Dodici pellicole di un biennio fondamentale (1959-1960). Parte da qui Alberto Crespi per raccontare mille storie di dodici grandi. Buñuel, Hitchcock, Mordicela Disney, Fellini, Wilder… Lo spettacolo sta per cominciare, spegnete i cellulari…
Paolo Mereghetti | la Lettura | 22 maggio 2022
Alla fine vorresti che non finisse mai, che questo viaggio tra film e registi, storie e aneddoti, dive e comprimari proseguisse ancora, aggiungendo piacere al piacere, quello per un cinema che, nonostante gli anni grami che sembra vivere adesso, contagiato anche lui da qualche forma di Covid-19, continua a rinascere dalle sue ceneri ogni volta che una storia prende forma sullo schermo. Perché quando chiudi le 400 pagine di Short Cuts (Laterza) ti porti dietro l’impressione, davvero rinfrancante, che le storie di cinema che ti hanno accompagnato fin lì ne nascondano molte altre, quasi innescassero una reazione a catena. Merito della ricchezza inesauribile della storia del cinema, certo, ma merito soprattutto di Alberto Crespi, che ha abbandonato il suo abituale ruolo di critico cinematografico (lo è stato per «l’Unità», prendendo il posto che fu di Ugo Casiraghi, e lo è tutt’ora, dai microfoni di HoIlywood Party su RadioTre) per prendere quello, qui davvero azzeccato, di cantastorie. Come lui stesso si autodefinisce.
L’idea è semplice e curiosa insieme: prendere un biennio fondamentale della storia del cinema — il 1959-1960 — e attraverso dodici film ripercorrere uno dei momenti nodali della cinematografia, il passaggio dal cinema «classico» al cinema «moderno». Ma non come farebbe un diligente studioso della materia, magari aspirante accademico, che finirebbe per perdersi tra teorie e interpretazioni, tra sfoggio di cultura e dimostrazioni (magari presunte) di genialità. No, Crespi vuole solo raccontare. Raccontare le tante cose che ha scoperto e imparato in tanti anni di amore per il cinema, fatto di amicizie e di interviste, di ricerche e di letture, e naturalmente di visioni. Come ha imparato a fare dai registi “classici” che inchiodavano lo spettatore con le loro storie, ma anche con la libertà dei registi «moderni», capaci di mandare a quel paese le regole e inventare un nuovo modo di raccontare. Tra Hawks e Godard, si potrebbe dire, prendendo spunto dal primo e dall’ultimo dei dodici film che compongono l’ossatura del libro.
Il cinema in 12 storie, dice il sottotitolo del libro, tutte contenute in quei due anni, il 1959 e il 1960 del secolo scorso. Ma che storie signora mia, verrebbe da aggiungere. Si comincia con Un dollaro d’onore di Howard Hawks e si prosegue con La dolce vita di Fellini, L’appartamento di Billy Wilder, La grande guerra di Monicelli, Nazarìn di Buñuel, Il mondo di Apu di Satyajit Ray, I magnifici sette di John Sturges, Psyco di Alfred Hitchcock, La bella addormentata nel bosco di Walt Disney, Historias de la revolución di Tomás Gutiérrez Alea, Sabato sera, domenica mattina di Karel Reisz e si finisce con Fino all’ultimo respiro di Jean-Lue Godard.
Dodici capolavori, dodici film che hanno segnato la storia del cinema, ma Crespi non si ferma ad esaltarne le qualità, lo dà (giustamente) per scontato. Quello che gli interessa è metterne in evidenza una caratteristica, una specificità o anche solo un dettaglio laterale, per esempio la reazione di Buñuel che alla notizia del premio e del successo avuto da Nazarìn a Cannes si lamentava perché «se i miei film cominciano a fare soldi, sarà la fine del mio prestigio come regista. È terribile». E da lì trovare lo spunto per parlare d’altro, per raccontare di un altro film o di un altro regista, per incastrare un’altra storia, lontanissima magari a rigor di logica, ma che in quel momento s’incastra perfettamente. E così da Buñuel si passa alla «nuova Greta Garbo» sovietica Lauis Septiko e poi al maliano Souleymane Cissé, all’hong-konghese Tsui Hark (intervistato alle otto di mattina di un giorno di Pasqua) per arrivare agli «800 eroi» di Shanghai. E di ognuno il «cantastorie» Crespi racconta un aneddoto, illustra una scelta di stile, sottolinea un’assonanza o una differenza con chi viene prima o dopo. Finendo per fare dei dodici film selezionati altrettanti ami con cui pescare mille altre storie.
E che storie! La lezione di Billy Wilder sul Lubitsch touch vale l’imbarazzo di Stravinskij quando scopre la sua sagra della primavera «riadattata» da Disney (e Stokowski) in Fantasia; come De Sica evitò di diventare un regista della Repubblica di Salò sta sullo stesso piano dell’invenzione del gatto in Il lungo addio; il ritratto di Ruan Lingyu (la più grande diva del cinema cinese degli anni Trenta) fa il paio con quello di Dino Risi e la sua erre arrotata; l’elogio dei film muti di Lois Weber (la prima regista di Hollywood) appassiona come il racconto del film mai fatto da Luigi Magni in Etiopia. E si potrebbe non fermarsi più, tanti sono i nomi e i fatti che stanno dentro Short Cuts. Abbiamo detto prima che per questo libro l’autore mette da parte la sua preparazione da critico, ma della sua assidua frequentazione cinematografica una cosa ha conservato, e lo dimostra quando parla di Howard Hawks e del suo Dollaro d’onore: per spiegare la semplicità ma anche la fluidità di quel modo di raccontare (dopo avere illustrato scena per scena i primi 3 minuti e 8 secondi di quel capolavoro western, dove non si pronuncia una parola ma si capisce benissimo che film sarà e che personaggi incontreremo) Crespi spiega come Hawks legava le scene una dietro l’altra: «Taglia sempre sul movimento e il pubblico non se ne accorgerà». Ecco, anche per questo libro Crespi ha tagliato sempre le sue storie «sul movimento». Non lascia mai che diventino troppo lunghe: taglia anche lui in movimento e passa alla prossima storia. E così non ne hai mai abbastanza, anche dopo averlo letto tutto.