Vendetta pubblica: il carcere in Italia

Un estratto dal libro di Marcello Bortolato e Edoardo Vigna

«Lasciamoli marcire in carcere!»: dietro questo slogan – che tanto piace a parte dell’opinione pubblica e a certi politici in cerca di facili consensi – c’è la negazione del nostro Stato di diritto.

Sì, perché secondo la Costituzione italiana la pena deve prima di tutto rieducare: chi è in prigione è parte della nostra comunità e i detenuti, prima o poi, comunque escono. D’altra parte i dati statistici lo dimostrano: in Italia la recidiva degli ex detenuti è record – sette su dieci tornano a delinquere – ma la percentuale precipita all’uno per cento per l’esigua minoranza di chi in carcere ha potuto lavorare. Evidentemente c’è bisogno di andare esattamente in direzione contraria alla ‘vendetta pubblica’.

In questo estratto di Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, Marcello Bortolato e Edoardo Vigna esaminano il profilo violento del carcere, concentrandosi in particolare sull’eventualità che la violenza sia commessa dagli agenti carcerari, quindi “proprio dall’apparato dello Stato”.

 

Non possiamo poi raccontare la vita quotidiana in carcere se non parliamo, purtroppo, anche della violenza, del carcere e nel carcere.

Il carcere in sé è violento. Dice il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli (in Diritto e ragione, Laterza, Roma Bari 2002) che è una violenza minima, strettamente necessaria a limitare quella privata che si svilupperebbe se ognuno fosse libero di farsi giustizia da sé. La vendetta pubblica, che sostituisce la vendetta privata, è altrettanto violenta. La vendetta di per sé è intrisa di violenza perché risponde alla stessa logica di chi ha commesso il reato. Si va contro un uomo, sia pure legittimamente, alla fine di un processo che ne ha accertato la responsabilità, costringendolo a subire una limitazione delle proprie libertà. Non si può non vedere in questo una forte dose di violenza, è innegabile. Il punto è stabilire quanta di questa brutalità sia necessaria o indispensabile e per quanti fra coloro che hanno commesso quello che la legge qualifica come reato: tutti o ad esempio solo quelli che ne hanno commessi di molto gravi?

Poi c’è la violenza che si sviluppa nel carcere: la costrizione forzata di più persone in spazi ristretti, con la necessità di soddisfare ogni giorno bisogni d’ogni tipo, scatena spesso dinamiche di sopraffazione. […] C’è poi talvolta la violenza degli agenti carcerari, quella cioè che proviene proprio dall’apparato dello Stato. Lo documentano le inchieste della magistratura, anche se è difficile che un detenuto la denunci: troppa la paura di non essere creduto o delle conseguenze sul suo percorso carcerario. Ma qualche volta succede, più di quanto si pensi. Tra tutti quelli ai quali si può confidare liberamente una violenza subita c’è proprio il magistrato di sorveglianza che è l’unica persona con cui il detenuto ha diritto di parlare da solo, riservatamente, oltre al proprio difensore. Con tutti gli altri che entrano in carcere non può avere colloqui sottratti al controllo. I colloqui visivi in carcere sono infatti sempre a vista, cioè qualunque persona che va a colloquio con un detenuto deve essere osservata da un agente di polizia penitenziaria. (È il motivo per cui non si possono fare i colloqui intimi, non potendo garantirne la riservatezza. Da qui il problema del diritto all’affettività […]) Al magistrato di sorveglianza vengono talvolta raccontati episodi di violenza avvenuti in carcere. Ma non si possono fare accuse generiche.

Sul tema della violenza non si cita mai abbastanza il famoso “Esperimento carcerario di Stanford”, un classico della ricerca in psicologia sociale: nel 1971 vennero reclutati con un annuncio su un giornale alcuni studenti “sani, intelligenti, di classe media, psicologicamente normali e senza alcun precedente violento”. L’esperimento doveva durare due settimane e coinvolgere i soggetti suddivisi casualmente in due gruppi, uno di guardie e uno di detenuti, in una simulazione di vita carceraria, allo scopo di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti. Dopo soli cinque giorni, i lavori furono però interrotti: gli studenti che rivestivano il ruolo delle guardie si erano inaspettatamente trasformati in spietati aguzzini. Si constatava cioè la possibilità che alcune particolari situazioni sono in grado di indurre persone ordinarie a compiere i peggiori crimini. Il fatto che un gruppo fosse autorizzato a usare la forza mentre gli altri dovevano solo subirla aveva creato una tale dinamica di violenza.

Il carcere è un problema anche per questo: è infatti un luogo in cui c’è una gerarchia, dove c’è uno al di sopra di te che comanda perché ha il potere della forza che può usare contro di te. Non è un caso quindi se secondo Francesco Ceraudo, per venticinque anni presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’amministrazione penitenziaria, “nelle carceri italiane si entra puliti e si esce dipendenti”. Dipendenti da psicofarmaci, innanzitutto: secondo i dati di fine 2019 lo è un detenuto su due.