La pandemia piomba su popolazioni già affaticate dalla vecchia crisi e la reazione si veste di teorie assurde. L’introduzione di soggetti internazionali può controbilanciare il potere dei grandi oligopoli nelle sfide future
Gianni Cuperlo | Domani | 15 dicembre 2021
Domanda retorica: ma se negli ultimi mesi lo stesso tempo dedicato a nuovi ideologi del popolo No-vax lo avessimo dedicato a comprendere cosa può fare e come può agire la ricerca, oggi il panorama dell’informazione starebbe meglio oppure no? Risposta sincera: sul piano degli ascolti televisivi avremmo registrato un crollo, ma se lo sguardo punta al merito saremmo in una condizione migliore.
Detto in sintesi il compito che giornali e tv, non tutte per carità, hanno svolto solo in parte lo recupera Massimo Florio con un saggio accessibile, La privatizzazione della conoscenza, edito da Laterza. L’autore che insegna Scienza delle finanze a Milano da anni analizza il rapporto costi-benefici nell’impresa pubblica con un’attenzione a industrie a rete e ricadute economiche e sociali della scienza.
Dunque non di un virologo si tratta, ma di uno studioso dei processi che dovrebbero spingere la politica, intesa come azione coordinata degli stati, a sfruttare il valore della conoscenza indirizzandola alla promozione di beni comuni. E il libro questo fa, collega i fili di una trama quasi sempre mal riflessa nella sua complessità.
Ma andiamo con ordine. Anzi, partiamo dalla proposta che sorregge l’insieme dell’analisi. Bene o male la pandemia, e prima ancora la crisi del 2008-2009, un effetto sull’agenda del pianeta lo ha avuto: prendere atto dei nessi tra instabilità economica, una insicurezza sociale diffusa, il mutamento climatico, la minaccia globale alla salute, squilibri geopolitici, il potere dei giganti della rete e da ultimo la fragilità delle nostre democrazie.
Doppia crisi
Una miscela potente per quanto esplosiva che si è portati a leggere a compartimenti chiusi, al più correlando due, massimo tre, dei fattori, cancellando la relazione che li rende, mai come ora, universalmente interdipendenti.
Se partiamo da qui si intuisce quanto gli ultimi dieci anni, poco più, abbiano indotto la crisi acuta di una doppia tendenza: quella verso un potere concentrato in oligopoli simili a fortezze e un tasso di disuguaglianza crescente, anch’esso imposto dalle logiche della modernità.
Tutto ciò sino a un guasto evidente degli ingranaggi. Dapprima l’affondo della crisi di fine anni Dieci sul ceto medio impoverito, da ultimo il Covid. Tra le conseguenze un certo numero di persone ha preso le misure, e soprattutto compreso i rischi, di tagli severi alla spesa pubblica, di uno stato ridotto a “bestia da affamare”, ma pure di priorità ambientali ridotte a esercizio di retorica sino a grandi società a partecipazione pubblica smantellate nell’idea che settori vitali, dall’energia alle telecomunicazioni, fossero da gestire senza troppi controlli.
L’uomo forte
Una qualche reazione però quel modello l’ha prodotta. Come spiega Florio, «se non è lo stato a offrire servizi che tengono assieme la società mentre aumentano le disuguaglianze e peggiorano le opportunità per la maggior parte delle persone, allora tasse, frontiere aperte e democrazie cominciano ad apparire nemiche del “popolo”, in particolare delle classi medie impoverite: Trump viene da lì».
La pandemia, dunque, piomba sulla testa di governi e popolazioni affaticate dalla vecchia crisi mentre forze dall’impianto nazionalista, xenofobo e razzista paiono in rampa di lancio, scortate dal consenso e alquanto aggressive per toni e linguaggio.
La richiesta dell’uomo forte si fa sentire e la prima reazione di una parte al nuovo nemico (il virus) si veste di assurde teorie negazioniste. Si entra così nella stagione più delicata, quella da cui dipende l’uscita da questa tempesta perfetta (crisi del modello economico e sociale, impoverimento di massa, bisogni da tutelare).
Volendo, si è di fronte a qualcosa di analogo al bivio che riguardò le società europee, e non solo, a cavallo tra gli anni venti e Trenta del vecchio secolo. Con un pezzo del continente suicidatosi nei totalitarismi e un’altra convinta dal New Deal rooseveltiano, dal personalismo cristiano e dal welfare socialdemocratico a imboccare la via della liberal-democrazia.
E siamo al punto. Lo si può riassumere così: senza cogliere l’opportunità che la “tempesta” crea, e per certi versi impone, vale a dire, senza politiche e strategie realmente innovative non sarà possibile sottrarre le leve di economia e società al controllo sempre più invasivo di potenti oligopoli destinati non ad arginare, ma a fomentare nuovi squilibri sociali. Soprattutto quella struttura del potere su scala globale non avrà in un futuro prossimo maggiore capacità di farsi argine verso altre minacce derivate da crisi economiche, sanitarie o ambientali con rischi più grandi per la tenuta degli stessi ordinamenti democratici.
Soggetti pubblici
Tradotto, il comando attualmente concentrato anche sul fronte della conoscenza non è stato in grado ieri e non lo sarà domani di sostenere una «buona società» frutto di una «crescita economica inclusiva e ordinata».
Precisamente da questa fotografia deriva la proposta: indurre coalizioni internazionali di governi a costituire nuovi soggetti pubblici in grado di competere con il dominio sin qui incontrastato dei grandi oligopoli. Lo scopo dev’essere controbilanciare quel potere dal lato dell’offerta «di conoscenze di beni e servizi che ne incorporano il valore». Operativamente si tratterebbe di soggetti progettati come una combinazione di infrastrutture di ricerca e imprese pubbliche orientate su missioni a lungo termine.
Nello specifico la proposta si rivolge a tre nuove agenzie europee, nel caso nostro partendo dalle oltre mille infrastrutture di ricerca esistenti, alcune di dimensioni notevoli per risorse professionali e finanziarie che organizzano. I tre settori indicati sono la salute umana, il cambiamento climatico, il governo dei dati.
Obiettivo, garantire ai singoli governi, in un raccordo di strategie, di poter agire con politiche industriali più dirette ed efficaci sia in rapporto alla regolazione dei mercati che agli attuali strumenti tributari. Detto in modo ancora più netto: su queste frontiere decisive per programmare il “dopo” nessuno stato può spicciarsela da sé. A tutti, grandi e meno, serve una base di competenze scientifiche e tecniche che questa stagione segnata dalla pandemia per la prima volta può rendere percorribile. A cominciare dal fronte sanitario dove il rapporto tra spesa pubblica e oligopolio farmaceutico «mostra che c’è spazio per un soggetto europeo che intraprenda la ricerca, lo sviluppo, la produzione, la distribuzione di quei farmaci e delle innovazioni biomediche che le Big Pharma non ci daranno».
Lo stesso vale per la seconda missione che investe scienza e tecnologia del cambiamento climatico, filone in cima alle priorità dell’unione europea anche in relazione all’uso dei fondi di Next generation Eu.
In questo caso il pericolo è una dispersione di risorse in assenza di un soggetto che internalizzi una missione scientifica e tecnologica a lungo termine e si ponga come «proprietario o gestore dell’interesse collettivo di una rottura con il modello attuale».
Quanto all’ultima missione, la sfida starebbe in una impresa europea capace di fronteggiare lo strapotere dei colossi del digitale favorendo un’idea di governo pubblico dei dati. Utopie di là da essere? Forse, ma forse no e per una volta scommettere sulla seconda cosa potrebbe rivelarsi per l’Europa del “bla bla bla” e dei trattati una carta vincente.
Il libro: