L’eredità e la lezione di Vito. L’importanza delle donne della famiglia. Un futuro tutto al femminile. I due cugini al timone della casa editrice si confrontano su come innovare, tra social e festival, restando se stessi.
Simonetta Fiori, la Repubblica, 9 maggio 2021
Il compleanno di una casa editrice è sempre un’occasione di bilancio. Se è un marchio di famiglia, la storia culturale acquista una temperatura emotiva che scaturisce dalle relazioni personali dei protagonisti. L’avventura civile e intellettuale di casa Laterza è racchiusa in un volumone giallo di millecinquecento pagine, il Catalogo Storico, che esce per un duplice anniversario: i centovent’anni della casa editrice, fondata il 10 maggio del 1901 dal ventottenne Giovanni Laterza; e il ventennale della scomparsa di Vito Laterza, coraggioso traghettatore dell’azienda editoriale dalle secche dell’egemonia crociana agli avamposti culturali della seconda metà del Novecento. Collegati su Zoom ci sono i suoi due successori, il figlio Giuseppe che è il presidente e il nipote Alessandro, amministratore delegato: diversissimi per temperamento e formazione, ci raccontano la loro singolare diarchia. E la passione per un mestiere che nasce da una «follia erasmiana».
Giuseppe Laterza: «Tenere in mano il Catalogo ti dà una sensazione molto bella. Tu sei il ramo, ma appartieni a una quercia secolare: la linfa è la stessa. Questo ti dà forza, offrendoti la traccia nelle scelte difficili di ogni giorno».
Alessandro Laterza: «Io sento forte la responsabilità. E vedo il Catalogo come un punto di partenza per il futuro».
GL: «Avere una quercia alle spalle ti carica di un grande peso. Non vorresti mai essere l’erede che chiude una storia centenaria. Il momento più buio è stato dopo la grande crisi finanziaria del 2008, che è rimbalzata sui libri più tardi: c’è stato da tremare. Ma là s’è rivelata fondamentale l’intuizione che aveva avuto mio padre negli anni Sessanta: in una produzione saggistica dagli esiti altalenanti era necessario avere uno stabilizzatore come la scolastica. Ed è stato questo settore, curato da Alessandro, a salvarci».
AL: «Vito è stato un formidabile innovatore. Aveva intuito, giovanissimo, che quella crociana era un’egemonia declinante, condannata a non riprodursi nel tempo. E cominciò a esplorare nuovi territori disciplinari come la linguistica o l’urbanistica, oltre a lanciare i Libri del Tempo, il laboratorio della cultura riformista liberaldemocratica. Alcune iniziative furono un fallimento totale sul piano economico, ma diedero identità alla casa editrice».
GL: «Una delle sue lezioni è che non ci si deve preoccupare troppo se qualche libro va male: l’importante è che sia un buon libro. Questo non significa che non fosse attento ai conti. Era innanzitutto un imprenditore. Una delle grandi critiche rivolte a Giulio Einaudi è che non leggesse i bilanci. Lo ricordo a Bari immerso in sterminate discussioni con l’amministratore di Barletta, un bravissimo contabile che parlava in dialetto pugliese stretto. Questo in fondo ci ha insegnato: che il grande editore non è quello che insegue meravigliosi progetti e poi lascia ad altri il volgare mestiere. Un grande editore è quello che dà continuità economica all’azienda. Se non sei solido economicamente, non hai autonomia culturale».
AL: «Insieme a mio padre Paolo, un avvocato che era presidente della casa editrice, Vito si batté moltissimo per difendere l’indipendenza dell’azienda dal tentativo annessionistico d’un grande gruppo. Alla fine del 1989, una parte della famiglia Laterza cedette le sue quote alla Rizzoli».
GL: «Da quel drammatico consiglio d’amministrazione uscì sorridente: “Finalmente ce ne siamo liberati”. Sapeva che poteva riprendere in mano le sorti della casa editrice. E si sentiva finalmente libero da quei famigliari che consideravano il catalogo una sorta di giacimento petrolifero da sfruttare. Mi ricordo la prima volta che misi piede in casa editrice. “Vedi quel bellissimo colophon? Se non lo metti ogni giorno a valore, anche rischiando, entro pochi anni è destinato a scomparire”».
AL: «Vito ci ha insegnato il mestiere senza troppi discorsi, ma coinvolgendoci nella pratica: prima in redazione, poi Pepe all’ufficio stampa e io all’ufficio tecnico, senza mai sovrapporci. E senza mai farci sentire il peso dell’errore. Ho conservato il pacchetto di sigarette Nazionali Super senza filtro che mi regalò. Ne fumo una all’anno, se abbiamo chiuso bene il bilancio».
GL: «A volte penso che tu gli assomigli più di me. Il fumo è un tratto che condividete».
AL: «Posso dire una cosa senza offendere Vito? Nelle relazioni con gli autori tu sei molto più bravo di lui. Perché hai ereditato il lato fantasioso dei Chiarini, la famiglia di tua mamma».
GL: «Mia madre Antonella ha svolto un ruolo molto importante. È stata lei a creare intorno a mio padre e alla casa editrice una rete di amicizie vere. Le feste natalizie con Tullio De Mauro vestito da Befana, gli scherzi al telefono con Lucio Colletti, i giochi con Antonio Cederna che poi a tavola urlava contro la speculazione edilizia. Il lavoro intellettuale era profondamente intrecciato al rapporto personale. Devo dire che lo stesso ruolo esercita accanto a me mia moglie Karina. Mia madre aveva una sensibilità artistica che ha reso più libero mio padre, sciogliendone alcune rigidità: lui proveniva da una famiglia meridionale molto tradizionale. E io sento di avere una vocazione spettacolare che è sicuramente materna. Mio padre chiamava la presentazione del libro lo “sciacquetto”… non ne era entusiasta insomma».
AL: «Tutte le donne di casa Laterza sono state importanti. Secondo stili molto diversi, classico e barricadero, mia madre Giovanna e mia sorella Maria hanno animato e diretto la libreria di Bari, una bandiera della casa editrice piantata nella città. Pur essendo una casa editrice internazionale, l’unica che sotto la guida di Duby e Le Goff abbia realizzato un progetto storico europeo insieme a un gruppo di altri publisher, la Laterza continua ad avere un radicamento meridionale».
GL: «Mi ricordo quando mio padre insisteva con Alessandro perché entrasse in casa editrice. Tu eri un bravo classicista, dal futuro brillante. E lui ti disse: un editore riesce a essere culturalmente più incisivo d’un pur bravissimo studioso. Oggi capisco le ragioni della sua insistenza, che allora mi sfuggivano: i Laterza avevano avuto sempre un solo erede».
AL: «C’è tra noi un gioco delle parti. Tu sei un instancabile inventore di progetti e io sono quello che dice: fermati!».
GL: «Diciamo che io sono più proiettato sulla spesa, tu sui costi. Alessandro ha la caratteristica tipica della formichina pugliese: ogni euro speso va ben soppesato. Anche qui mi ricordi molto mio padre. Ma pur essendo diversi inseguiamo un’unica finalità: conservare la solidità di un’impresa di cultura che si pone tra i suoi compiti la formazione critica della classe dirigente. Né io né Alessandro facciamo questo lavoro per ampliare le dimensioni dell’azienda o per aumentare i profitti: non è il nostro obiettivo. E la nostra diarchia è una rottura rispetto alla tradizione monocratica delle aziende».
AL: «Siamo riusciti ad arrivare al 2021, e non era affatto scontato. Il nostro merito – qui il contributo di Pepe è decisivo – è stato tenere fede al mestiere di editore producendo e diffondendo contenuti di qualità secondo modalità molto diverse. Non ci siamo tirati indietro di fronte ai collaterali, i libri venduti con i giornali. E non abbiamo avuto paura di sfidare il web, mescolando linguaggi differenti. Siamo sempre noi quando facciamo i festival – il primo è stato quello dell’economia di Trento, poi sono arrivate le Lezioni di storia e tanti altri – o promuoviamo gli ebook. Ci ha aiutato la dimensione agile della casa editrice, dove è possibile decidere in fretta».
GL: «Ora tocca alla quinta generazione, che è già al lavoro. Mia figlia Antonia si occupa dei social: quest’anno, anche in conseguenza della pandemia, abbiamo raddoppiato i nostri follower e inventato nuove rubriche. Bianca, figlia di Alessandro, cura la grafica e le copertine. Di recente ha seguito alcuni graphic novel di successo. Oggi una grande carica ci viene da loro. Sono due trentenni in una redazione composta largamente da loro coetanei. È questo motivo di grande orgoglio».
AL: «Una volta Vito disse che fare l’editore significa essere dei pazzi erasmiani. La follia erasmiana non è una forma di demenza ma di coraggio. Con il gusto della sfida. E noi continuiamo a credere in questa meravigliosa pazzia».
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