Giusto Traina analizza con scattante ironia gli stereotipi, le sciocchezze e gli abusi che popolano il discorso comune sull’antico
Carlo Franco | Alias | 23 aprile 2023
L’attenzione rivolta al mondo antico affronta nel presente una trasformazione radicale. L’interesse per il passato, in qualunque forma, è in affanno rispetto al dilagare del presentismo. Le istanze della cultura globale infatti hanno marginalizzato (e colpevolizzato) la cultura greco-romana. La guerra allo storicismo ha sconfessato i metodi della presunta «scienza dell’antichità». Il paradigma filologico sopravvive solo dentro una piccola cerchia di dotti. L’autorevolezza del metodo e della critica è stata mortificata. Sono decadute competenze tecniche e linguistiche un tempo diffuse, sono cresciuti invece gli studi sulla «ricezione» del mondo antico: un modello flessibile e moderno, ma non così innocuo, giacché la persistenza dell’antico ha creato (anche) un costrutto ideologico fatto di ambiguità e tratti talora imbarazzanti (come un pensiero eurocentrico, solo di recente ripensato in modo critico).
Di tutto questo discute uno scattante libro di Giusto Traina, che per scelta adotta una scrittura leggera (ma con solida informazione), remota dallo stile inutilmente pensoso di certi tardivi elzeviristi dell’antico: I Greci e i Romanici salveranno dalla barbarie. Il titolo suona ironico: come un Lucrezio che rivela i guasti della religiosità tradizionale, Traina mostra che in nome dei classici greci e latini «si sono giustificate e tuttora si giustificano brutte cose». Altro che incolpare i barbari, quindi. La dimostrazione si serve di una panoramica delle sciocchezze ovvero delle banalità che popolano il discorso comune sull’antico. Con forza, ne denuncia gli stereotipi e gli abusi, spesso branditi come valori da certe vestali nostalgiche dei giorni felici (sebbene ormai quasi sepolte, come Winnie). Ce n’è per tutti.
Anzitutto per chi continua a pensare solo a una Grecia classicheggiante, fatta invariabilmente di partenoni e pepli bianchi, di democratici ateniesi vincitori di gradassi e rammolliti persiani, di filosofi barbuti che additano cielo (o terra). Tollerate appena le chiese bizantine e gli igumeni barbuti. Invisibile, invece, e incompresa, rimane la Grecia moderna e contemporanea, i cui palazzi e il cui traffico s’intrude e disturba il sogno romantico (che meglio si cercherebbe, in tal caso, nella Königsplatz di Monaco). Di qui la difficoltà verso ogni approccio diverso: quello di chi sia attratto dalle «radici afroamericane» della civiltà classica, ma anche quello di chi ami una grecità primitiva e violenta, tra Nietzsche, Frazer e Pavese. Non per caso, invece, si continuano a illustrare libri sull’Ellade con quadri di Alma-Tadema e simili, che sono rassicuranti o, alla peggio, morbid. E si continuano a ricercare miti e modelli «eterni», che compiacciono il gusto contemporaneo per la narrazione edificante. Così, dopo aver affermato che riprendere o imitare i «valori» antichi era un errore, si finisce felicemente per ricercare i nostri valori nei testi dell’antichità. E dunque, se nell’Ottocento ogni poeta patriottico era un Tirteo, oggi ogni giovane ribelle è invariabilmente un’Antigone. Identificazione che poco convince chi ricordi che, nella tragedia di Sofocle, la figlia di Edipo dichiara di stare meglio con i morti che con i vivi (v. 75), non già di agire in nome della libertà o del pacifismo, come si preferirebbe. Nella Tebe di Sofocle, insomma, non c’era una Rosenstraße.
Altro grande capitolo di riuso improprio dell’Antico è stato quello di Roma in età fascista. Quell’idea della romanità derivava, certo, da un «mito» radicato almeno dai tempi di Mameli, poi rivitalizzato dal nazionalismo. Il fascismo ne fece il centro di un progetto identitario, unendovi «Roma, onde Cristo è romano» e piazzando il latino persino sui francobolli postali. Più insidiosa fu la vernice classica di uno sforzo imperiale, che risultò improvvisato ed effimero. Il tema è molto studiato, non solo in Italia, talora con contributi nuovi, soprattutto d’archivio. Antico fu anche il modello esibito a supporto del nostrano colonialismo, soprattutto nella fase libica e nella guerra etiopica. E proprio l’educazione classica sembra aver aiutato intellettuali anche insospettabili ad abbracciare la causa: da Pascoli che nel 1911 elogiava l’azione della «grande proletaria», al pensoso storico cattolico Gaetano de Sanctis, che da antifascista appoggiò nel 1936 la guerra di civiltà in Etiopia.
Ancora paradigmi antichi sorressero dunque (o ci provarono) la politica aggressiva dell’Italia mediterranea, immaginando nuovi Scipioni e «quarte» guerre puniche: ma la battaglia finale in Africa del maggio 1943 ebbe un esito opposto al presunto modello. Sia chiaro, questi riusi e abusi sono naturali, e fanno essi pure parte della «fortuna» dei temi antichi, quando agiscono su di essi le sollecitazioni mutevoli della politica o dell’ideologia. Ma rispetto a tutto questo, quale è stato il ruolo degli antichisti, custodi dell’ortodossia? A loro, in verità, toccano nel libro note sarcastiche. Dell’abuso fascista, in larga misura, furono complici, perché toccava loro una visibilità mai più raggiunta. Passata quell’orgia, e maturati tanti elementi di crisi dell’antico, essi spesso sono stati difensori maldestri, che alla causa del mondo classico hanno recato più danno che vantaggio. Ritenerli responsabili di un guasto potrebbe parere accusa ingenerosa: in fondo, gli antichisti oggi sono minacciosi per l’assetto sociale e economico quanto lo era il dodo per gli abitanti di Mauritius. E la fine di entrambi pare sia per essere la medesima.
Come che sia, Traina è lontano dai piagnistei sulla decadenza dei classici, e addita piuttosto un fattore importante di crisi dell’antichistica nella perdita di «curiosità» degli addetti ai lavori. Molte energie sono da anni indirizzate a sistemare il nuovo nel noto, con abbondanza di formalismi e di ricerche poco o punto creative. Il criminogeno sistema di reclutamento accademico fa il resto, soprattutto nel decrepito settore umanistico, sterilizzando le indagini secondo modelli ingabbiati o prevedibili (compreso gender o inclusività, s’intende).
Se il mondo greco-romano può dare ancora risposte alle domande del nostro presente, ciò dipende dalla capacità di guardare verso realtà marginali, meno evidenti, ma non perciò assenti dall’immagine che il mondo classico ha mostrato di sé o che i moderni giungono a comprendere. Grecità e barbarie, osservò tempo fa Tucidide, sono concetti complementari. Proprio ai barbari andrà dunque rivolto lo sguardo (come nella tarda antichità?) per trovare un posto ai classici. Li si potrà studiare nelle relazioni internazionali, e non solo per capire la «trappola di Tucidide». D’altra parte, la sfida si fa ardua: un importante ateneo italiano ha attivato un corso di Global Humanities. Quindi? Quindi i Greci e i Romani, se alleati con i «barbari», si salveranno, e ci salveranno dalla muffa, ormai tossica, del classicismo.