Vincenzo Visco e Giovanna Faggionato | Domani | 3 febbraio 2023
La mia nipotina ha 11 anni, è figlia unica, ha due zii che non hanno figli e due prozie che non hanno discendenti diretti: nel corso della sua vita, dopo alcuni passaggi intermedi, erediterà i beni di sette famiglie, prevalentemente immobili, e quindi sarà una donna molto più benestante rispetto alle famiglie di origine. Se le leggi non cambieranno, non dovrà pagare tasse di successione di ammontare rilevante. Se deciderà di utilizzare uno degli immobili ereditati come prima casa, non pagherà nemmeno l’imposta immobiliare. Se sceglierà di affittare gli altri immobili ricevuti, pagherà un’imposta ridotta sui proventi degli affitti, e lo stesso accadrà se investirà parte delle eredità in titoli. Praticamente tutto ciò che potrebbe decidere di fare con i guadagni delle eredità sarà, dal punto di vista fiscale, più vantaggioso che lavorare.
Per le persone della mia generazione, che hanno vissuto il periodo in cui le diseguaglianze in Italia, e non solo, si sono ridotte, si tratta di un risultato paradossale. Un esito che in parte dipende da fattori demografici – la riduzione dei tassi di natalità conduce inevitabilmente a un aumento della concentrazione della ricchezza – ma anche dal fatto che i sistemi fiscali sono diventati sempre più sfavorevoli al lavoro.
Il lavoro è infatti quell’attività da cui il nostro Paese continua a estrarre più risorse da investire in sanità, scuola, sicurezza, per finanziare i servizi essenziali a disposizione di tutti. In un mondo in cui la quota di redditi da lavoro si sta riducendo, significa che per tenere in piedi il Paese chiediamo sempre più a una sola fonte di ricchezza, quella prodotta dal lavoro quotidiano, e a una platea che non corrisponde alla totalità dei cittadini.
Se niente cambierà, quello che consegneremo a mia nipote e anche ai vostri nipoti sarà un Paese reduce da una guerra combattuta più o meno in sordina, che dura da anni: la guerra delle tasse. Vinta dai privilegiati ma anche, battaglia dopo battaglia, eccezione dopo eccezione, da tutti quelli che sono riusciti ad ottenere da una classe politica in ostaggio di pressioni lobbistiche una miriade di eccezioni particolaristiche che hanno reso il fisco di questo Paese un castello di piccoli e grandi privilegi.
La posta in gioco della guerra delle tasse è molto alta: il sistema fiscale di un Paese è esattamente lo specchio del patto sociale, o comunque dell’assetto politico-sociale, di una comunità. Lo è dalle origini della civiltà: le tasse nascono con le prime comunità dell’homo sapiens per finanziare esigenze condivise, perfino di carattere solo rituale. Le imposte sono, quindi, un elemento costitutivo della vita sociale perché la verità è che senza tasse non può esistere una società organizzata. Le tasse rappresentano “un sacrificio individuale” per il raggiungimento di un fine collettivo.
La ricerca storica e archeologica conferma insomma che sulle tasse si costruiscono gli equilibri sociali, e i sistemi fiscali che si sono susseguiti nella storia ci rivelano, come fossero l’equazione che spiega un fenomeno del mondo fisico, la natura della nostra organizzazione sociale.
E la nostra formula del patto fiscale, che è appunto un patto sociale, è stata negli ultimi quarant’anni profondamente modificata a favore di alcuni e a sfavore di altri, sia sullo scenario internazionale sia in Italia, e con essa i rapporti di forza tra le parti sociali sono profondamente cambiati. Lo Stato, oggi, impone ad alcuni di contribuire per i servizi di tutti, a partire dalla sanità pubblica che ha fatto da argine alla pandemia, e ad altri invece no, o in misura ridotta.
L’inizio. Questa guerra delle tasse che ha modificato il nostro patto sociale parte da lontano e non è ancora finita. Una delle più importanti battaglie dovrebbe essere, ma non è detto che lo sarà, la riforma del fisco, su cui almeno per certi aspetti il nostro Paese si è impegnato con il Piano di ripresa e resilienza finanziato dall’Unione europea. Ma per capirla nella sua complessità, per comprendere la situazione italiana con tutte le sue peculiarità e anche il contesto internazionale che l’ha influenzata, bisogna partire dall’inizio.
La storia della tassazione del Novecento va di pari passo con le grandi fratture del secolo. E non potrebbe essere diversamente. Negli anni Venti del secolo breve, per usare la categorizzazione dello storico britannico Eric Hobsbawm che risulta calzante anche per l’evoluzione dei sistemi fiscali, la maggioranza dei Paesi industriali aveva una imposta generale sul reddito personale. Con i conflitti mondiali e in particolare durante la Seconda guerra mondiale, l’imposta generale sul reddito personale è diventata una delle principali fonti di risorse per gli Stati. Ma l’altra caratteristica comune alle nazioni uscite dal secondo conflitto mondiale è che queste imposte erano progressive e che questa progressività si traduceva in moltissimi scaglioni di aliquota, contrariamente a quanto accade oggi nei Paesi sviluppati. Per dare un’idea del diverso patto sociale: negli Stati Uniti nel 1944 e 1945 gli scaglioni erano 24 e le aliquote, cioè la percentuale di tassazione sul reddito compreso nello scaglione, variavano dal 23 al 94%. Venti anni dopo, tra il 1965 e il 1974, gli scaglioni erano comunque 26, l’aliquota minima era scesa al 14% e quella massima al 70%. In Italia tra il 1974 e il 1982 l’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) aveva 32 scaglioni, un’aliquota minima del 10%, e una massima del 72%.
Questo schema, insieme ai contributi sociali sui redditi di lavoro, è stato la base per la creazione del sistema di welfare del nostro Paese e in generale della maggioranza delle democrazie liberali occidentali: cioè amministrazione pubblica, infrastrutture, scuola pubblica e, in Europa, anche servizi sanitari nazionali. Attorno agli anni Ottanta però la formula è cambiata: le tasse, soprattutto la loro progressività, hanno iniziato a ridursi in maniera vistosa, se non a scomparire.
Prima di tutto, per rendere i sistemi fiscali più semplici – obiettivo condivisibile – la maggioranza degli Stati ha iniziato a ridurre il numero degli scaglioni, anche a scapito della equità che per forza di cose si è ridotta assieme ad essi, costringendo nelle stesse classi di aliquota cittadini con redditi anche molto diversi tra loro. Ma assieme alla semplificazione c’è stata un’altra tendenza: la riduzione delle tasse per i cittadini più ricchi. La riduzione del numero degli scaglioni, e delle aliquote più elevate, implica, a parità di gettito (e talvolta, come in Italia, anche nel caso in cui il gettito complessivo venga ridotto), un aumento del prelievo sui ceti medi, fermo restando il livello del prelievo per i più poveri.
In quegli anni iniziano ad essere progressivamente esclusi dal sistema di estrazione delle risorse, e quindi dal patto sociale, i redditi da capitale. Le imposte sulle società iniziano a diminuire in maniera rilevante rispetto a quelle pagate dai lavoratori. Il motivo iniziale è la liberalizzazione dei mercati di capitali: quelli sono mobili, i lavoratori no. E quindi il fisco rinuncia progressivamente a tassarli. Per dirla in breve: la tassazione sul capitale e quella sul lavoro hanno imboccato allora due binari molto diversi, perché il patto sociale e i rapporti di forza tra i due è cambiato radicalmente.
I dati raccolti negli anni dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale (Fmi) non lasciano molti dubbi. L’aliquota dell’imposta sulle società è passata in media dal 40- 50% di allora al 20-30% attuale. In sostanza le democrazie liberali occidentali hanno deciso che le tasse devono pagarle soprattutto i lavoratori e lo hanno fatto mentre la quota di reddito da lavoro, tra globalizzazione e automazione, si è notevolmente ridotta: negli anni Ottanta pesava per il 65-70% dei redditi prodotti, oggi si attesta anche a meno del 50%. Un calo di 10-15 punti in tutto l’Occidente.
Oltre alle ragioni “tecniche” che hanno motivato queste scelte, ciò che è interessante e che va tenuto presente ancora oggi ogni volta che sentiamo un politico promettere che abbasserà le tasse – spesso anche senza specificare quale categoria di cittadini potrà usufruire del vantaggio rispetto agli altri –, è il clima culturale che ha portato al cambiamento dei nostri sistemi fiscali.