Alessandro Zaccuri | Avvenire | 1 marzo 2022
Cominciamo con un verso di Dante, tanto per non perdere l’abitudine ora che i fuochi del centenario si sono spenti. Si tratta di un endecasillabo celebre, nel quale viene distillata la sapienza di intere biblioteche. Guido da Montefeltro è finito tra i dannati «per la contradizion che nol consente» (Inferno XXVII, 120), filosofeggia il diavolo che si è impossessato della sua anima facendo leva, appunto, sul principio di non contraddizione: nello specifico, non è dato di commettere un peccato in vista di un successivo pentimento, come aveva immaginato di fare Guido. Questa, intendiamoci, è la lettura corretta di un brano nel quale il diavolo, proclamandosi “loïco”, rende un ambiguo omaggio al dispositivo di pensiero sul quale si è fondata per secoli la cultura occidentale. L’espressione potrebbe però essere interpretata in un altro modo, e cioè prendendo alla lettera la questione dell’impedimento suscitato dalla contraddizione. Che cos’è, in definitiva, a non essere consentito? Cercare una risposta a questo interrogativo significa abbandonare la condizione di spettatore, capziosamente assunta dal diavolo dantesco, e lasciarsi coinvolgere dalla dinamica drammatica e feconda della contraddizione. Significa stare dentro la contraddizione o, meglio, accettare di avere La contraddizione dentro, come recita il titolo del saggio postumo di Franco Cassano che Laterza ha appena portato in libreria.
Anche qui, c’è di mezzo un anniversario, il primo della morte dello studioso il cui nome resta legato alle tesi contenute in un altro piccolo libro di un quarto di secolo fa, Il pensiero meridiano (1996). La genesi di quella pubblicazione è ripercorsa da Alessandro Laterza nella nota che fa da premessa a La contraddizione dentro, un testo che non va inteso né come «testamento spirituale» né come «ultima lezione». «È molto di più – avverte Laterza -: è il desiderio di Cassano che sente vicina la fine, di esprimere un’interpretazione “autentica” del proprio pensiero». Interpretazione, andrà aggiunto, la cui autenticità consiste proprio nel conservarsi mobile e duttile, non contraddittoria in sé ma aperta alle contraddizioni che la realtà può suscitare. Era questa la scommessa su cui si fondava già la proposta del Pensiero meridiano.
Nato ad Ancona il 3 dicembre 1943, Cassano si era formato a Bari, dove è morto il 23 febbraio dello scorso anno. Nell’Università del capoluogo pugliese aveva tenuto a lungo la cattedra di Sociologia dei processi culturali, partecipando attivamente a un processo di revisione critica del marxismo per il quale era stata coniata la formula, scherzosa ma non del tutto impropria, di école barisienne. A un certo punto, la realtà aveva superato la teoria. Anzi, l’aveva contraddetta. Con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la conseguente dissoluzione delle ideologie novecentesche, Cassano si era trovato nella condizione di dover elaborare un pensiero “dell’altra riva”, in virtù del quale il Sud rinunciasse alla competizione (persa in partenza) con il Nord per fare affidamento sulla propria natura “meridiana”. Non era un arretramento consolatorio, ma una fuga in avanti verso un futuro che ancora stenta a realizzarsi. Negli armi Novanta la ferita dell’Europa irrisolta si manifestava nei Balcani, in questi giorni la linea di faglia sta tra Russia e Ucraina. In fondo, ogni guerra non è altro che il rifiuto di sottostare alla contraddizione, è la pretesa di sollevarsi attraverso la violenza al di sopra della mischia in modo da imporre una volontà incontestabile. Non è casuale, dunque, che la mischia sia la prima delle categorie messe in campo in questa riflessione serrata e incalzante, dettata da un uomo che, nella consapevolezza della morte imminente, si sofferma a meditare sulle ragioni della vita, e più precisamente della vita in comune.
Stare nella mischia della contraddizione comporta, per Cassano, prendere coscienza della finitudine. Per dirlo con le sue parole, «è forse la forma di esperienza più acuta della propria insufficienza e precarietà». Questa percezione della trascendenza non comporta necessariamente un affidamento di tipo religioso e tra le righe di La contraddizione dentro non è difficile scorgere la schiettezza di una ricerca che, pur fortemente connotata in senso spirituale, non si traduce mai in fede. Nello stesso tempo, è proprio da questa tensione che sprigiona il fascino della testimonianza di Cassano, all’interno della quale gioca un ruolo non irrilevante la ricezione del pensiero teologico di Reinhold Niebuhr. Si ragiona di finitezza, ancora una volta, nella convinzione che, per quanto si sforzi di emanciparsi da limiti e costrizioni, «l’uomo non può diventare Dio» e che ogni impeto rivoluzionario di assalto al Cielo esige di essere bonificato da qualsiasi pretesa di «perfettismo» (di nuovo, il riferimento è a un teologo, Antonio Rosmini).
Più che come sinonimo di indecisione e indeterminatezza, la contraddizione è il volto di una complessità che non manca di esprimersi anche a livello internazionale. Le osservazioni di Cassano si rivelano lungimiranti anche in merito agli assetti dell’ex Unione Sovietica, ma non vanno costrette in un ambito esclusivamente politologico. Nel campo largo della contraddizione quel che più conta è semmai il riproporsi in termini inediti del «vecchio conflitto tra i valori della comunità, in cui la solidarietà tiene insieme i membri innalzando barriere contro chi è estraneo a essa, e quelli della società, in cui ogni legame è libero ed elettivo e dove ci si muove in uno spazio globale dominato dall’individualismo, dal successo e dall’edonismo». Non più due blocchi politici contrapposti, ma due visioni del mondo ciascuna delle quali in sé insufficiente e bisognosa di essere temperata dalla relazione con l’altra. Stando alla logica hegeliana, saremmo nel pieno della coscienza infelice, non fosse che Cassano è di diverso avviso. La coscienza, argomenta nei paragrafi conclusivi, è sempre in qualche misura infelice, perché scaturisce da «una condizione permanente di tensione». Se qualcosa la contraddizione non consente, è esattamente l’illusione di ignorare la contraddizione per accomodarsi in un altrove fantomatico, in una separatezza tanto più colpevole quanto più esente da responsabilità.