[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.
La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.
Dopo gli interventi di Anna Foa, Marcello Flores, Giovanni Gozzini, Claudio Vercelli, Arturo Marzano, Ignazio De Francesco, Sarah Parenzo e Fabrizio Mandreoli, pubblichiamo il contributo di Chantal Meloni (professoressa associata di diritto penale internazionale presso l’Università degli Studi di Milano e senior legal advisor presso lo European Center for Constitutional and Human Rights di Berlino (ECCHR). Da molti anni come giurista si occupa del contesto israelo-palestinese. È rappresentate legale delle vittime di Gaza nel procedimento dinnanzi alla Corte Penale Internazionale) e di Lavinia Parsi (dottoranda di ricerca in diritto penale internazionale presso l’Università degli Studi di Milano e la Humboldt Universität zu Berlin. Ha vissuto e svolto ricerca in Israele/Palestina, dove ha collaborato con diversi studi legali dediti alla tutela dei diritti umani).]
Nel dibattito pubblico di questi mesi, per descrivere la terribile situazione in corso in Israele/Palestina sono stati impiegati concetti e termini forti, che hanno in alcuni casi sollevato reazioni avverse se non di scandalo. Oltre ad inquadrare i fatti nella nozione di crimini di guerra, concetto ovviamente legato all’esistenza di un conflitto armato, si è parlato di crimini contro l’umanità, apartheid e persecuzione, di terrorismo e diritto all’autodeterminazione, di colonialismo, pulizia etnica ed anche di genocidio. Tali parole, tuttavia, hanno un significato giuridico, di cui si può e si deve discutere, e che è legittimo impiegare in questo contesto. Altri autori hanno qui evidenziato la complessità di un giudizio morale sulla inestricabile situazione in Israele/Palestina; oltremodo complicato è immaginare una soluzione politica di un conflitto che pare oggi insolvibile. Per certi versi, minore è invece la complessità di un’analisi giuridica. Se è vero che alcuni termini, usati in modo acritico, possono diventare slogan incapaci di produrre alcun effetto, è dunque utile ricondurre queste parole al loro significato giuridico per consentire una valutazione consapevole dei fatti. A tale scopo, possiamo prendere in considerazione tre diversi piani giuridici sui quali la questione è attualmente affrontata: il piano della responsabilità degli Stati, dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia; quello della responsabilità penale degli individui accusati di crimini internazionali, oggetto di indagine presso la Corte Penale Internazionale; quello, infine, delle responsabilità degli attori terzi, come gli Stati europei a vario titolo coinvolti nella commissione delle gravissime violazioni cui stiamo assistendo. Tali piani sono tra loro distinti ma hanno intersezioni e punti di contatto.
Da un punto di vista giuridico, gli atti perpetrati da Hamas il 7 ottobre nel Sud di Israele costituiscono prima facie possibili crimini di guerra e potenziali crimini contro l’umanità. Sempre prima facie, l’offensiva militare israeliana in corso a Gaza sta integrando numerose fattispecie di crimini di guerra e potenzialmente altri crimini internazionali; tra questi, ricorre l’accusa di genocidio. Di quest’ultima questione è stata investita, a seguito del ricorso presentato dal Sud Africa il 29 dicembre 2023, la Corte Internazionale di Giustizia. La Corte – per il cui giudizio nel merito occorrerà attendere anni – ha peraltro già riscontrato l’esistenza di un “rischio concreto ed imminente” che atti integranti genocidio siano commessi da Israele contro la popolazione palestinese di Gaza. Ritenendo che il rischio di un “danno irreparabile” nei confronti dei Palestinesi determinasse perciò un’urgenza, la Corte ha ordinato a Israele, già per ben due volte da gennaio ad oggi, di porre in essere una serie di misure cautelari volte ad arginare la catastrofe umanitaria causata dalle modalità della sua operazione militare.
Sebbene il rischio di genocidio di cui si sta occupando la Corte Internazionale di Giustizia sia riferito ai Palestinesi di Gaza, la richiesta del Sud Africa rappresenta un tentativo di allargare lo sguardo, collocando la situazione contingente nel suo ampio contesto. Sarebbe infatti miope considerare l’attuale situazione di Gaza in modo slegato dalla Cisgiordania, dove negli stessi mesi sono stati uccisi ben 438 Palestinesi oltre ai circa 5.000 feriti, di cui più di 700 bambini. Non si tratta semplicemente di un conflitto armato tra due potenze: in seguito all’occupazione nel 1967 da parte di Israele della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e Gaza, la situazione nel territorio palestinese occupato va ricondotta alle norme di diritto internazionale umanitario relative all’occupazione militare. Tale quadro giuridico, tuttavia, a fronte della incalzante annessione territoriale effettuata con la forza tanto da singoli coloni quanto dalle istituzioni israeliane stesse, non è più sufficiente per regolare la situazione da un punto di vista giuridico. Ciò è tanto più vero se si considera, come altri hanno già notato negli interventi precedenti, che la politica di espansione degli insediamenti in Cisgiordania ha raggiunto il picco nell’ultimo anno e si è ulteriormente intensificata proprio dopo il 7 ottobre.
È interessante notare che la questione delle conseguenze giuridiche della prolungata occupazione del territorio palestinese è a sua volta pendente davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che ne è stata investita a gennaio dello scorso anno dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Pur non esplicitamente, la richiesta di parere consultivo sostanzialmente domanda alla Corte di pronunciarsi sulla qualifica della situazione in termini di apartheid, come è emerso dagli interventi dei molti Stati che hanno presentato i loro argomenti nel corso dell’udienza celebrata lo scorso febbraio. Secondo gli esperti, infatti, il regime applicato nel Territorio palestinese occupato e nello Stato di Israele costituirebbe un regime di apartheid, e cioè un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominazione razziale in violazione del diritto internazionale. Solo di recente tale qualificazione giuridica è rientrata nella narrativa mainstream grazie anche ai rapporti di organizzazioni per i diritti umani di peso mondiale, come Amnesty International e Human Rights Watch, ma già negli anni ’90 tale terminologia e analisi era impiegata dalle organizzazioni per i diritti umani locali.
Oltre alla Corte Internazionale di Giustizia, che si occupa di responsabilità statali, la situazione Israele/Palestina è inoltre oggetto di indagine da parte della Corte Penale Internazionale. Tali indagini riguardano le specifiche responsabilità individuali di natura penale per la commissione di crimini internazionali nella situazione in questione. Non vi è dubbio infatti che, anche in strutture collettive come le istituzioni statali, “i crimini internazionali sono commessi da persone, non da entità astratte”. La Corte Penale Internazionali applica il diritto penale internazionale, come è stato concepito da Norimberga, e si pone l’ambizioso obiettivo di stabilire le responsabilità in particolare di coloro che rivestono posizioni apicali o sono qualificabili come i maggiori responsabili dei crimini commessi. Appartengono allo stesso ambito i procedimenti presso la Corte Penale Internazionale relativi ai crimini di guerra perpetrati in Ucraina, i mandati di arresto nei confronti del Presidente Putin e della Ministra Lvova-Belova, nonché l’istituzione di un organismo di indagine in seno all’Unione Europea dedicato al crimine di aggressione. A differenza dell’Ucraina, tuttavia, le indagini relative alla Palestina sono in grave ritardo.
Al di là delle responsabilità delle parti in conflitto, è necessario in questa sede interrogarsi anche e soprattutto sulle possibili responsabilità sul piano giuridico dei nostri governi. In questo senso, il caso portato davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dal Sud Africa, che ha agito invocando gli obblighi erga omnes in materia di genocidio, ha ricordato che gli Stati terzi possono a loro volta essere considerati complici in questo crimine qualora vi contribuiscano, ad esempio fornendo i mezzi che rendono possibile o facilitano la commissione del genocidio, o qualora vengano meno al loro obbligo di intraprendere tutte le misure in loro potere per prevenirlo. In questo solco si inserisce il caso portato dal Nicaragua contro la Germania sempre davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, dove si sostiene che il supporto politico, finanziario e militare fornito ad Israele dalla Germania abbia mancato nel prevenire potenziali atti di genocidio a Gaza e abbia potenzialmente contribuito alla loro commissione.
Alla luce di ciò, è significativo che nelle ultime settimane alcuni Stati abbiano rivisto le proprie posizioni in materia di esportazione di armi. Il governo italiano ha annunciato pubblicamente l’interruzione delle esportazioni delle armi ad Israele – circostanza poi smentita dai dati Istat. Anche il capo della politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell, a febbraio 2024 affermava che “se la comunità internazionale crede che si tratti di un massacro, forse dobbiamo pensare alla fornitura di armi”. Sulla stessa linea, una lettera firmata da oltre 200 parlamentari europei chiede l’impegno ad arrestare l’export di armi divenuto “oltre che una necessità morale, un requisito legale”. Si moltiplicano poi i ricorsi giuridici intentati presso tribunali di Paesi occidentali storicamente vicini a Israele, volti all’interruzione di ogni forma di sostegno alle gravi violazioni del diritto internazionale commesse a Gaza. Denunce relative all’export di armi, in particolare, sono già state presentate in Australia, Canada, Regno Unito, Germania, Danimarca, Olanda e negli Stati Uniti, ove lo stesso Presidente Biden, il Segretario di Stato Blinken e il Segretario alla Difesa Austin sono stati accusati di non aver impedito, se non addirittura di aver sostenuto, atti di genocidio nei confronti dei Palestinesi di Gaza.
Di fronte all’atteggiamento dei Paesi occidentali, il muro di impunità che sinora li ha coperti sembra stia iniziando a sgretolarsi. Significativamente, ciò sta avvenendo grazie all’iniziativa dei Paesi del cosiddetto “Sud globale”, che, per usare le parole di Audre Lorde, stanno tentando di “smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”. In questo scenario, per gli Stati europei, compresa l’Italia, che hanno fatto della “rule of law” un fondamento dei propri sistemi democratici, è necessario un netto cambio di rotta per scongiurare ulteriori violazioni del diritto internazionale e riaffermare la validità dei principi così gravemente infranti.