Mezzo millennio fa la circumnavigazione da parte della flotta dell’esploratore portoghese. Una discesa agli inferi che aprirà la strada al mondo moderno e al superpotere marittimo.
Giovanni Mari | La Stampa | 6 febbraio 2022
Esattamente 500 anni fa, nel febbraio del 1522, l’Armada da Moluccas era a un miglio dal più disastroso dei fallimenti. La flotta si era ridotta da 5 navi a una sola, dei 237 marinai ne erano rimasti 60. La doppia traversata, prima dell’Atlantico e poi del Pacifico, si era rivelata un’odissea tra ammutinamenti, naufragi, battaglie e malattie di bordo. E la morte di Ferdinando Magellano in un’imboscata su un’isola sconosciuta (1500 nativi armati di frecce contro una cinquantina di europei con il moschetto) rischiava di mettere in ombra la colossale scoperta che l’intuito, la tenacia e l’autoritarismo del comandante avevano reso possibile: l’individuazione di uno stretto che consentisse l’attraversamento via mare dell’America Latina. E imprimesse la forza di affrontare l’immane deserto d’acqua del Mar del Sur.
La missione, del resto, aveva già rivelato che le Molucche, quello scrigno di spezie che avrebbe arricchito la Spagna, era nella sfera d’influenza del Portogallo. L’Armada era stata inviata nell’ignoto per dimostrare il contrario: che le Molucche fossero al di qua dell’antimeridiano di Tordesillas. A Est della linea immaginaria, riflessa nell’emisfero buio, rispetto a quella stabilita a 370 leghe dalle isole di Capo Verde, in mezzo all’Atlantico. Quella era la frontiera invisibile che Spagna e Portogallo avevano pattuito come confine sul mare della loro espansione.
A Est dominava Lisbona (e magicamente aveva ricompreso anche il grande bernoccolo del Brasile), a Ovest (quindi con quasi tutte le Americhe) la Castiglia. Dov’erano le Molucche? Più vicine ai possedimenti portoghesi dell’estremo Oriente o più vicine al Cile spagnolo? Erano terribilmente lontane dall’America. Il Mar del Sur, il Pacifico, era così vasto da spostare tutto il mondo a Ponente, da ingigantire le dimensioni della Terra come nessuno aveva immaginato. Magellano lo aveva compreso durante i mesi infiniti di navigazione, mentre i suoi equipaggi morivano a bordo, ammorbati dallo scorbuto e costretti a rosicchiare il cuoio dello scafo per la fame. Fu un periplo infernale, che David Salomoni racconta con incommensurabili dettagli in Magellano. Il primo viaggio intorno al mondo (Editori Laterza, 240 pagine): dai diari di bordo alle scorte di sedano, dalle trattative con i nativi alle condanne dei rivoltosi, dalla natura aggressiva della Patagonia alla perfida incontrollabilità dei marosi, dalle piccole colonizzazioni ai primi pinguini della storia, dalla preda di chiodi di garofano e zenzero ai repentini cambi di rotta.
Ma quando, in quel febbraio 1522, i superstiti sbarcarono nell’attuale isola di Timor, l’equipaggio aveva già nominato comandante Juan Sebastian Elcano, per certi versi, ancorché senza gradi, uno degli antagonisti di Magellano. Restava solo un obiettivo: salvare la pelle. In quel momento l’avventura della scoperta lasciava il campo a un’impresa di tutt’altra natura. Elcano non avrebbe per nessuna ragione messo la prua verso le Americhe: era sicuro che l’avrebbe portato alla morte. Allora invertì la rotta di 180 gradi e decise di sfidare la legge, la sfera d’influenza: di tornare in Europa solcando l’Oceano Indiano, aggirando il Capo di Buona Speranza, costeggiando l’Africa e raggiungendo per quella via Siviglia, anche se si trattava di acque portoghesi. Quelli avrebbero avuto il diritto di sequestrare la nave, rubare le preziosissime carte nautiche con i segreti delle scoperte di Magellano e condannare a morte gli equipaggi.
Così si scatenò la seconda discesa negli inferi. In Spagna rientrarono in soli 18, fecero scalo a Capo Verde, fingendosi naufraghi di ritorno dai Caraibi, e lì scoprirono di aver smarrito un giorno per strada: era colpa del fuso orario, correndo all’indietro avevano rubato 24 ore al Sole. Furono accolti in patria da vincitori, quindi raccontarono la storia a modo loro: oscurando Magellano ed esaltando Elcano, che divenne una sorta di eroe mitologico vivente. Solo le relazioni del vicentino Antonio Pigafetta, marinaio e scrittore, restituirono a Magellano l’onore della rivoluzionaria scoperta.
E tributeranno al comandante l’alba della globalizzazione. Da quel momento il mondo era diventato interamente conosciuto e i mari lo strumento vitale e assoluto per inscenare quella proiezione di potenza, come la chiamerà Alfred Mahan, necessaria agli Stati più forti per trasformarsi in imperi. Le flotte, controllando gli oceani, estendevano l’autorità centrale fino alle coste più lontane. Dando vita, da subito, a una globalizzazione rigidamente imperialista, che avrebbe trasformato l’Oceano Indiano in un lago europeo e arginato le velleità americane fino a tutto il XIX secolo. Restituendo qualche vestigia di talassocrazia prima a Spagna e Portogallo, poi alle Province Olandesi e infine all’Inghilterra. Un «sea power» globale declinato da Michel Du Jourdin nello strumento del «dominio del profitto» che l’Europa dei re e dei mercanti avrebbe imposto al resto del mondo con le armi del commercio, della violenza e della deterrenza. I mercati non sarebbero più stati (solo) locali: si sarebbe creata una rete mondiale di scambi marittimi sempre più fitta e protetta, dai cannoni e dalle leggi.
Il primo effetto fu infatti la globalizzazione del conflitto, con l’invio di flotte in aree lontanissime ma sempre meno remote, con la realizzazione di basi e blocchi navali, con il sistematico attacco al commercio concorrente e la nascita di convogli mercantili armati. Solo le grandi potenze, e tra queste le più dinamiche e meno paralizzate da nobili e burocrati, erano in grado di organizzarsi. La prima guerra mondiale fu così una guerra marittima e si scatenò nei primi 50 anni del Seicento. Gli europei cominciarono a combattersi su scala globale: tra gli olandesi e i regni iberici si estese all’America, all’Africa e all’Asia. Gli ottomani restarono ai margini e in ritardo; cinesi, giapponesi e impero Moghul la persero nelle prime battute. Gli europei occidentali costruirono un sistema di cui tutti gli altri Stati sarebbero stati dipendenti per secoli.
Ma il sistema, stabilizzandosi, cambiò alla radice i rapporti di forza: diminuiva il potere basato sulle risorse locali che i governi erano in grado di controllare direttamente, mentre aumentavano quelle necessità marittime e quelle capacità di relazioni che vedevano in vantaggio la forza liquida degli interessi mercantili. Si creò un nuovo potere, che dagli Stati sarebbe passato ad altre mani, fino a connotarsi in un’autorità quasi invisibile e compiutamente globalizzata, multinazionale e privata, talmente possente da non necessitare neppure più dell’assistenza (diretta) delle armi. La chiave fu il modello olandese. Le Province costruirono la miglior rete commerciale globale, con il centro nei suoi porti e un’organizzazione statale e mercantile impregnata della logica capitalistica e dell’innovazione: alleanze, contratti, guerre e tecnologie venivano stipulate e concepite per proteggere gli interessi commerciali, mai per prestigio o pretese territoriali o religiose. Da questo spirito nacquero le prime due grandi compagnie monopolistiche per il commercio e le guerre d’Oltremare, prototipo dei grandi poteri finanziari contemporanei e interpreti moderni delle grandi scoperte di Magellano.
Nel settembre del 1522, a Siviglia, in ogni caso, con ciò che restava dell’Armada da Moluccas, percorsi 86 mila chilometri in tre anni, la questione era già abbozzata. Carlo V dimenticò presto le Molucche e capì che altre, più grandi sfide, foriere di maggiori e durature ricchezze, aspettavano la Spagna. Per questo la riabilitazione di Magellano fu totale. Il paradosso starà nel fatto che la Spagna non riuscirà a interpretare il grande vantaggio che aveva accumulato e l’onda lunghissima della globalizzazione, che proprio l’impresa dello Stretto aveva favorito, finirà per travolgerla per prima tra i grandi vecchi del passato.