Stefano Petrucciani, Alias, 25 ottobre 2020
Non è facile scrivere una storia del pensiero contemporaneo; per farlo bisogna innanzitutto sciogliere una serie di nodi piuttosto aggrovigliati. Il primo è quello della periodizzazione: dove comincia la contemporaneità? Seguendo una solida tradizione (si pensi al grande classico di Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche), Lucio Cortella svolge egregiamente il compito nel suo La filosofia contemporanea. Dai paradigma soggettivista a quello linguistico, assumendo come punto di partenza la diaspora che segue alla crisi del sistema hegeliano; qui finisce irrevocabilmente la metafisica e ha inizio l’universo di pensiero nel quale ancora abitiamo. L’altra questione spinosa con la quale ci si deve misurare è quella del «canone». Come Cortella scrive proprio nella prima pagina del libro, non disponiamo ancora di standard condivisi in grado di stabilire indiscusse gerarchie tra pensatori e scuole filosofiche.
Certo, che Husserl e Heidegger, Wittgenstein e Popper facciano parte del canone è difficile da mettere in dubbio. Ma, per molti altri filosofi di media grandezza, lo storico deve assumersi la responsabilità di scegliere e selezionare, includere o escludere. È inevitabile, e in fondo il vero problema non è neanche questo.
Piuttosto, è possibile, nella proliferazione di teorie che riempiono i due secoli dell’età contemporanea, individuare una linea di tendenza, un vettore di sviluppo? E, soprattutto, come organizzare e strutturare in modo perspicuo un così vasto materiale? Uno degli aspetti più interessanti del volume di Cortella, oltre alla sua assoluta limpidezza di scrittura, condizione necessaria per chi si accinga a un’impresa di questo genere, è il modo molto netto con il quale risponde alle due domande appena evocate. Nella sua prospettiva, dichiaratamente influenzata da quella di Habermas, il cammino del pensiero post-hegeliano può essere decifrato come un processo di apprendimento.
Il vettore che orienta il pensiero contemporaneo, per Cortella, è quello che conduce, come dichiara il sottotitolo del volume, «dal paradigma soggettivista a quello linguistico». La filosofia moderna, che ha inizio con l’Ego cogito di Cartesio e, passando per l’«Io penso» di Kant, culmina nell’Idea hegeliana, è una filosofia del soggetto; dallo sfaldarsi della soggettività, viene faticosamente emergendo una nuova centralità, quella del linguaggio. Se questa è la linea di fondo, mirabile e coerente con essa è anche l’organizzazione del materiale. La trattazione è articolata in due parti: nella prima ripercorriamo la crisi della soggettività idealistica, attraverso Feuerbach e Marx, Kierkegaard e Nietzsche, lo storicismo tedesco. Nella seconda invece siamo, per riprendere un famoso titolo heideggeriano, in cammino verso il linguaggio. L’idea che guida questa seconda parte della ricostruzione, un’idea forte ma – io credo – persuasiva, è che il pensiero novecentesco si possa accorpare lungo tre grandi assi, ciascuno dei quali approda, a modo suo, alla centralità del linguaggio: la linea della fenomenologia e dell’esistenzialismo, che passando per Husserl, Heidegger e Sartre arriva all’ermeneutica di Gadamer; la linea «analitica» per la quale, a partire da Wittgenstein, il linguaggio è sempre al centro dell’interrogazione filosofica. E, per finire, quella della dialettica e della teoria critica che, passando per i grandi della Scuola di Francoforte come Horkheimer, Marcuse e Adorno, approda anch’essa, con Habermas, al primato della dimensione comunicativa. Il racconto è ben strutturato, ma soprattutto è sorretto da un’idea-forza: ogni transizione, ogni innovazione concettuale, deve essere compresa nella sua necessità. La storia della filosofia non può essere semplicemente raccontata, ma deve anche essere ripensata. Fare storiografica filosofica – questa la condivisibile tesi dell’autore – significa sempre anche pensare in prima persona.
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