L’architetto e urbanista, progettista del Bosco Verticale, riflette su come sta cambiando il modo di vivere gli spazi pubblici e privati. Con una partenza a sorpresa: l’esempio di Roma. Comincia così un percorso di conversazioni sulle metropoli
Micol Sarfatti | Sette – Corriere della Sera | 28 maggio 2021
Non sappiamo se davvero la pandemia ci renderà migliori, sappiamo però che ha modificato i profili delle nostre città, accelerandone il cambiamento. Dalla mobilità, al verde, fino agli spazi condivisi. Abbiamo chiesto a Stefano Boeri, architetto e urbanista, di ragionare con 7 su questa rivoluzione urbana, incontrando diversi interlocutori.
Iniziamo il viaggio nelle città che salgono con le sue riflessioni, alcune affrontate nel saggio Urbania, appena uscito per Laterza.
Architetto, come sono cambiate le città durante il lockdown?
«Nei primi mesi di confinamento abbiamo visto accadere vere e proprie trasfigurazioni nel calco fisico delle aree urbane. Gli spazi pubblici erano drammaticamente vuoti, quelli privati pullulavano di vita. Mentre specie di animali non domestiche popolavano angoli di città, i grandi contenitori di folle e flussi, elementi portanti della storia urbana europea, si erano svuotati di quella densità di corpi che li aveva originati. Ci sono state ripercussioni anche sulla mobilità: il pendolarismo è diminuito grazie ad un’alfabetizzazione digitale portentosa. Con la pandemia abbiamo capito che tutte le attività intellettuali, che vanno dalia ricerca alla gestione della burocrazia, non hanno bisogno di un ufficio per essere svolte. Questo ha modificato i tempi e le modalità di spostamento sul territorio. Abbiamo ripensato i rapporti tra i tre perimetri temporali della vita: lavoro, residenza e tempo libero. In un calco rimasto intatto abbiamo sperimentato esperienze nuove e a volte inusuali. Anche se molti di questi processi, come il lavoro da remoto, erano già in atto».
In questa lenta ripresa sembra esserci una nuova definizione del rapporto tra “dentro e fuori” negli spazi di socialità.
«Sì, dapprima abbiamo assistito a una ritrazione della vita negli spazi domestici, poi dalla scorsa estate e ancora oggi, a una estroversione nelle strade. Per la prima volta abbiamo avuto la dimostrazione di quello che diceva l’architetto Louis Kahn: “Le strade sono le stanze delle comunità”. La vita è tornata a fluire nei dehors, nelle vie pedonalizzate, dove una volta c’erano parcheggi e traffico. Questa è una trasformazione spettacolare, purtroppo non ancora abbastanza potente, perché si scontra con resistenze e inerzie».
Dopo la pandemia i centri urbani saranno ancora il cuore pulsante delle nostre attività?
«La specie umana ha eletto nei secoli la città come habitat privilegiato, ma non è stato così per una parte importante della nostra storia. Oggi, dopo questa drammatica esperienza, dovremmo essere pronti a rimettere in discussione questa scelta. Il processo di delocalizzazione è in una fase iniziale, ma già visibile. Famiglie, singoli individui, addirittura aziende hanno scelto di spostare il baricentro della vita e del lavoro fuori dalle città, in borghi storici, o in località di mare o montagna, usando i grandi centri urbani come luogo di confronto per un tempo limitato della settimana. Ma così le metropoli rischiano di non essere più il luogo eletto della produzione intellettuale individuale, ma di confronto e scambio del lavoro fatto altrove. Ora hanno davanti una grande sfida».
Da dove possono ripartire?
«Innanzitutto, devono rivedere completamente il rapporto con la natura, un elemento su cui dobbiamo ricalibrare il nostro futuro, senza più considerarlo esterno a noi, ai nostri corpi e ai nostri spazi di vita. Dobbiamo immaginare quello che io chiamo città arcipelago: quartieri e spazi abitativi autosufficienti nei servizi al cittadino, immersi in un mare di natura verde, in una biodiversità non addomesticata. Allo stesso tempo i borghi storici oggi abbandonati dovrebbero tornare a essere piccole città. Solo rigenerando le città e i borghi potremo evitare che la spinta al decentramento (il mercato immobiliare segnala già un aumento di valore di tutto quello che sta fuori dalle città) generi quell’agglomerato urbano diffuso di edifici senza logica e senza progettazione che ha compromesso negli Anni 80 intere parti del paesaggio italiano ed europeo. L’Italia ospita una rete incredibile di borghi storici, oltre 5000, dobbiamo riabilitarli e creare un rapporto con il territorio più sano e utile. Anche per favorire un riequilibrio demografico che non può essere imposto perché la vita è più forte degli incentivi e delle leggi. In questo modo, tra l’altro, si tornerebbe a prendersi cura dei boschi, che contrariamente a quanto si possa pensare, necessitano della presenza e del lavoro umani. Abbiamo bisogno di più alberi nelle città e più umani nelle foreste».
Come possiamo unire nuovi spazi di vita e socialità alla sostenibilità?
«Dobbiamo fare rapidamente alcuni passi, anche parziali. In questo senso il lavoro iniziato dal ministro Cingolani è interessante. Uno dei punti chiave è la mobilità: il passaggio all’elettrico, pur non risolutivo, è oggi urgente. I danni dell’inquinamento si legano alla pandemia, il virus ha trovato terreno fertile anche grazie a un indebolimento polmonare generale causato dalla pessima qualità dell’aria nelle nostre città. Bisogna lavorare sul riscaldamento, ancora basato su combustibili fossili, e sull’agricoltura periurbana. Poi c’è la grande sfida dell’idrogeno, un gas importante per il funzionamento delle rinnovabili. Quando parlo di arcipelago urbano sono convinto che l’utopia della terza rivoluzione industriale di Jeremy Rifkin oggi si possa realizzare. Possiamo pensare a un sistema diffuso di energia rinnovabile, non più top down, ma bottom up. Grazie alle batterie ad idrogeno, le case diventeranno piccole centrali di energie pulita. Nelle metropoli arcipelago i quartieri saranno energicamente autosufficienti e potranno alimentare i consumi delle infrastrutture. Ci sono poi altri capitoli cruciali che riguardano una distribuzione più equa della ricchezza, la forestazione urbana e la realizzazione di grandi corridoi della biodiversità, come il progetto Parco Italia, che estende la forestazione a 14 città italiane collegate tra loro. In poche parole: dobbiamo allargare l’idea di naturalità, non esternalizzarla».
La sfida di oggi è quella di unire, di connettere?
«Esattamente, la connettività è uno dei grandi obiettivi del nostro tempo. Dobbiamo lavorare per ricollegare i sistemi naturali che con i nostri habitat solo minerali abbiamo interrotto».
C’è una città da prendere come esempio? «Tante: Londra ha fatto bene sulla mobilità, Barcellona sui quartieri, Parigi sui tetti verdi, Milano con il progetto di piantumazione Forestami. In Italia oggi dovremmo guardare a Roma, una metropoli molto complicata, ma che ha in sé il mondo intero. È una grande sfida, nazionale ed europea, ma davvero potrebbe diventare la prima metropoli arcipelago. Dobbiamo però capire, in generale, non solo per Roma, che il futuro delle metropoli si costruisce agendo da subito, su tutto, dall’alimentazione alla mobilità, e tutti insieme: istituzioni, nazionali e locali, aziende private e cittadini. Solo così potremo affrontare davvero i grandi cambiamenti del nostro tempo, dalle migrazioni al clima».
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