoramenti politici e culturali del Capo. Nulla a che vedere con un disegno della Nazione, bensì pulsioni irrazionali originate da un ego sconfinato, da un convincimento e da un autoconvincimento delle proprie «volontà di potenza» che non conoscono limiti. Lo storico parla di personalità borderline – simile a quella di Hitler – e di un regime schizofrenico, sottoposto agli alti e bassi degli «istinti» per i quali Mussolini si pensava dotato di un facoltà profetica, come chiamava le sue accensioni, le sue illuminazioni. Di questo aspetto del fascismo gli italiani sono stati prigionieri per venti anni.
Professor Franzinelli, lei descrive non solo l’ambito privato di Mussolini ma le sue folli autocelebrazioni e le cupe zone d’ombra che condizionano la vita pubblica. Tratteggia la figura del dittatore in balia di una lucida follia che non può non impressionarci. Come è arrivato a queste conclusioni?
«Operando selezioni dall’Opera Omnia di Mussolini curata da Duilio e Edoardo Susmel. Ho composto un’inedita sequenza autobiografica, nella quale è arduo distinguere il pubblico dal privato. Mussolini che parla o che scrive di se stesso attua falsificazioni continue della realtà. E impressionante: si tratta della costruzione sociale della menzogna come leva di comando. Cambia e modifica le sue posizioni, senza compiere mai scelte lungimiranti o che guardino all’interesse pubblico. Si muove a seconda di stati d’animo e di convenienze. Questa alterazione dei dati di realtà l’ha operata fin da quando rievoca l’infanzia: ci descrive la sua scuola con toni molto letterari e costruisce un’atmosfera dickensiana. Si tratta dei Salesiani di Faenza, dove con una disciplina militaresca istitutori sadici si sfogano contro chi non può difendersi. Benito, entratovi a nove anni come scolaro di terza elementare, è punito per le sue posizioni controcorrente. Vessazioni e umiliazioni gli suscitano sentimenti di istintiva ribellione, con reiterati tentativi di fuga. La descrizione del maestro elementare è degna di un romanzo noir, in una narrazione fondata sul parossismo e sull’esagerazione che serve solo a pubblicizzare l’immagine del genio in fieri. Confiderà successivamente a Petacci di aver compreso a sedici anni che avrebbe realizzato grandi cose: “i coetanei sentivano che avevo qualcosa più di loro, che ero già qualcuno”. Anche le sue numerosissime conquiste erotiche sono raccontate in modo che venga evocato un parallelismo tra il suo rapporto predatorio con il mondo femminile e il suo potere sulle masse da lui equiparate a femmine bisognose di dominio».
Mussolini opera forzature della realtà anche narrando la prima guerra mondiale?
«Per tenere aggiornati i lettori, pubblica sul Popolo d’Italia un vigoroso Giornale di guerra in cui racconta tremende avventure al fronte, scontri sanguinosi e colpi di cannone. Al contrario, in privato comunica invece all’amico Torquato Nanni che si trova in luogo dove “nulla di importante accade”. Sul giornale celebra continuamente il cameratismo, gli scambi e la solidarietà che si instaurano tra commilitoni. Ad amici e collaboratori descrive all’opposto lo schifo, la repulsione fisica e intellettuale che gli suscitano i suoi compagni: parla “dell’istintivo ribrezzo della convivenza forzata diurna e notturna con individui di un livello intellettuale basso”, nonché dell’avversione “per il maggiore comandante del mio battaglione”. Quel che è peggio, si autoconvincerà delle sue stesse esagerazioni, in una visione artefatta, idilliaca della Grande Guerra che influenzerà la sua visione di quella che sarebbe stata la partecipazione dell’Italia al secondo conflitto mondiale».
Una megalomania che porterà Mussolini a farsi carico di iniziative inutili e azzardate, con migliaia di vite umane mandate allo sbando?
«Successe ad esempio nella campagna italiana di Grecia. Nel marzo 1941 una serie di telefonate dal fronte greco-albanese mostrano l’abissale distacco di Mussolini e l’incomprensione degli avvenimenti. Era convinto di rinvigorire con la sua sola presenza i combattenti e di respingere la controffensiva ellenica. Dapprima è entusiasta per l’accoglienza tributatagli dalla truppa: “Mi sento ringiovanito di almeno 25 anni. Questa è veramente un’atmosfera eroica e forte e sana”. Poi la visione di feriti e morti lo turba. Però insiste: “Vinceremo! Questa è la vera Italia, quella che io ho voluto”. Poi ammette con Claretta il crollo di ogni aspettativa: “Tutto va diversamente da come avevo creduto! La prima settimana è stata entusiasmante, accesa e viva; la seconda di attesa, di speranza, di alternativa: tutto inutile”. Ma attribuirà la colpa della sconfitta agli italiani capaci di fare solo “i loro porci comodi” e non invece di sacrificarsi per l’ideale».
Dal momento in cui diventa Duce, il suo Io tronfio non conosce più limite?
«Esasperato dal divario tra ambizioni e realtà, batte sempre sul nervo scoperto dei connazionali inetti: “L’entusiasmo è un’apparenza. La verità è che sono stanchi di me, che li faccio marciare. Perché loro vogliono sedere, hanno le emorroidi…”. Contemporaneamente confida solo in se stesso e nel suo potere. Ma le sue drammatizzazioni si scontrano sempre con quello che accade. In privato smentisce persino la retorica imperiale. A Claretta ricorda che i suoi uomini in Etiopia sono tutto il contrario di quello che appaiono e si mostrano ladri, infedeli o inclini ad accoppiamenti indebiti “con le negre”, come il governatore Alessandro Pirzio Biroli che prediligeva le minorenni e che sarà pertanto destituito da Mussolini. I commenti che riferì all’amante sull’attuazione delle leggi antiebraiche del 1938 furono spietati. Lo irritava la solidarietà dei suoi concittadini con i perseguitati. “Questi schifosi di ebrei, bisogna che li distrugga tutti…”. Era convinto che le sue considerazioni negative cambiassero la realtà. Pensava di risollevare i destini della guerra con i suoi discorsi – e gli yes-men che aveva intorno glielo facevano credere. Si mise persino a disegnare personalmente le divise dei gradi militari più elevati. Come se un fatto estetico potesse mutare l’andamento fallimentare del conflitto mondiale».
Il persistente senso di onnipotenza condiziona il Duce anche verso la fine della sua vita, a Salò?
«Direi di no, prevale l’autocommiserazione e la sfiducia. Nel discorso del 24 giugno 1943 sull’emergenza italiana eccolo pronunciare una serie di strafalcioni: confonde la battigia col bagnasciuga, scambia Protagora con Anassagora. Chiederà a Claretta se si è accorta “delle gaffe… delle frasi fuori luogo”. E incapace di reagire, vive in perenne stato confusionale».
Professore, le autorappresentazioni schizofreniche che nella fase giovanile avevano alimentato lo spirito antisistema, vitalismo, entusiasmo e fiducia, al tramonto della sua esistenza diventano stanchezza, desiderio di morte?
«Aumentano la labilità e l’insicurezza. Ma nella sua condizione di borderline, da vero megalomane Mussolini non si smentisce mai e gli rimane la propensione ad assolversi per la rovina d’Italia, presentandosi come vittima di oscuri complotti».