Il capo del circolo del Pci ha 22 anni e finisce in cella per 100 giorni per aver partecipato a una tumultuosa protesta contro la penuria di generi alimentari e contro il prefetto fascista
Vindice Lecis | Il Fatto Quotidiano | 15 maggio 2022
Alla domanda “Sappiamo che lei è un tifoso juventino”, Berlinguer secco rispondeva: “No, io tifo la Torres!”. Pur apprezzando moltissimo anche il Cagliari il segretario comunista, anche durante le sue trasferte politiche all’estero, non mancava mai di far telefonare alla sede romana dell’Unità: “Chiedi che cosa ha fatto la Torres” ha ricordato il responsabile Esteri del Pci dell’epoca, Antonio Rubbi.
La Torres è la squadra di calcio di Sassari. Ma Berlinguer restò legato sempre alla sua città natale, incubatrice decisiva della formazione della sua personalità e nella politica. In un’intervista alla Nuova Sardegna del 15 gennaio 1984 al direttore Alberto Statera, a proposito dei moti del pane del gennaio 1944, Berlinguer spiegava che si trattò “di una forte e tumultuosa protesta della parte più povera della città, provocata soprattutto dalla penuria dei generi alimentari di prima necessità ma anche dalla permanenza in molti posti di comando di gerarchi fascisti, nonostante da mesi fosse caduto il regime e la Sardegna fosse stata liberata”. Aggiungeva che “la massa principale era di donne e giovani dei quartieri popolari, che allora erano il centro di Sassari”. A questo proposito ricordava “bene anche la montatura imbastita da molti capi della polizia, che inventando di sana pianta reati gravissimi mai commessi cercarono di scompaginare la forte organizzazione giovanile comunista che si era formata nei mesi precedenti nella nostra città”.
Il sindacalista Nino Manca, in un libro curato da Tore Patatu (edito nel 1993 dalla Libreria Dessì) tratteggiò in modo vivace la poverissima Sassari e quanto accadde nei “moti del pane” all’indomani della caduta del fascismo in una città stretta tra fame e inquietudine. Eravamo, scrive Manca, una “massa di persone in età giovanile, assolutamente inesperta nell’organizzare manifestazioni o dimostrazioni di qualsiasi natura, e ancora più incapace di organizzare e gestire manifestazioni così dure e così aggressive come furono quelle di allora”.
Enrico Berlinguer era il capo del circolo giovanile comunista in via San Sisto, descritto da Giuseppe Fiori nella sua Vita di Berlinguer (Laterza, 1989) come “un budello fradicio con odore di cavoli e lardo aspina sul Corso”. In quella sede la sera del 12 gennaio una ventina di ragazzi dei rioni popolari ascoltano il segretario del circolo. Berlinguer è uno studente di 22 anni, prossimo alla laurea in legge, figlio di Mario, uno dei leader del Partito d’azione e nipote di Enrico, che fu esponente di una famiglia di piccola nobiltà agraria e avvocato repubblicano garibaldino, deputato dell’Unione amendoliana e fondatore della Nuova Sardegna.
Quei giovani comunisti – tra cui Nino Manca, Nino Pinna, Pietro Carta, Giuseppe Cossu, Paolo Achenza e molti altri – discutono della manifestazione dell’indomani 13 gennaio. E si dividono i compiti, compreso quello di mostrare- e sarebbe stata la prima volta dopo il fascismo – un grande drappo rosso confezionato da un certo Ricci abitante in via Alghero. La notte diluvia, ma l’indomani molte centinaia di manifestanti percorrono in corteo la città. Chiedono la distribuzione di pane, pasta e olio. Sassari è stremata, povera, affamata Nel descrivere lo spettacolo di miseria di molte zone, Nino Manca racconta che in vicolo Sant’Elena, la famiglia di Pietro Francesco Conti, ogni notte doveva tirare su con una carrucola il tavolo da pranzo che rimaneva così sospeso per aria durante tutta la notte, muto spettatore della miseria imperante. In quell’unico vano di 25 metri quadrati vi abitavano in dodici: nonna nonno, padre e madre, cinque figlie femmine e tre maschi.
Torniamo al corteo che arriva in piazza d’Italia che invoca tra le urla la rimozione del prefetto considerato fascista. La polizia carica e i manifestanti si dirigono allora verso la sede della Commissione Alleata. Berlinguer li guida. Il corteo si scioglie tra le tensioni.
La sera, durante una riunione urgente nel circolo in via San Sisto 4, i dirigenti del Pci degli “adulti” appena rinato – diretto da uomini che avevano fatto carcere e confino come Andrea Lentini che nel 1920 era stato sindaco di Gonnesa – critica duramente l’avventurismo dei giovani compagni che partecipando a queste manifestazioni, ammoniscono, fanno il gioco dei fascisti, nascosti e sempre presenti.
Ma il giorno dopo le manifestazioni riprendono. Gli scontri più duri, questa volta con l’impegno dell’esercito con cani armati leggeri, mitraglie, fucili, moschetti che occupano tutta l’area del centro da piazza Castello a piazza Municipio fino a porta Sant’Antonio. Il corteo con il drappo rosso con falce e martello, arriva invia Mercato e in via Rosello, segue un’irruzione al mercato del pesce dove il direttore dottor Marras venne colpito con un cestello. “Il poco che trovano – ricostruisce Peppino Fiori – semola, pasta, zucchero e carbone è immediatamente distribuito”. Un primo scontro avviene al corso Vittorio Emanuele con i primi feriti e alcuni arresti. Due giovani sono liberati da tal Mario Usai, che se li fa consegnare senza colpo ferire dai militari, fuggiti a gambe levate.
Durante un’incursione al panificio della ditta Arru-Fadda in via Capo d’oro vengono sottratti cinque quintali di pane. L’assalto si ripete al mulino Farbo-Naseddu e al magazzino Fara. Un concentramento si forma in piazza Santa Caterina dove ci sono gli uffici annonari, spostandosi in piazza Municipale presidiata dall’esercito. I manifestanti ricorda Nino Manca “superando la barriera delle mitragliatrici la occupano, trovandosi a contatto fisico con i soldati che si trovano mescolati con la folla dei dimostranti senza che nulla di grave accada”.
Per i giovani comunisti sarà un duro risveglio il giorno dopo. Criticati dal partito, sconfessati dalla Concentrazione antifascista, sono oggetto anche di una repressione poliziesca. In galera finiscono molti di loro tra i 43 arrestati. Tra questi appunto Enrico Berlinguer portato in manette la mattina del 17 gennaio 1944 nella caserma dedicata al suo antenato Gerolamo Berlinguer che nel 1835 aveva sbaragliato la banda del fuorilegge Battista Canu.
“Comunista convinto, studioso delle teorie leniniste, dopo la caduta del fascio fu uno dei promotore fondatore del Partito comunista a Sassari – scrive in un rapporto il questore Dino Fabris, già funzionario della famigerata e occhiuta Ovra. Nominato segretario della sezione giovanile, si assunse il compito di spiegare le nuove idealità alla massa impartendo periodiche lezioni di comunismo un certo numero di gregari… Fanatico dell’idea, credette giunto il momento di applicare alla pratica le teorie più spinte del partito”.
Berlinguer e i suoi compagni restano in carcere a San Sebastiano cento lunghi giorni. Ne usciranno domenica 23 aprile 1944. Due mesi dopo Berlinguer è già a Salerno col padre Mario dove conosce Palmiro Togliatti, appena rientrato dal lungo esilio e dalla esperienza alla guida del Comintern.
In tanti anni continentali Berlinguer però non smise mai di coltivare i suoi rapporti con la Sardegna e con Sassari. Ritornò più volte per partecipare a iniziative politiche – l’inaugurazione della federazione di via Mazzini nel 1973 e diversi comizi in piazza, l’ultimo nel 1982 – e occasioni private. Come per assistere alla Faradda (la secolare festa dei candelieri) de114 agosto, trascorrere le sue vacanze a Stintino o passeggiare quasi intimidito dalla gente che lo saluta tra piazza d’Italia, via Giorgio Asproni e viale Dante dove in una casa presa in affitto era nato alle 3 del 25 maggio 1922. Così vicina alla chiesa di San Giuseppe che il 30 giugno dell’anno prima aveva visto il padre Mario sposare Mariuccia Loriga, figlia di Giuseppina Satta-Branca. E dove venne battezzato il 9 luglio con il nome di Enrico, come il nonno repubblicano.