[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.
La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.
Dopo gli interventi di Anna Foa, Marcello Flores, Giovanni Gozzini e Claudio Vercelli, pubblichiamo il contributo di Arturo Marzano, professore associato presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Si occupa in particolare di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conflitto israelo-palestinese e dei rapporti fra Europa e Medio Oriente.]
Gli eventi drammatici che si sono succeduti in Israele/Palestina a partire dal 7 ottobre costituiscono uno spartiacque all’interno del conflitto israelo-palestinese ed è piuttosto chiaro che la storia ricorderà quanto sta accadendo in questi mesi come un momento di svolta. La portata di questi avvenimenti non si può ancora valutare fino in fondo, ma alcune riflessioni sulle implicazioni politiche credo si possano già fare.
Nello specifico, ritengo che quattro siano gli aspetti principali che tali avvenimenti stanno mettendo in luce. In primo luogo, la riacquisizione della centralità politica della Palestina a livello globale. Non è chiaro – e forse non lo sarà mai – quale fosse l’obiettivo dell’attacco di Hamas, ovviamente configurabile come atti terroristici e crimini di guerra. È possibile che lo scopo principale fosse essenzialmente la cattura di ostaggi, militari e civili, in modo tale da effettuare uno scambio per liberare le migliaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. In ogni caso, il risultato del 7 ottobre e della guerra in atto a Gaza è stato riportare la Palestina al centro del dibattito politico mondiale, in un periodo in cui le guerre civili in Siria e Yemen, da un lato, e gli accordi di Abramo, dall’altro, avevano relegato in un angolo il conflitto israelo-palestinese, come se in Medio Oriente si potesse andare avanti facendo finta di niente. Il fatto che il presidente americano Joe Biden oggi parli apertamente di una soluzione politica al conflitto secondo la logica “due popoli, due Stati”, indipendentemente dal fatto che questa sia praticabile o meno, è un risultato politico importante, che Hamas certamente si intesta e si intesterà.
E questo mi porta a parlare del secondo aspetto. Anche in questo caso, è molto difficile esprimere un giudizio a caldo. Tuttavia, è plausibile che Hamas, lungi dall’obiettivo israeliano di “cancellarla”, si stia in realtà rafforzando nei consensi all’interno del mondo palestinese; e questo conferma come Hamas abbia tutta l’intenzione – e, a mio avviso, la capacità – di giocare un ruolo di primo piano all’interno della politica palestinese dei prossimi anni. Come sarà possibile fare finta che Hamas non sia un attore politico da cui non si può prescindere? Quale sarà l’atteggiamento dell’Unione Europea e degli Stati Uniti verso la forza islamista? Proseguirà la chiusura, come accadde nel biennio 2007-2008, oppure si assisterà ad un cambiamento di politica, con l’apertura di un dialogo? L’Unione Europea, attualmente schiacciata sulle posizioni statunitensi, recupererà una propria autonomia, come era successo in passato? Chi ha un minimo di memoria storica non può non ricordare come Bruxelles nel 1980 avesse deciso di riconoscere l’OLP come un interlocutore politico, nonostante Stati Uniti e Israele la ritenessero un’organizzazione terroristica. Così facendo, l’allora Comunità economica europea dialogò con l’OLP, incidendo su quel percorso di moderazione che portò quest’ultimo al riconoscimento di Israele. Se nel breve periodo non sembra che l’Europa sia disposta a mutare il proprio atteggiamento verso Hamas, nel medio periodo è possibile che le cose cambino, soprattutto se, rileggendo la storia degli ultimi quindici anni, ci si renderà conto del fatto che l’ostracismo di Bruxelles e Washington nel biennio 2006-2007 abbia finito per radicalizzare Hamas, ponendo fine ad una fase pragmatica iniziata nel 2005. Peserà certamente sul comportamento dell’Unione Europea l’atteggiamento del governo israeliano, impegnato a impedire un cambio di politica europea verso Hamas. Ma la questione di fondo non potrà essere elusa: come è possibile agire in Palestina senza il coinvolgimento di Hamas, un attore politico così rilevante, se non il più rilevante?
Il terzo aspetto concerne la strategia che sta portando avanti il governo israeliano. Per quanto concerne gli obiettivi di Israele, la “cancellazione” di Hamas è stata ripetuta costantemente negli scorsi mesi da numerosi esponenti della politica israeliana come il risultato cui mirano le operazioni militari a Gaza, che non possono non essere definite crimini di guerra vista la assoluta sproporzionalità sotto gli occhi di tutti. Non è tuttavia chiaro che cosa significhi “cancellazione” e come il governo israeliano pensi di poterla concretamente realizzare. Come è noto, Hamas ha una leadership plurale, sparsa in vari paesi del Medio Oriente e decapitarla è dunque del tutto irrealistico. È possibile che Israele si accontenti di uccidere Yahya Sinwar e Mohammed Deif, rispettivamente leader politico di Hamas a Gaza e capo dell’ala militare. Fermo restando che Israele ci riesca, cosa non facile, rimane un punto fondamentale: come la storia ha già dimostrato – si pensi all’uccisone dei due ex-numeri uno di Hamas, Sheikh Ahmed Yassin e Abdel Aziz al-Rantisi – una volta eliminati loro, ci sono decine di persone pronte a sostituirli e nulla lascia pensare che queste siano più disposte a compromessi. Al contempo, Hamas è un attore complesso e, oltre alla sua ala militare, vi è quella politica e quella sociale, il che spiega perché l’organizzazione islamista goda ancora di molti consensi in Palestina. “Cancellare” Hamas significa annientare la sua leadership o eliminare le migliaia di persone che la sostengono per le sue attività sociali e il suo impegno politico? Le conseguenze della guerra sulla popolazione della Striscia di Gaza sono evidenti a tutti coloro che abbiano voglia di documentarsi: quasi 29.000 morti, di cui più di 12.000 bambini; la distruzione di circa il 50% delle abitazioni private, come pure di centinaia di strutture pubbliche, dagli ospedali alle scuole, alle università, ai luoghi di culto, agli uffici governativi; circa l’85% della popolazione di Gaza sfollata all’interno della Striscia. Che cosa vuole ottenere il governo israeliano? Numerosi esponenti israeliani, sia civili sia militari, hanno evocato la pulizia etnica della Striscia, in linea con una tradizione di lungo corso, presente tanto nel movimento sionista quanto nella leadership israeliana: il sogno di stabilire una maggioranza ebraica in Eretz Israel (contro cui ad esempio scriveva l’ebreo romano Enzo Sereni già a metà degli anni Trenta), acquisendo terra senza la popolazione palestinese che vi risiedeva e incoraggiandone l’emigrazione volontaria, in particolare dalla Striscia di Gaza, come evidente subito dopo la conquista del 1967. Anche se per comprendere quanto sta accadendo ci vorrà ancora tempo, ci sono molti elementi che fanno pensare che pulire etnicamente la Striscia, facendo allontanare il più alto numero di palestinesi, sia il vero obiettivo di Israele. Dove, d’altronde, potrebbe vivere la popolazione della Striscia se questa è un cumulo di macerie e i bombardamenti israeliani non accennano a diminuire? Al contempo, c’è un’altra pulizia etnica che sta andando avanti silenziosamente, o meglio nel silenzio dell’opinione pubblica europea e americana, quella della Cisgiordania, dove gruppi di coloni di estrema destra, sostenuti in questo dai partiti di governo che rappresentano i loro interessi, stanno cacciando contadini e allevatori palestinesi dai villaggi dove risiedevano da generazioni. La guerra a Gaza sta permettendo al governo di fare tutto questo, mentre la società israeliana, comprensibilmente scossa da quanto accaduto il 7 ottobre e dall’irrisolta vicenda degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, si disinteressa di quanto accade a pochi chilometri di distanza, con l’eccezione delle solite ammirevoli associazioni della società civile israeliana, impegnate a impedire fisicamente gli attacchi dei coloni contro villaggi palestinesi, come testimoniato dall’altrettanto ammirevole giornalismo indipendente israeliano, si pensi al quotidiano Haaretz.
Il quarto aspetto che merita di essere portato all’attenzione è, infine, l’aumento di islamofobia e di antisemitismo nei contesti europeo e americano. Si tratta di fenomeni preoccupanti, che non possono passare inosservati e devono essere totalmente condannati. La questione è come combatterli, ed è qui che la politica ha un ruolo fondamentale. Mi concentro in particolare sull’antisemitismo, poiché episodi chiaramente antisemiti sono stati negli ultimi mesi numerosi in Italia. Questi eventi si intrecciano con un dibattito piuttosto acceso relativo alla definizione di antisemitismo e, nello specifico, al rapporto tra antisemitismo e antisionismo. Sebbene esistano delle possibilità di sovrapposizione tra i due – troppo spesso critiche alla politica israeliana pescano da un «archivio antiebraico» molto corposo, utilizzando retoriche esplicitamente o implicitamente antisemite – il rischio di un eccessivo schiacciamento del secondo sul primo è che qualsiasi critica a Israele sia potenzialmente interpretabile come antisemita. In questo modo, da un lato, si mette il bavaglio a singoli o a gruppi che denunciano la politica israeliana con evidenti conseguenze negative sulla libertà di espressione; dall’altro, si perde di vista quell’antisemitismo – purtroppo ancora molto presente in Europa, inclusa l’Italia – che non ha a che fare con la politica israeliana, ma si basa su pregiudizi e ostilità contro gli ebrei di lunghissimo periodo. Il fatto che attacchi a singoli ebrei o luoghi riconducibili alle comunità ebraiche aumentino durante guerre che vedono coinvolto Israele è ovviamente intollerabile, ma ciò non deve dare adito ad un silenziamento delle voci che criticano Israele con l’accusa, peraltro spesso del tutto pretestuosa, di antisemitismo.
Soltanto il tempo dirà in che modo gli eventi drammatici di questi mesi, con un cessate il fuoco che ancora non arriva e che invece andrebbe implementato al più presto, incideranno su una possibile soluzione del conflitto israelo-palestinese. Nulla, in questo momento, lascia pensare che israeliani e palestinesi possano intraprendere un processo che porti ad una soluzione politica del conflitto. Esiste tuttavia una luce che, seppure fioca e marginale, illumina la notte. Si tratta dei gruppi congiunti arabo-ebraici, israelo-palestinesi che si incontrano, manifestano, propongono iniziative di pace dal basso. Ne citerò uno solo, ‘omdim be-iachad / naqif ma‘an [stiamo in piedi insieme in ebraico e in arabo], uno dei cui slogan post-7 ottobre è assolutamente commuovente: «supereremo questo insieme». Nonostante la situazione drammatica in cui versa la popolazione di Gaza, e nonostante il dolore e l’angoscia nella società israeliana per quanto accaduto il 7 ottobre e per le sorti degli ostaggi, questi gruppi dimostrano che incontrare l’altro è possibile e necessario, anche – se non soprattutto – in questi momenti.