[Letture, 10 aprile 2021]
Prof.ssa Federica Formiga, Lei è autrice del libro L’invenzione perfetta. Storia del libro edito da Laterza. Il titolo riprende una famosa citazione di Umberto Eco: quando nasce l’oggetto libro che tutti maneggiamo?
La prima versione di un libro la abbiamo a forma di rotolo, costruito grazie all’utilizzo di un supporto nuovo: il papiro. Il materiale, più duttile all’uso dello stilo per la scrittura, diede la possibilità di trasmettere testi più lunghi e di carattere letterario più di quanto avessero prima permesso le tavolette cerate. Era però poco agevole nella lettura e nella manipolazione nonché estremamente fragile visto che richiedeva di essere conservato in ambienti climaticamente favorevoli e soprattutto non poteva essere piegato su sé stesso per evitare tagli lungo la piega.
Il primo libro che conosciamo e scritto in greco su papiro è il Derveni datato tra il 340 e il 320 a.C., anche se i libri su papiro circolavano forse in Grecia già dalla seconda metà del V secolo a.C., o addirittura dal VI vista la notizia di un’edizione ateniese dei poemi omerici sotto Pisistrato.
Il papiro fu tra i primi supporti più pratici per la scrittura dei testi letterari e sostituì con fortuna i cocci e le tavolette anche grazie alla sua possibilità di essere più leggero e quindi anche più facilmente trasportabile. Il supporto mostrò da subito un inconveniente: non poteva contenere testi molto lunghi per non diventare troppo ingombrante sia nella sua conservazione sia nella lettura. Era poi molto faticoso aprirlo muovendo un braccio verso l’alto o con entrambe le braccia lateralmente. Tali posizioni fisiche non rendevano neppure facile individuare agevolmente le parti ben precise del testo, il quale era anche condizionato dalla lunghezza del papiro stesso.
La questione se sia il libro nato come struttura logica oppure fisica, se lo spazio fisico abbia condizionato la lunghezza del contenuto oppure se sia stato il testo a determinare la dimensione ha impegnato a lungo gli studiosi e la domanda rimane fondamentalmente ancora aperta. Un rotolo poteva contenere solo una certa quantità di linee molto corte di scrittura (in media circa mille) disposte su due o più colonne parallele, obbligo che, almeno in parte, ha costretto gli scrittori antichi a far coincidere la struttura fisica del libro con quella logica. L’Iliade ad esempio, come tutte le opere antiche, era suddivisa in libri e ogni libro corrispondeva a un rotolo di papiro; quando poi fu trascritta, sui fogli in pergamena piegati, la suddivisione fu mantenuta ed è rimasta fino a noi, anche perché ogni libro rappresentava un’unità anche dal punto di vista del contenuto.
Il papiro fu probabilmente oggetto di embargo da parte del faraone Tolomeo Epifane d’Egitto e l’esportazione verso Pergamo fu interrotta mentre regnava Eumene II. La leggenda vuole che proprio la mancanza di materia scrittoria condusse allo sviluppo, avvenuto attorno al 170 a.C., di un nuovo supporto: la pergamena, che divenne, nonostante i costi, il più utilizzato e diede vita a una diversa forma dei libri: il codice. La novità conobbe il suo massimo sviluppo dal III secolo d.C., sebbene il modello a rotolo rimase comunque in auge, fino al Medioevo, per tramandare testi liturgici.
Il nuovo dispositivo fornì presto tutto lo spazio utile per scrivere testi più lunghi e farlo anche bilateralmente. Si trattava di un supporto più costoso, ma anche più facile da trovare: era ricavato dal trattamento della pelle degli animali allevati spesso nelle fattorie degli stessi monasteri dove si preparavano i manoscritti e, pur risultando il processo di preparazione particolarmente lungo, venne sfruttato subito il pregio della pergamena di essere resistente, flessibile, riscrivibile e piegabile e quindi funzionale alla costruzione dei fascicoli, l’unità base della nuova forma del libro, ereditata poi dalla stampa. Il foglio di pergamena a seguito della piegatura ha inoltre consentito, con l’apertura del libro, di avere davanti per la lettura ben due pagine, al contrario del rotolo oppure ora del computer e di essere più facile da maneggiare.
Quali elementi identificano il prodotto librario?
La forma del libro si ottiene con fogli piegati, cuciti e legati poi su uno stesso dorso, che l’aggiunta di una copertina ha reso presto posizionabile verticalmente su degli scaffali senza però perdere la possibilità di rimanere anche appoggiato o aperto su un piano. Gli elementi che identificano il libro sono riassumibili in un’unica parola: librarietà, la quale indica che libro è l’insieme di una serie di superfici piane, piegate e collegate sequenzialmente grazie alle quali viene trasmesso un messaggio visivo/verbale chiamato testo. Il contenuto, sempre fissato e delineato sul supporto, è assoggettato a una serie di elementi caratterizzanti l’oggetto destinato a contenerlo: pagine, copertina, legatura, sequenzialità del testo, possibilità di essere conservato in uno scaffale sono gli aspetti peculiari del prodotto librario e comprendono anche la narrazione, la forma, lo scopo, il significato e l’uso.
Come si è evoluto il libro fino a giungere alla sua perfezione di forme?
Il libro lungo il passare dei secoli si è continuamente evoluto dalla forma a rotolo a quella a codice, dalla scrittura manoscritta all’utilizzo dei caratteri mobili; è stato un continuo perfezionamento nel modo di produrlo. La stampa, ultimo passaggio innovativo applicato al libro, lo ha reso un prodotto seriale grazie all’utilizzo di macchine da stampa, lo hanno reso sempre più veloce nella realizzazione con il conseguente abbattimento dei costi di produzione rendendolo, se vogliamo per parafrasare Mary Poppins, perfetto in ogni modo. Il risultato di diventare un oggetto seriale fu raggiunto in modo rapido solo dal libro, basti confrontarlo con la riproducibilità della musica, possibile da soli centocinquant’anni: prima non si poteva ascoltare un’esecuzione se non in presenza e ciò, a differenza del libro, ha cambiato senza sosta formati e canali sia di registrazione sia di diffusione. Ovviamente l’introduzione della stampa non trovò tutti d’accordo tanto che venne paragonata a una meretrice, perché si temeva che i libri messi in circolazione fossero a solo fine di lucro ed era estremamente pericoloso che molte più persone ne avessero indistintamente accesso. Non mancarono neanche autori, come ad esempio Giovanni Tritemio (1462-1516) che scrissero a favore degli scribi, perché consideravano i prodotti della stampa poco durevoli e piene di errori, salvo poi diffondere tali opinioni proprio attraverso i caratteri mobili per garantirsi un raggiungimento di un pubblico più ampio.
Il libro ha visto, di volta in volta, la costruzione attorno a sé di elementi fortemente caratterizzanti come un frontespizio, la presenza di una copertina, a motivi grafici a partire dagli inizi del XX secolo, un inserimento di contenuti paratestuali come le dediche, gli avvisi al lettore oppure di strumenti atti a renderlo sempre più facilmente consultabile quali, già a partire dagli albori nel XV secolo del testo a stampa, il numero delle pagine o l’indice dei nomi, dei luoghi o delle cose notevoli. La sua perfezione è data quindi non solo dalla forma a codice, ma anche da una serie di migliorie atte a renderlo un prodotto altamente commerciale nonché in grado di resistere nel tempo. Il percorso non è stato certamente lineare ma sicuramente è stato continuo e inarrestabile nel tempo; senza però subire sostanziali stravolgimenti nella sua struttura originaria tanto che, qualora Gutenberg tornasse tra noi, non avrebbe nessuna difficoltà a riconoscerlo come oggetto.
Quando nasce la figura dell’editore?
Non è facile indicare una data precisa alla quale attribuire la nascita della figura dell’editore come noi oggi possiamo intenderlo, cioè come colui che perseguendo un sogno e un progetto culturale investe del denaro per far pubblicare determinati autori o titoli. Fino al Settecento la figura dello stampatore, dell’editore e spesso quella del libraio coincidevano in un’unica persona. Forse la nascita dell’editore avvenne quando, nel XVIII secolo, iniziò a profilarsi anche il ruolo dell’autore (a solo titolo esemplificativo si può richiamare alla memoria Daniel Defoe con il suo Robinson Crusoe pubblicato nel 1719). Scrivere divenne una professione che assicurava un reddito facendo cadere definitivamente il sistema del mecenatismo, in base al quale gli autori fornivano i loro servigi ai membri regnanti, alle famiglie patrizie, o ai prelati per vedersi assicurati protezione e riconoscimenti monetari. La differenziazione del ruolo dell’editore da quello dello stampatore nel libro è più evidente dal XIX secolo, quando al primo iniziò a essere lasciata visibilità sul frontespizio riservando l’ultima pagina del libro al nome del tipografo.
Come si giunge alla nascita dei diritti editoriali?
Storicamente prima dell’invenzione della stampa non sono mai apparse norme che regolassero e proteggessero la proprietà intellettuale. Gli antichi greci consideravano la trascrizione e la conseguente manipolazione del testo un mezzo per raggiungere l’immortalità, la fama e per essere ricordati per sempre. A chi sfruttava il lavoro degli autori era riservate sanzioni solo di tipo sociale o morale o si limitavano a invettive lanciate dai defraudati della loro creazione. Solo nel Medioevo la riproduzione venne vietata, ma il problema rimase irrilevante almeno fino all’introduzione dei caratteri mobili, cioè quando il contesto editoriale prevedeva un negozio e degli accordi di carattere economico per regolare la grande quantità di titoli pubblicati. La legislazione sul diritto d’autore presupponeva insomma l’esistenza dell’industria editoriale che, come fatto sociale di rilevanza economica, precede la sua regolamentazione giuridica. I privilegi erano fino al Settecento l’unico strumento per regolare i diritti sulle pubblicazioni concedendo ai tipografi/editori la facoltà di stampare in determinati luoghi per periodi ben stabiliti. Tali concessioni riguardavano i produttori materiali dei libri, mentre gli autori potevano avvalersi del ‘privilegio letterario’, cioè dello sfruttare l’opera decidendo a quale tipografia farla riprodurre, con la diretta conseguenza di un maggior controllo sulla qualità e sui contenuti. Il sistema dei privilegi resse per oltre tre secoli e ha disciplinato in tutta Europa il commercio librario, fino a quando perse il carattere di atto istitutivo di un’autorità e venne rivendicato come un diritto naturale di ciascun individuo. L’autore era l’unico legittimo proprietario dei frutti del proprio lavoro, del quale disporre con la libertà di venderlo a un editore per vederlo trasformato in una ‘manifattura di pensiero’ (Maurizio Borghi).
L’inizio del XVIII secolo vide in Gran Bretagna l’emanazione dello Statute of Anne, oggi considerato la prima legge sul copyright. Nato come tentativo degli Stationers di prendere possesso del diritto di controllo preventivo diretto sulle stampe trova origine nella presentazione di una legge (base testuale dello stesso Statute) rubricata con il titolo A Bill for the Encouragment of Learning and for Securing the Property of Copies of Books to the Rightful Owners thereof, ma poi approvata nel 1709 come An Act for the Encouragement of Learning, by Vesting the Copies of Printed Books in the Authors or Purchasers of such Copies, during the Times therein Mentioned, abbreviata in Copyright Act e chiamata Statute of Anne perché fu la regina a porre il sigillo sulla legge, entrata in vigore il 10 aprile del 1710. Essa stabiliva che il copyright di un’opera appartenesse al suo autore e che poteva pretendere compensi più consistenti dalla vendita delle proprie opere agli stampatori.
Il verbo securing (assicurare) venne sostituito da vesting (attribuire, conferire) perché nella prima versione, se era chiaro che si incoraggiava l’apprendimento, non era facile individuare chi fosse il titolare del diritto tutelato da quella legge e rimaneva fumoso chi fosse il ‘beneficiario’ sebbene, forse, per gli editori londinesi fosse scontato che si trattasse di loro. La fame di monopolio non piaceva alla House of Commons, che definì il diritto di copia dell’opera certamente una libertà esclusiva, ma a termine. Gli autori da tutto ciò erano però sostanzialmente esclusi e continuavano a non vedere messe in pratica le prerogative che lo statuto gli avrebbe dovuto riconoscere; la Court of Chancery, infatti, nei casi di pirateria, accordava tutela all’editore se dimostrava di essere proprietario dell’opera, solo esibendo il contratto di acquisto del manoscritto: gli inediti venivano pagati una tantum, limitando a questo scambio istantaneo le relazioni commerciali tra l’autore e gli editori. Solo con l’Engraver’s Act del 1735 divenne chiaro che i diritti sulla creazione artistica spettavano solo all’autore specificando il suo ruolo rispetto a quello dell’editore. A tutto ciò seguirono decenni di discussione non solo in Inghilterra ma anche in Francia, dove si sviluppò il concetto di propriété littéraire (in base alla quale l’autore avrebbe potuto disporre commercialmente della sua opera senza ostacoli) e poi in Italia per giungere alla conclusione che il diritto d’autore nasce intrinseco alla creazione dell’opera e l’autore può cedere a un editore i diritti patrimoniali per vedere prodotta e diffusa la sua opera. Kant è considerato il fondatore del diritto d’autore, dopo aver affermato, nel 1786, che l’editore era solo il rappresentante dell’autore, il suo procuratore, che esercitava la funzione di mediazione nello sviluppo del proprio negozio in nome dell’autore, il quale deteneva la proprietà dell’opera, che coincideva con quella del pensiero, non poteva essere alienata, era e restava sua esclusività, così come ai giorni nostri.
In Italia nel 1848 venne approvata la Nuova legge e regolamento sui diritti degli autori delle opere d’ingegno che collegava il rapporto dell’autore con lo stampatore-editore a un contratto di vendita, con la conseguente qualificazione dei diritti degli autori in termini proprietari. Un ulteriore passo avanti fu compiuto nella prima legge organica che disciplinò tale materia nel 1865, dopo l’Unità d’Italia, base per tutti i passaggi legislativi successivi. La differenza rispetto alla realtà anglosassone era che l’attività di creazione intellettuale era passata in primo piano e aveva guadagnato maggiore attenzione non solo nei confronti del guadagno economico, ma nella protezione riservata alla paternità e all’integrità del lavoro.
Per concludere, il diritto d’autore e il copyright, al quale il primo è spesso accomunato, hanno alla base due concetti diversi perché differenziano nelle relazioni tra l’autore e la sua opera, che nel diritto d’autore si stabilisce direttamente tra l’autore stesso e la sua creazione originale, mentre nel copyright tale rapporto si trasferisce sulla copia prodotta da un editore (Antonella De Robbio).
Quale futuro per i libri?
Il libro è sempre stato oggetto di una serie di invenzioni e di novità, che hanno contribuito a migliorarlo, a renderlo anche più praticabile e più facilmente utilizzabile dai lettori. I modelli e le tecnologie nel corso dei millenni si sono continuamente rinnovati con un’importante accelerazione negli ultimi due secoli soprattutto nell’attività di stampa. Tutte le rivoluzioni sono avvenute spesso fuori dalla nostra percezione, fino a un cambio di piano con la sostituzione o meglio un affiancamento alla tecnologia libro quella dell’e-book. La domanda qui posta è particolarmente retorica in quanto non ha senso preoccuparsi del futuro dei libri, i quali continueranno ad esistere nella forma che conosciamo, sebbene altre innovazioni accompagneranno ancora il libro nella sua produzione, promozione e distribuzione per portarlo nelle mani del lettore. Il digitale attualmente non è altro che un altro modo per trasmettere testi e contenuti, ma è una struttura per noi troppo nuova se confrontata con quella del libro. Non possiamo fare nessun tipo di previsione se il libro cartaceo sopravvivrà, al momento ci si limita a considerare che il suo formato elettronico non ha ancora superato, in termini di produzione e vendita, quello analogico pur dimostrando una certa versatilità per una lettura in determinate situazioni, come ad esempio in viaggio.
L’e-book ha registrato, nel suo percorso durato qualche decennio e ancora in fieri, una serie di insuccessi legati soprattutto alla costruzione del supporto necessario alla lettura dei testi in digitale, considerato più scomodo e con scarsi risultati rispetto alle possibilità offerte da lungo tempo dal libro.
Parlare di libri digitali non significa solo discutere della trasposizione di quelle parole in altra forma, su diverso supporto; si tratta di un oggetto ancora giovane, ulteriore rispetto al libro, con potenzialità ancora da scoprire e che ancora disorientano.
Inoltre, non è quasi mai chiamato in causa il limite che molti dei titoli in digitale sono a disposizione dopo la loro pubblicazione in forma cartacea oppure non sono più coperti dai diritti di copyright. Si tratta sostanzialmente di una delle motivazioni principali per le quali la profezia sulla morte del libro è ancora nel vuoto. Infine, i libri elettronici sono anche rimasti fermi a lungo dal punto di vista del software perseguendo nuove soluzioni hardware per ottenere strumenti di lettura in grado di competere nella struttura e nella leggibilità del libro, il quale nelle forme, a noi note, sta continuando indisturbato la sua strada per assolvere alle sue funzioni, pur affiancato appunto dalle nuove e diverse tecnologie. L’e-book, al momento, non è altro che il feticcio o la brutta imitazione di un’invenzione perfetta, la quale si presenta come un contenitore ordinato, con una sua fisicità e autonomia, una sua geometria peculiare e visibile; pensare al digitale come un’esatta trasposizione della carta su uno schermo è un’idea fallimentare in partenza.
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