Israele-Palestina: discutere la guerra

L'intervento di Claudio Vercelli

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.
La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo gli interventi di Anna Foa e di Marcello Flores e Giovanni Gozzini, pubblichiamo il contributo di Claudio Vercelli, storico contemporaneista e docente di Studi ebraici, che con la casa editrice ha pubblicato, tra l’altro, Storia del conflitto israelo-palestinese e Israele. Una storia in 10 quadri.]

 

Parole dure, parole necessarie: andare oltre l’abituale orizzonte

No, nulla sarà più come prima. Ammettiamolo, anche se ciò scardina non tanto certezze (quali – poi – se non quelle espresse da tifoserie contrapposte?) bensì l’abitudine a pensare che quel novero di attori, luoghi, circostanze e condotte, definito come «conflitto israelo-palestinese» sia comunque destinato a ripetersi, nella sua apparente inesorabilità, attraverso il fluire del corso del tempo. Quindi, in fondo sempre eguale a sé. Poiché se era così sembrato, illusoriamente, per il passato, del pari si riteneva che potesse essere ancora reiterato per il tempo a venire. Quindi, per l’oggi.

Il cosiddetto «status quo», tale poiché basato non su un’apparente immobilità dei protagonisti bensì sull’imposizione di fatto di rapporti di forza, è stato invece divelto e scoperchiato. Una volta per sempre. Siamo quindi ad un bivio storico. C’era da attenderselo, in fondo. Due debolezze non fanno una forza. Mentre la colonizzazione israeliana di ciò che resta dei Territori palestinesi (la Cisgiordania, altrimenti qualificata come West Bank, Giudea e Samaria, territorio «amministrato», «occupato», «conteso» e così via) è proseguita nel tempo in maniera spregiudicata, la risposta che ne è derivata dalla controparte non è stata in alcun modo la ricerca di una via nazionale, e come tale unitaria, alla contrapposizione con Israele, bensì la frammentazione in una serie di entità in lotta tra di loro. Il ruolo di Hamas, ad oggi, deriva essenzialmente da un tale stato di cose. Dove si misura la debolezza del campo palestinese, frammentato e scomposto, nel lasciare spazio a protagonisti tanto intransigenti come anche, e soprattutto, intolleranti. Tra di loro in competizione per il controllo non solo di alcune terre (la cui rilevanza è marginale) ma anche, e soprattutto, dei benefici di una diffusa economia illegale che da decenni si nutre, in stile puramente camorristico, soprattutto del saccheggio della società locale. Il computo dei generosi aiuti internazionali rivolti ai profughi palestinesi (deviati perlopiù verso destinazioni discrezionali), e l’azione corporativa esercitata da una parte dell’Unrwa, vero e proprio soggetto politico radicatosi nei Territori palestinesi, dovrebbe indurre, da subito, a riflettere oltre la mera cortina delle immagini di circostanza.

Vittime e carnefici, prevaricatori e prevaricati – così come l’armamentario che si accompagna, nell’uno caso come nell’altro, al ricorso alle reciproche accuse di «genocidio», «terrorismo» al pari dell’incauto riferimento al «colonialismo» (storicamente fuori tempo massimo, se non ci si riferisca agli studi sul colonialismo di insediamento, che sono invece tutt’altra cosa), del pari al «nazi-sionismo» (un termine che non data ad oggi, avendo una sua storia che inizia in Urss negli anni Sessanta), all’«apartheid», per così proseguire – rivelano la loro sostanziale inefficacia euristica. Ossia, se espresse da subito come giudizio di valore e non come complessa valutazione di fatto, maturata quindi nel tempo, costituiscono una sorta di esercizio retorico, informato ad un feticismo intellettuale debitore non dell’impegno dello sforzo di comprensione bensì della deriva inscritta nell’incomprensione dei segni del tempo corrente. Quest’ultima, come tale, in sé compiaciuta, poiché radicata nel bisogno di giudicare senza comprendere né, tanto meno, concorrere a modificare.

L’onanismo intellettuale, che si ammanta di indignazione perpetua, è peraltro uno dei propellenti della deriva populista collettiva. La stessa società israeliana, ad oggi, è infatti sottoposta ad una tensione e ad una torsione senza pari. Poiché le spinte regressive non sono solo quelle che derivano dall’esterno (sempre meno gli Stati arabi e musulmani, con l’eccezione dell’Iran e della Turchia), come sempre di più dai movimenti di re-islamizzazione che, nell’indicare in Gerusalemme ebraica lo scandalo della contemporaneità, invece si adoperano in un’opera di distruzione del pluralismo espresso, con grande fatica, dalle società nazionali arabe. In quanto in Israele, ed in particolare negli insediamenti colonici presenti in Cisgiordania, si sta invece manifestando appieno l’onda lunga di una destra eversiva, che dagli anni Settanta in poi è andata progressivamente montando. Passando per l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin (1995). Ad oggi, nel governo Netanyahu, una tale compagine riesce ad esprimere alcuni ministri. Che rivendicano la loro visione razzista e messianica, senza tanti giri di parole. Godendo pertanto di un seguito per nulla marginale. Esiste un problema, in campo israeliano, ed è quello del suprematismo etnico. Il quale, da originaria nicchia a sé, nel tempo si è esteso, minacciando quindi – per prima – la vitalità stessa del Paese. Nonché la sua futura evoluzione.

Con il sionismo, tutto ciò ha poco o nulla a che fare. Al netto di coloro che, invece, ritengono di saperla lunga, affermando semmai che «il vizio stia nel manico». Ossia, nel vecchio nazionalismo ebraico. Se così altrimenti fosse, allora, anche il nazionalismo palestinese dovrebbe altrimenti essere censurato e obliato. Dopo di che (come i seguaci di Trump negli Stati Uniti, gli apologeti di Bolsonaro e Milei in America latina, i ferventi devoti dei vari Putin e Orbán e così via, ritengono che la “soluzione” stia nel distruggere quello che già c’è) anche in Israele si è formato un blocco della guerra e della terra, una sorta di alleanza elettorale «Blut und Boden», che intende destrutturare non solo i “nemici” ma anche, e soprattutto, la fragile democrazia interna. È come una sorta di mucchio selvaggio, composto da ferventi zeloti di varia estrazione, tuttavia accomunati dalla “santificazione della terra”. Lords of Land, come li hanno definiti diversi studiosi di vaglia. Tali poiché animati da una totale intolleranza verso il pluralismo (di qualsivoglia genere); comunque, in completa sintonia con le spinte maniacali che agitano il sovranismo e l’identitarismo che attraversano il mondo delle pencolanti democrazie liberali e sociali.

La crisi, a conti fatti, è quindi dentro le due entità nazionali, non importa se esse stesse ad un diverso grado di sviluppo. Poiché le medesime non sono simmetriche ma, storicamente, espressioni di due percorsi paralleli (il nazionalismo sionista e quello arabo-palestinese), per nulla sovrapponibili e quindi omologabili. Non per questo, tuttavia, tra di loro estranei. Nei tempi, nei modi, nei pensieri, così come nelle azioni.

In un tale contesto, l’Onu, ovvero la sua Assemblea, è oramai non solo un organismo debole, collaterale, a tratti anacronistico. È soprattutto il risultato di contrapposte coalizioni di interessi che, sempre più spesso, guardano a Pechino e a Mosca (ed in subordine a Teheran) per esprimersi con risoluzioni di dubbia consistenza e ancora minore applicabilità. Anche questo è in sé un esercizio retorico ma, al netto della sua concreta inanità politica, serve comunque a consolidare simbolismi collettivi che fingono di giudicare quando, invece, non intendono capire né, tanto meno, trasformare alcunché. L’emissione di condanne a ripetizione non rimanda ad una qualche potenziale ricomposizione consensuale bensì al riscontro della frantumazione dell’ordine internazionale. Ogni attore in campo cerca di giovarsene, fingendo di evocare e rappresentare interessi insindacabili e principi incontrovertibili.

In tutto ciò sono subentrate, ad oggi, variabili per nulla gestibili, quanto meno adottando la strumentazione della vecchia politica, quella del Novecento. Nel feroce conflitto autocratico tra il governo Netanyahu e la leadership di Hamas (poiché di ciò, a conti fatti, si tratta), da entrambe le parti sono giunti chiari segnali di una precisa volontà, ovvero quella di destrutturare il pluralismo delle rispettive comunità nazionali. La guerra, ancora una volta, non è solo un esercizio belluino e ferino contro l’avversario bensì uno strumento di mobilitazione e allineamento della comunità nazionali che ne sono chiamate in causa. Azzerandone la dialettica interna. I criminali di Hamas, il 7 ottobre 2023, a modo loro ben lo sapevano. Hanno operato in tale senso, calcolando sapientemente che avrebbero trovato una controparte (non Israele nel suo insieme bensì esponenti della sua attuale leadership), tanto cedevole quanto disponibile a prestarsi ad un tale gioco così efferato.

Pensare la guerra, allora, implica il ripartire da tutto ciò, ossia da un quadro molto confuso che, proprio come tale, registra in sé il disfacimento dei vecchi ordinamenti internazionali del pari alla fatica di comprendere quel che resta degli Stati nazionali e dei nazionalismi in via di dismissione, dinanzi al globalismo dei mercati. Il ripetuto confronto tra israeliani e palestinesi risponde, non a caso, ad un tale ordine di considerazioni. Ne è quindi uno specchio. Molto problematico, pieno di insidie, assediato da pregiudizi come anche da etichettature di circostanza. Nonché da identificazioni tanto acritiche quanto puramente moralistiche, dove l’assolutismo cristallizzato del vittimismo si sostituisce al fluire del giudizio, non solo quello storico, bensì al senso della comprensione del mutamento politico, economico, sociale e culturale in atto.

Abbandonando invece il tutto al piagnisteo compulsivo, all’ossessiva reiterazione di cliché, alla maniacale necessità di mettere etichette, ci consegneremo tutti, minoranze come maggioranza, al ritorno del dispotismo feudale, alla frammentazione tra corporazioni ossidate, al declino di quella democrazia inclusiva, nata sulle macerie del 1945, che ad oggi misura invece il suo diffuso affaticamento. Siamo ad una svolta. Chi se ne avvede, potrà cercare di salvare almeno sé stesso. Questo, in fondo, è ciò che ci consegna l’attualità del groviglio mediorientale e, con esso, quello israelo-palestinese. Poiché, de te fabula narratur.