Francesca Rigotti | Domenica – il Sole24Ore | primo ottobre 2023
Il pensiero di Simone Weil è articolato e complesso, è ricco, contraddittorio e provocatorio e fondamentalmente pessimista. È quanto emerge — al mio sguardo non benevolo verso queste forme di riflessione di tipo mistico-religioso-esaltato — anche da due scritti recenti a lei dedicati, che illuminano in particolare l’aspetto del lavoro e quello della giustizia/cura. Un pensiero, quello di Weil, che anche io, come scrisse Franco Fortini in un breve articolo su «Rinascita» del 1981, ammiro e rifiuto. Rifiuto, per esempio, perché non coerente, la concessione fatta da Weil a seguire «l’obbligo rigoroso» sui nemici da parte dei soldati, senza però andare un millimetro più in là dell’obbligo. L’imperativo categorico kantiano, spietato ma coerente, non l’avrebbe consentito.
Ammiro l’indignazione e la potenza della sua critica. Apprezzo l’acutezza nell’individuare i punti critici e negativi, frutto probabilmente dell’applicazione dell’attenzione, insomma la pars destruens. Tutti punti presenti nelle due opere che presento, dedicate al lavoro e alla giustizia.
Prendiamo il tema della giustizia, finemente analizzato da Greco. Weil introduce una partizione tra diritto e giustizia, nella sua prima opera, secondo la quale il diritto protegge dall’ineguaglianza, anzi, è la sua forza a proteggere i deboli (in seguito vedrà anche il diritto inesorabilmente contaminato dalla forza). La giustizia di Weil invece va oltre, eccede il diritto, coincide con la carità. Rifiuta la benda che impedisce di vedere gli ultimi, i bisognosi; rinuncia alla bilancia con i suoi bracci uguali che dovrebbero garantire l’eguaglianza delle forze, alla spada in cui si annida la forza, ripudiata anche se il suo uso è legittimo. A questi simboli, che rimandano a imparzialità, equilibrio e forza, Weil contrappone attenzione, decreazione, debolezza, là dove decreazione significa la rinuncia di Dio alla propria potenza nel voler far esistere l’altro, l’uomo. È Dio stesso allora che incarna la debolezza che porta alla giustizia-carità; un Dio impotente, un Dio che nel creare la realtà l’abbandona. Che è poi la posizione di un grande filosofo ebreo tedesco, Hans Jonas, che pur di mantenere a Dio l’attributo della bontà e «spiegare» perché non è intervenuto a Auschwitz, gli nega l’onnipotenza.
L’aspetto di Dio che si de-crea, si de-realizza viene sottolineato anche da Scarcia nella sua chiara e articolata analisi delle posizioni sul lavoro di Simone Weil, i cui problemi teorici tanto la attanagliavano da farle cercare la risposta nella fabbrica stessa, dove infatti entrò per qualche tempo come operaia. Weil voleva capire se e come ci potesse essere un’emancipazione del lavoro, se e come il lavoro potesse diventare il luogo della pace, della vera fratellanza e amicizia. A lei l’organizzazione della fabbrica si presentò incomprensibile, oppressiva, infernale, il lavoro manuale le si rivelò quale abbrutimento e sudditanza; non realizzazione ma alienazione, come in Marx. Ma diversamente che per Marx, per Weil è come se non ci fosse speranza, come se il suo Dio si fosse indebolito a tal punto da non lasciare nemmeno immaginare una possibilità di emancipazione. Da una parte Weil apprezza il lavoro, lo ritiene fonte di saggezza, binomio perfetto di pensiero e azione, e poi se ne ritrae, non vede soluzioni o arriva a proporne di improbabili, conservatrici, come il radicamento, il titolo dell’ultima opera, L’enracinement, ove auspicava la fioritura delle comunità locali, il richiamo alle tradizioni, agli spazi di vita condivisi, il ritorno alle radici religiose e spirituali, una mistica del lavoro.
Così, anche la soluzione al diritto contaminato dalla forza è una giustizia la cui essenza è la cura, la carità, l’attenzione all’altro, la discesa, la diminuzione di sé per calare nel bisogno dell’altro. La sua è una giustizia chinata, trasformata paradossalmente in demenza, anzi in un continuo esercizio di misericordia. Vi si cancella l’idea forte che i diritti possono, devono essere, sono la miglior difesa dell’inerme e riguardano la collettività pur curandosi dell’individuo, così importante per Weil.
Certo che nel caso dei migranti sui barconi, qui concordo con Greco, non c’è tempo per chiedersi chi sono, ci si può solo fermare, sbilanciarsi, abbassarsi; certo che i «reati di solidarietà» sono un abominio. Eppure il diritto, i diritti, sono lì per far fronte ai soprusi e garantire l’eguaglianza. Sono i diritti correttamente intesi la difesa dell’inerme. Così come il lavoro, l’azione trasformativa manuale e intellettuale, è, può, deve essere fonte di realizzazione, di crescita, di libertà, di felicità di quell’individuo che sta a cuore a Weil, e di felicità collettiva e per questo occorre contrastare non soltanto la disoccupazione ma anche la precarietà, la moltiplicazione dei contratti personalizzati, la diffusione dei lavoretti, sotto la prospettiva dell’abolizione dei mestieri in seguito ad automazione e digitalizzazione, in una trasformazione che porta sempre di più verso la realtà astratta del mondo matematizzato e non sulla realtà sensibile del mondo vissuto.