[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.
La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.
Dopo gli interventi di Anna Foa, Marcello Flores, Giovanni Gozzini, Claudio Vercelli e Arturo Marzano, pubblichiamo il contributo di Ignazio De Francesco. Monaco e islamologo, membro della Piccola Famiglia dell’Annunziata, fondata da Giuseppe Dossetti, ha vissuto lungamente in Medio Oriente, tra Israele, Palestina, Siria, Libano, Giordania ed Egitto. Di Maher Charif ha curato l’edizione italiana di Storia del pensiero politico palestinese (2018) e I nodi irrisolti del pensiero arabo: Palestina, riformismo, Jihad (2022).]
Giustizia per la pace, e da qui il perdono
Seduto di fronte a Maher Charif (uno dei migliori storici palestinesi) nel suo studiolo al secondo piano dell’Institut français du Proche-Orient di Damasco, lo sfido a riassumere in una sola frase cento anni di storia del suo popolo. Risponde senza esitare: «Al-intiqāl min kāritha ilā ukhrā», letteralmente “il passaggio da un disastro all’altro”. Poi aggiunge: «Malgrado ciò il nostro popolo non se n’è andato. Anzi, cresce più degli israeliani, forse l’unica cosa concreta che dice che la nostra storia là non è finita». Da quel dialogo sono passati quasi venti anni, un tempo di tragica conferma delle sue parole: disastro dopo disastro, fino allo tsunami di violenza abbattutosi sulla Striscia di Gaza dopo il crimine orribile del 7 ottobre.
Allo stesso tempo, il ventennio trascorso conferma l’osservazione finale: per Cisgiordania e Gaza le statistiche più aggiornate forniscono una cifra di poco inferiore ai 5 milioni e mezzo di persone (erano 1,98 nel 1990), con un tasso di crescita annuale intorno al 2,5%. Vanno aggiunti i palestinesi cittadini di Israele, valutati in circa 2 milioni. Per quanto riguarda gli ebrei israeliani, gli ultimi rilevamenti forniscono il numero di 7,2 milioni, con un tasso di crescita leggermente al disotto del 2%. Ciò significa che una regione poco più grande della Sicilia ospita oggi una quindicina di milioni di abitanti, quasi equamente distribuiti tra ebrei e palestinesi. È dunque la demografia ad affermare, nel modo più semplice e diretto, che questa terra è Casa di due popoli. Come realizzarne la convivenza pacifica, per il bene di entrambi e del mondo intero?
La risposta è al tempo stesso semplice e ardua: non c’è pace senza giustizia. Il diritto di Israele all’esistenza e allo sviluppo è la metà esatta di questa giustizia, ha fondamento giuridico nella Risoluzione ONU 181 del 29 novembre 1947, mentre il fondamento morale è la sofferenza bimillenaria del popolo ebraico, sino al culmine della Shoah, crimine maturato e perpetrato – è bene ricordarlo – in Occidente. Proprio l’ingiustizia lungamente patita investe gli ebrei anche di un’alta missione globale: farsi autorevoli portavoce del diritto dei popoli all’autodeterminazione, pietra di fondazione della comunità internazionale dopo la Seconda guerra mondiale. Che cosa ostacola l’esercizio di questo altissimo mandato etico nei confronti dei coinquilini palestinesi?
Segnalo due possibili cause: la prima è la tentazione di prendersi tutto, privilegiando il diritto della forza alla forza del diritto. L’occupazione militare di Cisgiordania e Gaza, a partire dal 1967, è emblematica: sempre più i palestinesi vivono come sospesi nel vuoto, per l’azione congiunta di esercito e coloni in territori che giuridicamente non appartengono a Israele. Un altro fattore è il senso di pericolo che serpeggia nella coscienza collettiva israeliana, tuttora segnata da “antiche ferite” nel rapporto con l’Altro. I palestinesi, che nessuna responsabilità hanno delle secolari persecuzioni di marca europea, riacutizzano il timore di una minaccia incombente. Eventi come la strage del 7 ottobre provocano la riemersione potente di questa corrente profonda.
L’approccio a un nodo tanto delicato non può così eludere anche l’analisi critica della travagliata evoluzione del pensiero politico palestinese: dal rifiuto iniziale a qualsiasi progetto di partizione (con la sola eccezione della componente comunista), sigillato con il fatale “no” alla Risoluzione ONU 181/1947, a “lā hudūd wa-lā yahūd” (nessun confine e nessun ebreo), grido di battaglia dei decenni successivi, dominati dall’idea che il fucile fosse l’unico strumento di interazione con l’Altro, per distruggerne la kiyān (“entità”) estranea e coloniale. Non si può omettere di notare, con il senno di poi, come questa opzione militare abbia fatto perdere vent’anni preziosi, dal ’48 al ‘67, durante i quali l’edificazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza sarebbe stata possibile, vicini arabi permettendo. Si giunge infine a “Terra contro Pace”, idea di compromesso che ha rappresentato una reale apertura e un significativo cambio di rotta ideologico. Gli accordi di Oslo del 1993 ne sono stati il frutto tangibile. Ma l’equilibrio di forze era ormai troppo dispari e l’avanzata inarrestabile dell’occupazione ha dato nuovo vigore al “fronte del rifiuto”, incarnato da Hamas, nella cui ideologia si trova che l’intera Palestina è un Waqf, proprietà sacra da custodire intatta sino al giorno del giudizio. Questa corrente di pensiero, speculare a quella del sionismo religioso, può nutrirsi di detti apocalittici attribuiti al Profeta dell’islam, come il seguente hadith, particolarmente impressionante: «Non giungerà l’Ora sino a quando non combatterete con gli ebrei, e persino la pietra dietro la quale l’ebreo si nasconde dirà: Oh musulmano, c’è un ebreo dietro di me, uccidilo!».
Come uscire da questo circolo di inimicizia sino alla distruzione reciproca? La risposta giusta è ancora nelle undici parole scolpite dalla comunità internazionale nella Risoluzione n. 181: «Indipendent Arab and Jewish States … shall come into existence in Palestine». Israele ha avuto ciò che le spetta, i palestinesi non ancora. Qui sta la chiave della pace, che aprirà la porta a un traguardo più alto di quello rappresentato dalla sola giustizia: il perdono. Come infatti ci ha insegnato Desmond Tutu, non c’è futuro senza perdono reciproco.