Gli antifascisti hanno costruito le fondamenta della nuova Italia repubblicana e democratica. Un patrimonio ricco di pensiero, di saperi, di progetti per il futuro…
A distanza di quasi ottant’anni dalla fondazione della Repubblica italiana, democratica e antifascista, il significato del termine antifascismo sembra aver perduto la sua dimensione storica in un uso corrente, troppo spesso improprio, quasi sempre contrapposto a quello di fascismo, anch’esso privato dei suoi specifici contenuti, ma diventato un “marchio” politico di cui fregiarsi a seconda delle circostanze.
Un oblio già evidente, a metà degli anni Settanta, in una minoranza di giovani, quando antifascismo e fascismo finivano per ridursi a mere etichette in quella lotta per bande, a volte sanguinosa, che ha marcato una delle stagioni più difficili della democrazia italiana.
Nel periodo ‘92-‘96, in seguito alla traumatica fine di tutti i partiti storici fondatori nel 1945 dell’Italia repubblicana, un intenso dibattito scientifico sulle origini aveva riproposto il discorso sull’antifascismo nel suo significato storico di lievito valoriale alla Carta Costituzionale, rimasta pilastro della continuità istituzionale nella cosiddetta seconda Repubblica. Ancora oggi, lo scontro politico si continua ad alimentare impropriamente di una vicenda storica lontana ormai più di un secolo, col risultato di ignorare il contesto politico, culturale, sociale e internazionale dell’epoca e di cancellare la stessa identità degli antifascisti, diversi gli uni dagli altri nei valori ideologici, morali e politici, ma alla fine uniti per fondare il nuovo Stato democratico. Quando si lamenta l’assenza di impegno civile nelle generazioni più giovani, forse vale la pena riflettere su quanto questa costante rimozione e distorsione della storia abbia contribuito a indebolire i valori repubblicani che i padri antifascisti avevano affermato nel corso della lunga lotta contro il fascismo.
La storia dell’antifascismo va dunque letta come storia dei tanti soggetti antifascisti che hanno combattuto il regime fascista: i partiti antifascisti le cui radici risalivano all’Italia liberale, le nuove formazioni politiche antifasciste, i giovani antifascisti cresciuti nel ventennio che non si riconoscevano nei vecchi partiti, la generazione dei più anziani protagonisti della prima guerra civile del ‘19-‘22, ritornati sulla scena nella seconda guerra civile del ‘43-‘45. Accanto ai militanti c’è poi il mondo della cultura antifascista legata ai valori dell’Italia liberale, e infine la moltitudine di anonimi antifascisti silenti dalle più diverse provenienze politiche e sociali il cui antifascismo si esprime in un gesto, in un insulto, in una scritta sui muri, in un atto sporadico di disobbedienza.
La maggior parte degli studiosi ha dunque fissato nell’8 settembre 1943 l’inizio di un’altra storia, questa sì decisiva per le sorti dell’Italia, trasformata in una democrazia grazie al coraggio e al sacrificio di un intero popolo che finalmente si era ribellato armi in pugno contro i fascisti e i loro alleati tedeschi. Ovviamente aver privilegiato questo campo di ricerca sta anche nel carattere epico della vicenda resistenziale che coinvolge l’intero paese al contrario di quella degli antifascisti, condannati all’esilio, alle carceri, alla clandestinità e resi invisibili agli occhi degli italiani. Eppure la loro scelta antifascista era costata privazioni, sofferenze, ferite profonde, senza contare quante vittime il fascismo aveva lasciato sul terreno nel percorso verso il potere, culminato con la marcia su Roma nel 1922 e proseguito all’insegna della violenza e del terrore fino al consolidamento della dittatura nel 1926. I caduti negli scontri con gli squadristi e i tanti bastonati a morte o assassinati a sangue freddo si contano a migliaia, un numero di sicuro inferiore ai caduti nella resistenza — tra partigiani e civili quasi 50 mila — ma certo non trascurabile.
Nelle ricostruzioni storiche ha pesato questa visione eroica dei partigiani, scesi sul campo di battaglia armi alla mano per combattere finalmente i fascisti alleati dei nazisti e riscattare così agli occhi del mondo l’intero popolo italiano dalla colpa della guerra fascista. Si tratta di una lettura semplificata, risuonata nelle celebrazioni ufficiali e riproposta nei manuali scolastici che poggia SII una storiografia fortemente condizionata dalla dinamica politica del primo cinquantennio repubblicano.
A ridare un equilibrio interpretativo all’intera storia dell’antifascismo, non riassumibile nella fase finale del ‘43-‘45, mi pare si debba ritornare alla definizione di Max Salvadori che in un libro del 1974 ha parlato di “resistenza lunga”, iniziata con le spedizioni punitive degli squadristi nel 1920 e continuata fino al 1945: in questa cornice 1’8 settembre ‘43 «fu solo una tappa, non un punto di partenza».
L’interpretazione di “resistenza lunga” comporta anche una revisione della vulgata corrente, che propone la guerra partigiana come il solo terreno sul quale si va legittimando la futura classe dirigente antifascista della Repubblica democratica. Una legittimazione che si sono guadagnati tutti gli antifascisti nelle diverse fasi e nelle diverse modalità della loro lotta contro il fascismo; a maggior ragione se si considera il ruolo che ricoprono nella nuova Italia tutti i leader dei partiti antifascisti ante marcia — De Gasperi, Nenni, Togliatti, ma anche La Malfa e Saragat e gli esponenti ai vertici del Partito d’Azione (Pda), aderenti alle altre formazioni politiche dopo lo scioglimento del loro partito nel 1947.
La loro legittimazione come futura classe dirigente dell’Italia postfascista nasce da un dibattito sui futuri assetti democratici dello Stato che non può essere circoscritto al confronto aperto nel Cln, dove si consolida l’unità politica degli antifascisti. Il dialogo tra tutti i partiti ciellenisti in questi venti mesi di guerra poggia infatti sul ricco patrimonio di pensiero e di riflessioni maturato dalle forze politiche e dalle singole personalità dell’antifascismo che per anni si sono misurate su quale Stato far nascere dopo il fascismo. Esiliati in terre straniere, socialisti, repubblicani, democratici e liberali avevano fatto i conti con le loro responsabilità, i loro ritardi, la loro cecità su quanto era avvenuto in Italia nel ‘19-‘22, attraverso un’autocritica anche dura, necessaria però a riconsiderare i limiti non solo della loro azione, ma dei rispettivi patrimoni valoriali. Con questa sorta di censura nei confronti di Amendola — un esponente di primo piano del Pci, ma anche un intellettuale che in numerose pubblicazioni ha ricostruito la storia di questo periodo — non si vuole certo ridimensionare i sacrifici della lotta contro il fascismo in esilio e in Italia dei militanti comunisti. Per Mussolini erano i suoi peggiori nemici, contro i quali la repressione in Italia era stata durissima, come testimonia il numero degli aderenti al Pci rinchiusi nelle carceri; un numero superiore a quello degli altri antifascisti. Si intende però sottolineare la peculiarità del loro antifascismo, finalizzato ad abbattere la dittatura fascista per instaurare la dittatura del proletariato. Anche i comunisti lottavano nelle carceri e in esilio per la libertà, ma era lotta per abbattere il regime capitalista identificato con il regime fascista.
La storia dell’antifascismo va dunque letta nella cornice del più sanguinoso periodo storico attraversato dall’Europa, iniziato con la grande guerra del 1914 e terminato con un’altra catastrofe durata sei terribili anni, dal 1939 al 1945; un trentennio di totalitarismi e di conflitti nei quali si era consumata fino quasi a scomparire la stessa civiltà millenaria dell’intero continente. Ritrovare il significato storico dell’antifascismo e ridare identità agli antifascisti significa anche misurarsi con quasi cent’anni di storiografia, se si considerano le tante ricostruzioni sull’avvento al potere di Mussolini scritte negli anni precedenti alla caduta del fascismo. Un percorso di approfondimento sulle diverse fasi di una storia complessa per la quantità e la diversità di soggetti, di luoghi, di valori espressi dagli antifascisti in esilio, nelle carceri, nella lotta clandestina, ma anche nella loro sfera privata, nei luoghi di lavoro, nelle parrocchie e persino nelle organizzazioni fasciste.